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Dietro le quinte del diritto» Ciò che videro Turi il Caprettaro e Stellina l’Erbivendola -Giuristi & Diritto.it

 

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A cura del Prof. Avv. Domenico Corradini H. Broussard

 

Giuristi & Diritto

Premessa

 

Ho ascoltato in video registrazione i consigli che alcuni avvocati dispensano online a chi comincia a studiare il diritto: codici, manuali, ricerca della ratio dei singoli istituti e dell’interesse che proteggono. E mi sembra che quei consigli siano rimasti fermi a una concezione normativistica del diritto. Siano rimasti fermi a Kelsen.

 

Sia permesso anche a me qualche consiglio, muovendo da un dato spesso trascurato o sottovalutato, specie da quegli studenti e da quegli studiosi che considerano il diritto come una semplice tecnica o come un sistema autopoietico e autoreferenziale e così lo sollevano dalle altre scienze sociali e dall’esperienza comune degli uomini comuni e lo proiettano in un cielo di astrazioni che non si sa dove sia e se sia. E il dato è questo: nelle Facoltà di giurisprudenza s’insegnano discipline filosofiche e storiche ed economiche, discipline che ahinoi sono snobbate o quasi e presto dimenticate e tanto più dimenticate quanto più ci dedica alle professioni forensi o al notariato o agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni.

 

 

 

La mia convinzione è che, proprio grazie alle discipline filosofiche e storiche ed economiche, gli studenti e gli studiosi del diritto sono in grado di vedere ciò che è necessario vedere: il «rovescio del diritto» e sono in grado d’andare «dietro le quinte del diritto»: là dove pulsa la vita reale, là dove il debitore inadempiente è l’omino che disperato esce dalla sua casa gialla di tufo stringendo tra l’indice e il pollice la cambiale che non può pagare perché ha moglie e figli da sfamare, là dove l’imputato sconta già la sua pena in un processo lungo e per lui angoscioso e non a torto desidera che venga messo in carcere invece di assistere alla iattanza con cui il pubblico ministero lo accusa.

 

Procedo per paragrafi.

 

 

 

1. Il diritto è mercantile

 

Il diritto ha una spiccata vocazione mercantile. Regola sì il mercato mobiliare e immobiliare. Regola sì le operazioni stile Wall Street, le plusvalenze, gli investimenti, i tassi d’interesse, le azioni e le obbligazioni in Borsa, l’insider trading. Ma in effetti è dal mercato regolato. E docile alle leggi del mercato si piega. A partire dalla legge fondamentale: quella del do ut des.

 

La forma più semplice e più antica dello scambio delle merci, quando Turi il Caprettaro a Stellina l’Erbivendola metteva in mano un po’ di latte per ricevere dalle sue mani un po’ d’erba: il baratto. Il diritto, ribattezzandola con il nome di «permuta», la equipara alla vendita. E la vendita, tra i contratti tipici, occupa il primo posto.

 

Non a caso, lo occupa.

 

Il circuito economico «merce-denaro-merce» è un prius ontico rispetto all’ontico contratto di vendita. Non è infatti detto che gli ónta debbano darsi nello stesso istante. Alcuni vengono prima, altri dopo. L’economia viene prima del diritto, e in virtù di questa priorità lo modella a sua immagine.

 

Nel Bauen, l’Unter precede lo Über.

 

Né il diritto è il trascendentale dell’economia o l’immanente nell’economia.

 

Il diritto è il seguente dell’economia.

 

Perciò, non la doma. Perciò, ne è domato. E perciò, il diritto dominante in un’epoca è il diritto delle classi dominanti.

 

 

 

2. La regola del nascondimento

 

Le classi dominanti non hanno interesse a figurare troppo nel diritto.

 

Preferiscono nascondersi dopo averlo posto.

 

Più se ne stanno in disparte e più riescono a far credere, come il Socrate dialogante con Trasimaco e Glaucone, che la giustizia non è l’utile dei forti e che lo Stato, pur gerarchico per sua essenza, è casa a tutti comune.

 

Né il diritto ha interesse a prendere troppo in considerazione la proporzionalità economica tra i soggetti di un rapporto obbligatorio.

 

Preferisce nascondere gli squilibri economici.

 

Sì, tra i bisogni dell’alimentando e le sostanze dell’alimentante ci deve essere un bilanciamento.

 

Sì, la parte danneggiata può chiedere la rescissione del contratto se a questo si è acconciata per deficienza di mezzi pecuniari o per rilevanti e durature difficoltà economiche e l’altra parte ne ha approfittato per trarne vantaggio.

 

Sì, la parte danneggiata può chiedere la risoluzione del contratto se la sua prestazione è diventata troppo onerosa a causa di eventi straordinari e imprevedibili.

 

Sì, il mutuante a usura non può pretendere dal mutuatario alcun interesse e la sua posizione penale si aggrava se il mutuatario ha promesso o contratto in stato di bisogno.

 

Ma si tratta di casi rari e singolari.

 

La regola è che l’obbligazione, quale che ne sia la fonte, va onorata anche quando non si hanno le capacità economiche per onorarla. Altrimenti, si sveglia l’ira dell’eccezione di inadempimento, della messa in mora e degli interessi legali, della citazione o del precetto, del decreto ingiuntivo e dell’ufficiale giudiziario, del pignoramento mobiliare o immobiliare e della vendita all’incanto o sub hasta, l’hasta essendo un tempo il palo conficcato dai vincitori sul suolo espugnato con la forza delle armi.

