di Roberto Tamborini
Gli ultimi mesi hanno visto un
netto peggioramento del quadro economico-finanziario
mondiale. Dopo l'incredibile sceneggiata americana
sull'autorizzazione all'aumento del debito pubblico (una
lezione su cui devono meditare gli zeloti delle camicie
di forza costituzionali sulla politica economica),
l'epicentro è ora chiaramente collocato in Europa, come
ha mostrato al mondo intero la fallimentare trasvolata
atlantica del ministro americano Geithner, accolto come
l'ambasciatore dello Stato libero di Bananas. Ora il
cammino dell'euro e dell'Unione è a un bivio decisivo, e
tutto dipende da Germania e Italia.
La corda a cui si sta impiccando
l'Unione monetaria europea è fatta assai più di cattiva
ideologia e politica, che di economia. Tecnicamente, non
esiste una crisi fiscale dell'euro. Il potere d'acquisto
interno ed esterno della valuta europea è stabile. I
conti pubblici della gran parte dei paesi dell'euro, e
dell'Ume nel suo insieme, non presentano problemi
allarmanti. L'aumento di disavanzo e debito nel biennio
2009-10 è stato fisiologico in considerazione della
necessità di politiche sia anticicliche sia
straordinarie (salvataggi bancari ecc.). Secondo i dati
della Commissione europea (Rapporto sulla finanza
pubblica 2011), il 2011 si chiuderà con un disavanzo
fiscale medio del 4,3% del Pil (UK 8,6%, USA 10%), e un
rapporto debito/Pil del 87,9% (UK 84,2%, USA 98,3%).
Tranne la Grecia, e in misura minore Irlanda e Spagna,
fino a qualche mese fa nessun paese ha manifestato
difficoltà di rifinanziamento della spesa pubblica, di
pagamento degli interessi e di rimborso del debito in
scadenza. Dieci dei diciassette membri chiuderanno
l'anno con un avanzo primario vicino al pareggio o in
surplus (l'Italia avrà il surplus maggiore pari al 2,1%
del Pil)1. Complessivamente, la situazione presente e
prospettica è più solida di quella degli Stati Uniti
(che hanno gravissimi squilibri finanziari di numerosi
Stati), della Gran Bretagna e del Giappone.
Nel corso dell'anno, si è però
creata una situazione di crescente avversione al
rischio su alcuni debiti sovrani oltre quello greco, in
particolare dell'Italia, come registrato dall'impennata
dei differenziali d'interesse (spread). Il rapido
aumento del costo del debito imposto dagli investitori
può essere una causa di crisi fiscale dei debitori
maggiori, e quindi di tutta l'Unione monetaria. Non c'è
un problema di entità complessiva del debito Ume, ma
della sua distribuzione interna. E' questo il problema
che finora le istituzioni e i governi europei non sono
riusciti a capire, affrontare e disinnescare.
Il contagio greco
Il contagio è un fenomeno
finanziario ben noto, ma difficile da comprendere e,
soprattutto, governare. Fondamentalmente il contagio
corre lungo due conduttori. Uno è strutturale, ossia i
canali d'interrelazione tra operatori finanziari.
L'altro è immateriale, consistendo di aspettative più o
meno razionali della contagiosità di un evento. In
un'area finanziaria fortemente integrata come quella
europea, i fattori strutturali di contagio sono molto
forti. Per esempio, il debito greco è nella mani di una
gran quantità d'istituti finanziari nel resto d'Europa:
la crisi della Grecia diventa la crisi dei suoi
creditori. In questo contesto, è razionale aspettarsi
che ci sia contagio e agire di conseguenza, ossia
vendere i titoli dei creditori della Grecia e chiedere
premi di rischio più elevati. Tuttavia, in questo modo,
il contagio si realizza per davvero e, probabilmente, è
più virulento.
Quando scoppia un incendio, la sua
estensione e l'entità dei danni dipendono in buona
misura dal comportamento dei pompieri. Il fatto che
tutte le persone in pericolo si accalchino verso le
uscite di sicurezza, aumentando di molto la probabilità
di tutti e di ciascuno di perire, è irrazionale, ma è un
fenomeno difficile da controllare, soprattutto mediante
annunci ed esortazioni. Come scrisse Paul De Grauwe
molti mesi fa, i pompieri prima spengono l'incendio, poi
la polizia cerca i colpevoli e li punisce. In Europa è
stato fatto il contrario.
Non mi avventuro qui in un'analisi
tecnica dettagliata; mi limito a indicare alcune linee
guida di buon senso. Per impedire, o limitare, il
contagio bisogna agire sul focolaio e sui due
conduttori. Il focolaio greco era relativamente piccolo,
sia come incidenza sul Pil europeo che sulla ricchezza
finanziaria complessiva; si poteva metterlo sotto
controllo con vari strumenti tecnici ampiamente
sperimentati (garanzie, aiuti condizionali,
ristrutturazione, allungamento delle scadenze, ecc.).
Dal lato strutturale, occorreva chiudere le porte
antincendio, ossia isolare con garanzie e altri
strumenti i creditori, privati e pubblici, della Grecia.
In genere, questi interventi possono essere sufficienti
per ridurre le aspettative di contagio, e quindi
l'eventualità del contagio stesso. Invece, poco, male e
tardivamente è stato fatto. La buona notizia del G20 che
metterebbe a disposizione 3 mila miliardi di garanzia
per i creditori della Grecia (poi rimessa in
discussione) non è del gennaio 2010, ma del 26 settembre
2011. Il contagio si è sviluppato e ha colpito paesi,
come Spagna e Italia, in misura eccessiva rispetto ai
loro "fondamentali".