 

Turi il Caprettaro e Stellina l’Erbivendola, abituati come sono al baratto e a non avere denaro in tasca, non pagano il secchio nuovo che lui ha preso al mercato e il cestello nuovo di vimini che lei ha preso standogli vicino? Saranno condannati per sentenza irosa di giudice. E il venditore iroso, che li ha trascinati davanti al giudice, proverà un piacere intimo, a Thanatos e non a Eros affidandosi, nel ritmare P-Q-M, ogni ritmo un sussulto di piacere, e una copia della sentenza se la metterà in cornice, e più iroso, ira da manicomio la sua, diventerà quando il procedimento esecutivo presso Turi il Caprettaro e Stellina l’Erbivendola non sortirà effetto alcuno.

 

La regola è che il furto di legna commesso da un povero per scaldarsi in gelide notti, e per non morire assiderato nella sua catapecchia, in niente differisce da tutti gli altri furti.

 

La regola è il nascondimento: l’economia delle classi dominanti si nasconde una volta che è nato l’imperium del diritto a suo seguente, e l’imperium del diritto nasconde in norme generali, la generalità assumendo a sinonimo d’imparzialità, i patimenti delle classi dominate.

 

 

 

3. Il diritto è partigiano

 

Il diritto sceglie i beni e gli interessi da tutelare. Quelli non scelti sono in genere delle classi dominate.

 

Partigiano il diritto, partigiano chi nei tribunali lo maneggiano. Partigiano il pubblico ministero che accusa, le prove a discarico poco valutando e alla cultura della giurisdizione spesso preferendo la figura del poliziotto dotato di manette. Partigiano senza volerlo il giudicante, perché un diritto partigiano ha da applicare e perché la sua imparzialità sta proprio nell’applicare, rassicurato dal principio che tutti sono uguali davanti alla legge, un diritto che sancisce disuguaglianze economiche. Partigiano, al limite estremo delle carte false, l’avvocato, che non esita a narrare fatti mai accaduti e invita il suo assistito a trovarsi un qualche amico che li possa testimoniare: con antico detto russo, ripreso nei Fratelli Karamàzov, l’avvocato è «una coscienza in affitto».

 

Partigiano il diritto, partigiana essendo l’economia: è più facile diventare poveri che ricchi, e la ricchezza produce ricchezza e la povertà produce povertà, e ci sono i figli dei ricchi e ci sono i figli dei poveri.

 

Da qui, la proprietà privata come diritto che tutti gli altri diritti sovrasta e che a differenza di tutti gli altri diritti reali è imprescrittibile: solo nella proprietà privata, di cui ancora non si è perso il carattere sacro e il cui rispetto è ancora religioso, il non uso è pur sempre un uso.

 

Da qui, l’iroso proprietario di un terreno o di un immobile che sporge querela contro chi il suo terreno o il suo immobile ha invaso per occuparlo o per trarne comunque un vantaggio, anche se l’invasore è Turi il Caprettaro che là si è rifugiato per la notte non potendo far ritorno ai suoi monti per via del nevischio che è sceso sulla città in pianura, sul mercato in pianura della città, e che sui monti è neve.

 

Da qui, la struttura gerarchica dell’impresa, cellula del capitalismo globalizzato, con l’imprenditore che ne è il capo.

 

Da qui, l’imprenditore che dà ordini ai dirigenti, i dirigenti che danno ordini ai quadri, i quadri che danno ordini agli impiegati, gli impiegati che danno ordini agli operai, e gli operai che ordini e ordini ricevono, operai ordinati, operai adoperati.

 

Da qui, il minore emancipato che se è autorizzato all’esercizio di un’impresa, dell’assistenza del curatore più non necessitando, ha il diritto di compiere in autonomia atti di straordinaria amministrazione, anche se estranei alla sua attività imprenditoriale: un’agevolazione per i figli dei ricchi, che dispongono di denaro a sufficienza per aprire un’impresa, o possono associarsi ai padri nella direzione di un’impresa già esistente o ai padri sostituirsi.

 

Da qui, la punibilità delle offese recate a una persona, con ingiuria o diffamazione, a patto che il suo onore sia giudicato rilevante e degno in relazione all’ambiente sociale in cui vive: l’onore del professionista, studio sul corso e targa in ottone o pietra serena, ha maggior valore dell’onore di Turi il Caprettaro, dimora scalcinata e umida, tanto più che Turi il Caprettaro vive in solitudine, al di fuori di un vero e proprio ambiente sociale, e l’unica persona con la quale si concede qualche confidenza è Stellina l’Erbivendola.

 

4. Il diritto è signorile

 

La signoria economica, che nega la pari dignità degli uomini e che pertanto appartiene all’ontico senza al contempo appartenere all’ontoaxia, ha bisogno di un diritto signorile. Ha bisogno di norme giuridiche che la normalizzino e normalizzandola la trasformino in dato scontato dell’esistenza. Con la conseguenza che la servitù economica diventa essa stessa normale nel diritto signorile. Normale, ancora una volta, nel senso di naturale. E naturale, ancora una volta, nel senso di ineluttabile: come ineluttabile è un fulmine che sciabola nel cielo o un terremoto che spacca le viscere di prati e monti e strade asfaltate.

 

Questo processo di normalizzazione è validante ed efficacizzante, non valorante. Le norme giuridiche, finché rimangono giuridiche e all’etica non attingono, recano in sé solo il suggello della validità e dell’efficacia, non anche il suggello del valore.

 

Un contratto è valido ed efficace se concluso secondo le regole che la legge ordinaria detta in tema di conclusione dei contratti. Idem, per la sentenza e per l’atto amministrativo. E una legge ordinaria è valida ed efficace se formulata ed emanata secondo le regole che una fonte superiore detta in tema di formulazione ed emanazione delle leggi ordinarie.

 

Più che una piramide, giacché la piramide ha un suo vertice che la chiude, una sequenza di cerchi concentrici. Più che uno Stufenbau, un kreisförmig Bau.

 

Oltre la validità e l’efficacia il diritto non si spinge. E così il diritto signorile dota la signoria di strumenti giuridici validi ed efficaci per sottomettere la servitù al suo volere.

 

Valido ed efficace, senza necessità che la difesa sia proporzionata all’offesa, è l’uso delle armi da parte della polizia contro chi non riconosce l’autorità costituita e intende opporvisi o resisterle: l’autorità costituita è la signoria che si è costituita in autorità, con questo nome nobilitando il potere politico che detiene e con questo nome occultando la sua ira e legalizzandola.

 

Valido ed efficace, esente da ogni responsabilità, è il comportamento del poliziotto che di fronte al pericolo attuale di un’offesa ingiusta come le percosse, pur potendo fuggire, non fugge e dall’offesa ingiusta si difende a suon di manganello: la fuga, il commodus discessus del tornare indietro o del cambiare strada, nocerebbe al prestigio della divisa che indossa, divisa spavalda che rende spavaldi.

 

 

 

5. Le morali sono signorili

 

Il diritto signorile, per le irose sanzioni che promette ai trasgressori, abitua le classi dominate all’obbedienza. A tal punto le abitua, che l’obbedienza non è più avvertita da loro come peso o ignominia o come viltà o inettitudine. Anzi, è avvertita come liberazione da ogni peso, da ogni ignominia, da ogni viltà, da ogni inettitudine.

 

L’abitudine ad obbedire toglie l’angoscia del disobbedire. A suo modo, rende più leggera l’anima. E più felice. O almeno, più spensierata e allegra.

 

L’abitudine ad obbedire fonda la consuetudine giuridica che tutte le altre precede e sovrasta: gli atti di obbedienza all’autorità costituita si ripetono nel tempo, e si ripetono nella convinzione che siano atti dovuti all’autorità costituita, non un sacrificio per propiziarsi l’autorità costituita e addolcirla, ma un dono per i doni di tranquillità ricevuti dall’autorità costituita.

 

Non c’è servo che non si senta tranquillo quando il signore lo tranquillizza.

 

In ciascuno di noi c’è un servo latente. Che preferisce camminare curvo, anziché in posizione eretta. Che preferisce strisciare insieme ai rettili, anziché volare insieme alle colombe.

 

In ciascuno di noi c’è una pigrizia latente.

 

E ciascuno di noi prova spesso piacere nel piacere agli altri. Spesso si compiace di compiacere gli altri.

 

Le regole del galateo e dell’etichetta, parenti prossime delle regole morali, e come le regole morali dotate di sanzioni diffuse e affidate alla collettività di cui si è membri, non fanno eccezione: comandano agli invitati di andare al ballo con l’abito scuro, e se al ballo si va senza l’abito scuro, non ci sarà un secondo invito.

 

Il camminare curvi, lo strisciare, la pigrizia, il piacere di piacere agli altri, il compiacersi di compiacere gli altri: conservano l’anima, ma avvelenata la conservano.

 

L’abitudine a obbedire è il presupposto della morale, anzi delle morali, la morale declinandosi al plurale perché mutevole nella storia e perché dalla storia condizionata. E le morali, a cui il diritto signorile abitua, sono esse stesse signorili, come signorili sono i galatei e le etichette: mores et boni mores imperatoris, mores et boni mores imperatorium.

 

Molteplici gli ónta delle molteplici morali e dei molteplici galatei e delle molteplici etichette: omnia pluralia.

 

 

 

6. L’etica non comanda

 

L’etica non ha invece plurale, al pari della verità e del valore.

 

L’etica è unica e incondizionata: infrastorica, non storica, legge universale, non legge generale, l’universale o das Universal appartenendo all’Universum e il generale o das Allgemein al Multiversum.

 

Ma l’etica, nella sua universalità, non è trascendente né trascendentale.

 

Il limite filosofico delle religioni: considerare l’etica, sì, legge universale, e però trascendente, imposta dall’alto, e dunque eteronoma.

 

Il limite filosofico di Kant: considerare l’etica, sì, legge universale, e però trascendentale, con la conseguenza che l’imperativo categorico, pur autonomo e non eteronomo, intanto opera in quanto entra nella sintesi apriori pratica e in quanto intervenga il diritto a garantirlo, e con l’ulteriore conseguenza che finché non entra nella sintesi apriori pratica l’imperativo categorico aleggia nella retorica del dovere per il dovere e non si attua, aleggia come aleggiano le categorie dell’intelletto, è forma mentis o forma cordis nel senso che è il formante di ogni azione e omissione e non la loro sostanza, il kategorisch dell’imperativo dovendosi intendere nella stessa luce in cui si intendono le Kategorien della conoscenza, e niente potendo perciò dire della sostanza di ogni azione e omissione.

 

La verità è che l’etica risiede proprio nella sostanza dell’azione e dell’omissione.

 

L’azione omicida è inetica per sua sostanza. E per sua sostanza è etico il comportamento di chi non uccide, il «mio» e il «tuo» comportamento di non-violenti, anche a rischio di subíre l’altrui violenza.

 

L’omissione di soccorso è inetica per sua sostanza. E per sua sostanza è etico il comportamento di chi soccorre, il «mio» e il «tuo» comportamento di soccorritori, anche a rischio di morire.

 

La verità è che l’etica è connata, non innata nel significato dell’innatismo tradizionale che del trascendente o del trascendentale necessita: nasce in noi non appena noi nasciamo, e ben presto ci consente di distinguere il bene dal male e ci pone dinanzi al bivio del bene e del male, non al di là ma al di qua del bene e del male, non al di là ma al di qua del bivio, e sul bivio non si dà noluntas, pena la perdita dell’io che è voluntas, dell’io a cui non basta la capacità di intelligere, e sul bivio occorre appunto volere, quale che sia la strada che si vuole.

 

La verità è che l’etica, in quanto connata, ha il suo fondamento nell’ontoaxia e non nell’ontico, all’ontoaxia essendo immanente: è ens dignum, è dignitas quae est, è dignitas in acto et in actu, non in potentia.

 

La verità è che l’etica, in quanto immanente all’ontoaxia, non comanda ciò che dobbiamo fare, non dice di fare il bene per il bene, non dice di fare agli altri quel che desideriamo che gli altri ci facciano, non dice di non fare agli altri quel che desideriamo che gli altri non ci facciano: il bene sta nei comportamenti che lo realizzano e al fuori di questi comportamenti non sta e si dissolve nelle nebbie del trascendente o del trascendentale.

 

La verità è che l’etica, in quanto non comanda, opera nelle opere che crea e che creiamo: le opere che crea, noi le creiamo quando, tra Eros e Thanatos, i due archetipi che connati ci costituiscono, Eros ha la meglio su Thanatos.

 

La verità è che l’etica, in quanto coessenziale all’agire trionfante di Eros e dell’agire di Eros non effetto o fausto esito, è vita vivente e vita vissuta: un Erlebniss che si dispiega nell’Erfahrung.

 

Perciò, l’etica vive nella «vita buona». Perciò, non ha bisogno di alcun imperium. Perciò, sfugge all’imperium delle norme giuridiche e delle norme morali, delle norme del galateo e delle norme dell’etichetta. Ed è vita sine ira: vita a-giuridica e a-morale.

 

Se il dicibile è dicibile in poche parole, si dica che «l’etica non ha impero né regno» o che «l’etica non è un impero né un regno» o che «l’etica non è suddita imperiale né regnicola» o che «l’etica non è imperatrice né regina».

 

 

 

7. Normalizzare

 

Le morali procedono a normalizzare.

 

Normalizzare nel senso di livellare, squadrare, inquadrare, omologare, ridurre il «molteplice» all’«uno», negare il «molteplice» per l’«uno», riferirsi a un «tutto» indistinto e uniforme, a un «tutto» piatto o appiattito, sostituire all’«esserci» l’«apparire», al Dasein lo Scheinen: non l’«esserci» come sostantivo o sostanza dell’assoluta singolarità che è in ciascuno di noi e che indica ciò che ciascuno di noi è nella sua interiorità, ma lo Scheinen come sostantivo che indica il modo insostantivale in cui le cose appaiono nella loro esteriorità, nella loro quotidianità grigia e ripetitiva.

 

Normalizzare nel senso di togliere dalla scena l’«io» e il «tu», per sostituirli con un indefinito e indefinibile «chi», con il Wer che non designa «alcunché di determinato».

 

Normalizzare con l’uso del neutro impersonale «si», nel senso di «si comanda», «si vieta»: das Man che trionfa su der Mensch, e trionfa onhe Eigenschaften perché è solo segno di quantità, la quantità degli innumerevoli «chi» destinatari dei comandi e dei divieti, la qualità appartenendo a «questo» o «quello».

 

Normalizzare non nel senso descrittivo: medietà statistica del comportamento, id quod plerumque accidit.

 

Normalità nel senso prescrittivo: il «che fare» per adeguarsi a un modello.

 

Normalità nel senso che il «che fare» per adeguarsi a un modello consiste nell’obbedire alle regole dettate dal modello: sotto l’imperium della morale dominante in un’epoca, il modello è imposto dalle classi dominanti dell’epoca, che appunto livellano e squadrano e inquadrano e omologano mediante il «chi» e il «si».

 

 

 

 

 

 

 

8. Normativizzare per normalizzare

 

Nel diritto, normalizzare significa normativizzare. E la normativizzazione, con l’irosa sanzione che prospetta, normalizza anche l’abnorme.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che si neghi ospitalità ai disperati che clandestini fuggono dal loro paese e clandestini si introducono in un altro paese: come se attentassero alla personalità dello Stato o ne violassero l’integrità territoriale.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, condannare all’ergastolo: l’ergastolo è una tortura a vita.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che con torture temporanee si dispongano misure cautelari personali, dall’arresto domiciliare e dall’arresto e dalla reclusione in carcere di un imputato al fermo di un indiziato di delitto, prima che si sia concluso o prima che sia cominciato il dibattimento in contraddittorio: ne va di mezzo la libertà, ne vanno di mezzo le garanzie della libertà, ne vanno di mezzo i diritti dell’uomo, e si torna al Sinedrio che a Gesù non riconobbe la presunzione di non colpevolezza, che è presunzione di innocenza sino a quando non venga emanata una sentenza definitiva.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che il recidivo debba subíre un aumento di pena ad personam e che si batta l’incudine della zero tolerance e si anticipi la soglia della punibilità agli «atti preparatori» che ancora non sono atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, che ancora non varcano i confini del delitto tentato: dal «diritto penale del fatto» al «diritto penale dell’autore del fatto»? dal «diritto penale del fatto» a un diritto penale che si fa macchina da guerra per debellare i potenziali nemici della tranquillità pubblica e dello Stato, che potenziali rimangono benché colpiti dalla sanzione, e senza garanzie sostanziali e processuali la sanzione li colpisce, in quanto appartengono al «tipo di uomo» da colpire per le sue convinzioni ideologiche o per la sua fede religiosa, e non in quanto abbiano compiuto «azioni o omissioni tipizzate» in una qualche figura di reato? dal «diritto penale del fatto» a un «diritto penale senza fatto», con un reo che nemmeno gode della tutela di cui per diritto internazionale godono i prigionieri politici?

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che non siano punibili le offese e le menzogne contenute negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati dagli avvocati dinanzi all’autorità giudiziaria, gli avvocati così godendo di un privilegio forense che a loro attribuisce immunità: lo ius defendendi degli avvocati non può estendersi allo ius mentendi né allo ius offendendi.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che uno Stato, mediante il suo Potere esecutivo che dello Stato nel suo complesso è in misura maggiore partigiano, apponga il sigillo della segretezza su alcuni documenti e riduca in vinculis pure chi si limita a procurarsi le notizie serrate in questi documenti senza divulgarle: i segreti dello Stato sono i segreti delle classi dominanti, delle classi che dello Stato iroso si servono per esprimere la propria ira. E guai, in tempo di guerra, a deprimere lo spirito pubblico o a menomare la resistenza della nazione di fronte al nemico: guai a chi, in tempo di guerra, professa in pubblico la sua convinzione che ogni guerra è ingiusta, che non esiste differenza tra guerra difensiva e guerra offensiva, che alla resistenza è preferibile la desistenza, che homo homini homo est et non lupus, che gli homines non si dividono in amici e hostes, che la non-violenza è una plausibile risposta alla violenza, guai a costui, perché un reato di pericolo e non di danno gli sarà imputato, anche se in concreto nessun pericolo abbia cagionato. E guai, infine, a consigliare al proprio figlio che si è fatto soldato, magari per stipendio mensile e non per vocazione, di disobbedire a una legge che ingiusta non appare ma lo è in sé e per sé: per normativizzazione, il soldato è normale quando diventa strumento di ingiustizia.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che ai vigili del traffico automobilistico si elargiscano provvigioni per le multe che verbalizzano: si incentiva la loro ira, incardinandola nella ricerca del profitto.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che all’obbligo degli alimenti siano tenuti a volte i nonni e altre volte i generi e le nuore e i suoceri e le suocere, mentre tra fratelli e sorelle tale obbligo è limitato allo stretto necessario: Caino e Abele e Romolo e Remo e Cattaro e Zaro non sono ancora morti? o hanno assunto i nomi degli Orazi e dei Curiazi? e prima di contrarre matrimonio, alla sposa e allo sposo conviene accertarsi che i rispettivi suoceri non versino in stato di bisogno e siano in grado di provvedere al proprio mantenimento?

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che la misura degli alimenti debba calcolarsi tenendo conto della posizione sociale dell’alimentando: i poveri hanno la posizione sociale di poveri, si accontentino allora di un piatto di pasta e patate, un tempo cibo dei carcerati.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che il figlio nato fuori dal matrimonio rechi in fronte il marchio di «figlio naturale», o quello di «figlio legittimato», dopo che i genitori abbiano deciso di scambiarsi il «sì» dinanzi al celebrante in chiesa o al sindaco con fascia patriottica: mettere al mondo un figlio, se si escludono le avventure alla Don Giovanni, el burlador y convidado de piedra di Tirso de Molina, è in genere la conseguenza di un atto d’amore, e l’amore non si fonda sul matrimonio né dal matrimonio è fondato.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che il proprietario di un terreno, allo «scopo» di abbellirlo ma per il «motivo» di far dispetto a una vicina di cui è innamorato non ricambiato, possa toglierle il sole piantando un albero d’alto fusto e fitte foglie: lo «scopo» trasforma qui l’abuso in uso e giustifica il «motivo» assai poco commendevole, nel senso che lo occulta, eppure il «motivo» è un prius rispetto allo «scopo», il «motivo» è il «movente» dell’azione e lo «scopo» è un posterius rispetto al «movente».

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che al conduttore si dica che in qualsiasi momento gli è consentito recedere dal contratto di locazione per «gravi motivi», e non gli si dica in cosa consistano questi «gravi motivi»: in tanta incertezza, come fa il conduttore a capire se è opportuno che comunichi al locatore il proprio recesso? o deve recarsi presso un avvocato e chiedergli una consulenza a pagamento, una consulenza che pagherà anche nel caso in cui la risposta dell’avvocato sia a sua volta incerta o si limiti a enunciare il pro e il contro?

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che la minaccia di far valere un diritto, se non volta a conseguire vantaggi ingiusti, sia violenza irrilevante ai fini dell’annullabilità del contratto: chi minaccia di far valere un diritto per indurre l’altro a contrarre, del suo diritto abusa, e un vantaggio ingiusto pur sempre lo consegue, e sull’altro pur sempre esercita violenza, come quando costringe Turi il Caprettaro a portargli ogni mattina per cinque o dieci anni il latte a casa promettendo che non denuncerà ai carabinieri Stellina l’Erbivendola che due mesi prima gli aveva danneggiato un pruneto del giardino mentre raccoglieva erba.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che la Pubblica Amministrazione al cittadino si presenti imperium e così il cittadino declassi a suddito: hai una cartella delle tasse da pagare? la paghi e poi protesti? o protesti ma prima paghi l’avvocato per chiederne la sospensione?

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che si sindacalizzino le lotte per un maggior salario e che si giudichino legittimi solo gli scioperi sindacali: i Sindacati degli operai ordinati e adoperati mettono un freno alle proteste, le depotenziano, le snervano, le disossano, le dissanguano, elevano il prezzo a cui gli operai sono disposti a vendersi, ma non tolgono gli operai dalla loro condizione servile.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che nel lavoro di fabbrica, dove i lavoratori non si distinguono dagli ingranaggi delle macchine e ingranaggi diventano le loro mani e le loro braccia e come ingranaggi si muovono nel muovere le macchine, esista un prezzo per comprare dalle persone ingranaggi impersonali, tanto impersonali che le persone non restano persone e nell’ambiente salubre prescritto dalla legge si trasformano in corpi metallici e l’infortunio che colpisce una mano o un braccio è infortunio di una mano metallica o di un braccio metallico.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che il Giudice condanni per decreto penale o per decreto ingiuntivo senza ascoltare le ragioni del condannato: il Giudice che così condanna, al condannato manda a dire che le sue ragioni le ascolterà dopo, sempre che il condannato alla decretazione si opponga.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che lo Stato gestisca lotterie e che vendendo biglietti compri la speranza, e le ultime speranze dei disperati.

 

È abnorme, dal punto di vista dell’etica più elementare, che si punisca Turi il Caprettaro o Stellina l’Erbivendola perché a un sovversivo affamato e stanco hanno dato un tozzo di pan bigio e un letto dove trascorrere la notte.

 

L’abnorme è ontico: non c’è dubbio. Ha l’onticità del diritto positivo. Ma non appartiene all’ontoaxia.

 

 

 

9. I normativisti e l’Impero infernale

 

Che il diritto normativizzando riesca a normalizzare, è questo il vanto dei normativisti.

 

Il loro dire è un dire da falsari.

 

Nella decima bolgia dell’Inferno dantesco, i normativisti non sfigurerebbero.

 

È falso affermare che le norme giuridiche, solo perché provengono dall’imperium dello Stato, hanno sempre forza cogente e sono sempre da obbedire: come se il comando impartito dalle norme giuridiche non tollerasse alcun sindacato in ordine al suo contenuto, e come se l’esecuzione di tale comando fosse un’esimente per azioni inetiche, l’esimente dell’adempimento di un dovere.

 

È falso affermare che le norme giuridiche derivano da un’unica fonte, dall’imperium dello Stato: come se ordinamenti giuridici non fossero anche quelli anti-statali, e come se le consuetudini non valessero anche praeter legem, nelle materie che la legge non regola.

 

È falso affermare che la legge regola l’intera esistenza e che la regola pur quando non comanda o non proibisce perché allora «permette»: come se quel che è permesso, dal godersi un tozzo di pan bigio alla Turi il Caprettaro o dal vestirsi in maniera zingaresca alla Stellina l’Erbivendola, debba per forza rientrare dalla finestra nella Reggia del diritto, e come se il diritto fosse onnipresente, in ogni dove e in ogni quando.

 

L’imperium normativizzante e normalizzante non può costringerci a diventare tutti suoi armigeri. Non può pretendere di governare tutti i nostri comportamenti, compresi i comportamenti che non hanno scopo al di fuori dell’ozio, ammesso che un comportamento abbia già in sé uno scopo e non lo acquisti invece nel momento in cui si realizza, e nemmeno di qualificarli tutti sub specie iuris. Non può pretendere di accompagnarci dalla preculla alla culla e alla tomba e nell’oltretomba. E se nella tomba e nell’oltretomba ci accompagna, punendo la distruzione e la soppressione e la sottrazione del cadavere e il suo occultamento e il suo uso illegittimo o il suo vilipendio, o certificando la nostra morte all’anagrafe o dalla nostra morte facendo decorrere la successione ereditaria che per testamento abbiamo voluto in vita, per fortuna noi non ci siamo e l’ira del diritto non sentiamo tra il fruscío del trifoglio sulle rive d’Acheronte.

 

L’imperium normativizzante e normalizzante troneggia nell’inferno dei tribunali.

 

I normativisti si aggirano in un Impero infernale.

 

 

 

10. La Norma e la Tosca

 

Fuori da questo Impero infernale Turi il Caprettaro e Stellina l’Erbivendola.

 

Venne una volta da Stellina l’Erbivendola una Signora ingioiellata.

 

– Me la vendi un po’ della tua erba?

 

– Io non vendo, baratto.

 

Gliela vendette alla fine. E la Signora ingioiellata tornò con ira il giorno dopo.

 

– La tua erba non è piaciuta a mio marito, non vale la somma che ti ho dato.

 

– La mia erba è buona, io ci campo barattandola, lo chieda a Turi il Caprettaro.

 

– Ridammi il mio denaro, la legge è dalla mia parte, dalla parte del consumatore perché è più debole del venditore.

 

– E io sarei quella più forte? Con i miei orecchini e il mio anello che una Zingara di passaggio mi mise in mano perché le misi in mano un cestello d’erba?

 

– Ma c’è una norma di diritto che mi tutela.

 

– Alla Norma preferisco la Tosca.

 

Dialoghetto per dire che anche i Codici dei Consumatori, nascondendo nella normativizzazione l’abnorme e spacciandolo come normale, aggiungono pietre ornamentali alla Reggia del diritto signorile: dove le classi dominanti, più che temere l’ira delle classi dominate, temono che la propria ira non sia mai sufficiente per impedire la possibile perdita dell’imperium, e perciò la propria ira accrescono in quantità e affinano in qualità, curando i dettagli, con lo stesso «terrore del dettaglio» di Napoleone Imperatore.

 

 

 

11. La libertà di comprare un tozzo di pan bigio, la libertà di vendere la propria forza lavoro e l’uguaglianza dei valori di scambio scambiati

 

Tutti sono liberi di comprare e di vendere tutto: una menzogna.

 

Tutti sono uguali nel comprare e nel vendere tutto, tanto che comprino quanto che vendano: una menzogna.

 

La libertà e l’uguaglianza o esistono in concreto o non esistono.

 

La libertà astratta e l’astratta uguaglianza: un simulacro, un sepolcro imbiancato.

 

La libertà astratta e l’astratta uguaglianza: una vuota declamazione, come già sulle bandiere della Rivoluzione francese, al vento agitate dal Terzo Stato.

 

La libertà astratta e l’astratta uguaglianza: una foglia di fico per coprire nudità, le nudità dei profittatori.

 

In concreto, non tutti sono liberi di comprare e di vendere tutto.

 

C’è chi stenta a comprare un tozzo di pan bigio.

 

C’è chi non ha niente da vendere o ha un’unica cosa da vendere, la propria forza lavoro.

 

Chi ha stentato a comprare un tozzo di pan bigio, come fa a sentirsi uguale a coloro che al medesimo banco del mercato hanno comprato dolciumi e friselle?

 

Lui è uguale solo agli altri compratori di un tozzo di pan bigio.

 

Chi niente ha venduto o ha venduto l’unica cosa che poteva vendere, la propria forza lavoro, come fa a sentirsi uguale a coloro che al banco del mercato vendono tozzi di pan bigio e dolciumi e friselle?

 

Lui è uguale solo agli altri che niente hanno venduto o hanno venduto l’unica cosa che potevano vendere, la propria forza lavoro.

 

E come fa l’inquilino di una catapecchia, il canone mensile racimolando centesimo su centesimo, a sentirsi uguale all’inquilino di un villozzo locato al mare o ai monti per le vacanze agostane? Come fa, pensando che il prossimo mese potrebbe non racimolare il canone centesimo su centesimo? E pensando che l’ira del diritto, in un iroso locatore manifestandosi, è pronto a sfrattarlo per morosità?

 

Il diritto, perché mercantile e partigiano e signorile, si limita a badare a che ci siano norme che tutelino la libertà negoziale e garantiscano che nello scambio delle merci siano uguali i valori di scambio scambiati.

 

Si arrangino Turi il Caprettaro e Stellina l’Erbivendola se di fatto sono liberi di comprare solo un tozzo di pan bigio e se di fatto non sono uguali a coloro con cui barattano.

 

E si arrangi anche l’operaio subordinato e ordinato.

 

 

 

12. Mercificando

 

Il diritto mercifica il dolore: donde il pretium doloris, che si paga in moneta sonante a titolo di risarcimento dei danni morali e che altro non è se non il residuo dell’orda totemica e della vendetta di sangue.

 

Un tempo, il sangue dell’ucciso trovava requie con il sangue dell’uccisore, o con il denaro che l’uccisore dava ai parenti dell’ucciso.

 

Da tempo, per il diritto, è il dolore dei parenti dell’ucciso che trova requie nel denaro. E se il reato di omicidio si estingue per morte del reo o per prescrizione, non si estinguono le obbligazioni civili nascenti dal reato, e i beni del morto, non più suoi perché è morto, possono essere confiscati.

 

Il diritto mercifica anche l’animus donandi.

 

Il donante rimane tale pur se dona per ricambiare un favore ricevuto, così rimunerando il suo rimuneratore.

 

Il donatario, in quanto beneficato, diventa un asservito del donante, in quanto beneficante: è il primo a dovergli prestare gli alimenti in caso di bisogno, e deve essergli grato. Quando il donatario non presta al donante gli alimenti o quando gli mostra ingratitudine, il diritto iroso arma il donante e gli consente di adirarsi.

 

Per donare, occorre arricchire il donatario, trasferendogli un diritto o assumendo verso di lui un’obbligazione.

 

Chi non ha diritti da trasferire, perché non ha beni o crediti di cui disporre, non può donare.

 

Chi non è in grado di assumersi un’obbligazione, perché prima faceva il lattaio di casa in casa e ora ha cessato la sua attività per tardanza di anni, non può donare.

 

Per il diritto, donare un sorriso non è donazione: arricchisce lo spirito ma non il patrimonio.

 

I poveri, che da poveri sorridono, donando il proprio sorriso, sono ricchi nello spirito, hanno un puro spirito di liberalità, e donano davvero: lontani dal mercantile do ut des, niente chiedono in cambio, nemmeno che al loro sorriso si risponda con un altro sorriso, e continuano a sorridere se qualcuno li maltratta e li copre di contumelie e dice che la povertà è una vergogna, la più bassa delle vergogne, la povertà non avendo scopo a cui tendere e non essendo azioni in senso proprio le azioni senza scopo.

 

 

 

13. Il mito del diritto mite

 

L’ira del diritto è lecita, non legittima, perché si autolecita: è puro riferimento a sé.

 

L’ira del diritto si autolecita, perché è monopolizzata dall’imperium dello Stato.

 

Il monopolio statale dell’ira impedisce le faide tra i privati, e così reca l’unico contributo utile che può recare: contributo utile, l’utilitas alla Guicciardini e alla Machiavelli intesa, non per questo contributo degno, la dignitas alla Vico intesa.

 

L’imperium normalizzante e normativizzante dello Stato è ordinante: nel duplice senso, che impartisce ordini sotto l’incubo della sanzione, e che ordina l’ira, la organizza in istituzioni, là contenendola e però là concentrandola in uno dei massimi gradi in cui Thanatos è concentrabile.

 

L’ira del diritto si sottopone a volte a dei correttivi, la buona fede tra questi, per evitare che

 

divenga troppo funesta e che troppo funestando la civitas la distrugga e distruggendola non abbia più un oggetto su cui appuntarsi ed esercitarsi: se l’imperium intende mantenersi, di un qualche consenso dei governati ha bisogno, e siccome immodica ira gignit insaniam, i governati si acconciano solo alla modica ira, a meno che non siano insane iracundi, e se stermina tutti gli sterminandi, lo sterminatore può andare in pensione.

 

I correttivi dell’ira del diritto placano le estreme impennate dello strictum ius, placano le estreme impennate della summa iniuria, e però lo strictum ius rimane e rimane la summa iniuria, entrambi rimangono senza impennarsi fino agli estremi limiti della notte, la notte delle nozze tra Krátos e Bía.

 

Nell’immaginale del quarto cerchio dell’Inferno dantesco: al diritto ordinante si piegano «l’anime di color cui vinse l’ira».

 

Nell’immaginale dell’ottava bolgia dell’Inferno dantesco: il diritto ordinante è nelle figure archetipiche di Odísseo e Diomede, che «a la vendetta vanno come a l’ira».

 

Nell’immaginale del quinto cerchio dell’Inferno dantesco: il diritto ordinante è la Palude di Stige che mena alla città di Dite.

 

Altra vita non avendo se non nell’illecito da perseguire e punire, il diritto sta nella violenza tentata o consumata e alla violenza risponde con la violenza.

 

«Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia». Senza il ringhio di Minosse, quanti giuristi scriverebbero ancora di diritto, e quanti tribunali si pronuncerebbero e quanti avvocati mesteriererebbero?

 

Nel secondo cerchio dell’Inferno dantesco, figura archetipica di ogni colpa e di ogni pena, stanno i tribunali e gli avvocati. Ciascuno di loro, quel tal Minosse che «giudica e manda secondo ch’avvinghia».

 

Ci vuole un forte istinto punitivo per svolgere il compito di Minosse: rispondere al mae con il male.

 

Ci vuole la coda di Minosse.

 

E dopo la coda di Minosse, il traghetto di Flegias: un Demonio, non un Diavolo, e non a caso mai si dice «un Buon Demonio» e si dice «un Buon Diavolo».

 

Per sua essenza e per sua struttura e per sua funzione, il diritto non è mai mite.

 

 

 

Conclusione

 

S’illude chi sostiene che il diritto è chiamato a impedire la guerra tra privati: ne cives ad arma ruant. Una favola. E mal raccontata, pur se raccontata con pii intenti. La capacità deterente del diritto è questa favola.

 

S’illude chi pretende di insegnare il diritto senza conoscere la filosofia del diritto e la storia del diritto e l’economia politica.

 

Insegnerà un diritto leggendario.

 

Insegnerà la miseria del diritto e non la sua nobiltà.

 

Insegnerà che «legge è legge», anche quando è legge razziale o legge dei campi di sterminio o legge di quei nuovi campi di sterminio che sono le carceri.

 

E su di lui caparbia cadrà la notte, mentre Turi il Caprettaro e Stellina l’Erbivendola danzeranno su un’azzurra virgola di cielo.

 

alla memoria di Deliuccia

 

[Catanzaro 24 gennaio mille942 – Bologna 29 settembre duemila8]

 

e di tutti i morti di casa mia,

 

generosi come la loro e la mia terra di Calabria

 

e ringraziando Nicola Centorrino, giovane saldo amic

 

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