Dalle banche agli Stati. Perché?
In linea di principio il contagio
avrebbe dovuto investire prima di tutto i detentori del
debito greco, cioè istituti finanziari privati collocati
soprattutto in Francia, Germania, Regno Unito, e, in
misura minore, Italia e Spagna. Ciò effettivamente è
avvenuto e ha costituito uno dei fattori di caduta dei
loro valori azionari nel corso del 2010 e 2011. Ma come
spiegare i crescenti attacchi selettivi ai debiti
pubblici?
Se scorrete le informazioni di
stampa di questi mesi trovate la motivazione ricorrente
secondo cui se fallisce la Grecia allora tocca a tutti
gli altri "Piigs" (Portogallo, Irlanda, Italia, Spagna).
Perché? Io non ho mai trovato una spiegazione
convincente basata solo sui fondamentali. Prendiamo
l'Italia. Il peggioramento dei conti pubblici del nostro
paese è stato tra i più contenuti dell'Unione (dal 2,7%
del 2008, al 5,4% del 2009, al 4,5% del 2011; la Spagna
ha registrato 4,2%, 11,1%, 9,2%). L'alto debito e la
bassa crescita stanno con noi da dieci anni, ma fino a
metà 2011 non abbiamo mai pagato spread esorbitanti.
Cosa è successo ai nostri fondamentali in questi quattro
mesi? Una spiegazione potrebbe essere che il contagio
greco delle banche può dar vita all'aspettativa di
costosi salvataggi di Stato, con conseguente
peggioramento dei conti pubblici. Ma le banche italiane
non sono state molto danneggiate dalla crisi originaria,
e non sono le più esposte con la Grecia. E comunque non
si capisce la ratio di attaccare sia le banche sia chi
dovrebbe salvarle. Il contagio greco della finanza
pubblica di altri paesi non è facilmente spiegabile per
via strutturale. Occorre guardare anche ai fattori che
governano anzi, che hanno mal governato le
aspettative e la psicologia degli investitori.
La psicologia a briglia sciolta
"I mercati" non esistono. Esiste
una moltitudine di operatori finanziari, più o meno
piccoli, più o meno influenti, che prendono decisioni
complesse e rischiose. I mercati finanziari non sono né
il regno della pura razionalità ed efficienza, né quello
di alcuni grandi poteri che dominano il mondo. Talvolta,
forse spesso, funzionano male proprio perché si trovano
in una terra di mezzo dove le forze della psicologia di
massa possono prendere il sopravvento sulla razionalità
economica. Governare i mercati significa non solo tenere
in ordine i fondamentali, ma anche prevenire questi
fenomeni. Perché a quel punto, e io credo che ci siamo
dentro, il compito dei governi e delle istituzioni
diventa difficilissimo: bisogna fare "quello che ci
chiedono i mercati", giusto o sbagliato che sia. Su
questo fronte, il governo italiano è stato ed è
semplicemente pessimo; ma il contesto europeo non aiuta.
La psicologia finanziaria indica
che quando complessità e incertezza aumentano
significativamente, aumentano anche il "peso del
presente" e "il peso degli altri" nelle decisioni
individuali. In altri termini, gli operatori si
espongono solo a breve o brevissimo termine, e sono
molto condizionati dalle opinioni collettive (fads and
fashions, fole e mode, in gergo). Se un'opinione coagula
sufficiente consenso a vendere o a comprare diventa
irrazionale non accodarsi. In questi mesi di fads and
fashions ne sono girate parecchie, senza un chiaro e
verificato fondamento scientifico e razionale. Per
esempio "l'Italia è la prossima della lista", oppure "se
fallisce la Grecia crolla l'euro", oppure "il problema
sono i disavanzi con l'estero", oppure "il problema è la
crescita", e via dicendo. Le autorità di governo e
controllo (e in qualche misura anche gli economisti
opinion maker) possono avere questo potere d'indirizzo
delle opinioni, che può essere esercitato con oculatezza
per stabilizzare il mercato, o almeno per non
destabilizzarlo. Io credo che il contagio greco abbia
parecchio a che fare con un uso irresponsabile di questo
potere.
Istituzioni irresponsabili
Le sorti dell'Ume sono nelle mani
di due istituzioni, la Bce e i governi nazionali. La
prima è responsabile della moneta, i secondi della
finanza pubblica. Nessuna delle due è statutariamente
responsabile, e quindi entrambe sono irresponsabili,
rispetto al complesso dei beni pubblici di governo
dell'economia che caratterizzano il disegno
istituzionale delle moderne economie di mercato.
E' ormai chiaro a tutti che i
Trattati dell'Ume nascono con questo difetto strutturale
molto grave, come non pochi studiosi avevano avvertito,
tacitati come quinte colonne dell'indisciplina fiscale.
Abbiamo tirato a campare (non benissimo) per dieci anni,
ma al primo serio terremoto di sistema l'edificio si è
lesionato gravemente. Non venne nemmeno concepito che ci
potesse essere una crisi mondiale con un conseguente
aumento generalizzato dei debiti pubblici. La storia
della nascita dell'Ume è intricata come tutte le storie
europee, ma è alla fine si è trattato del punto di
sintesi di due "opposti estremismi": i "tecnocratici",
che puntavano a sottrarre il governo dell'economia alla
discrezionalità dei poteri e degli interessi dei
politici, e i "politicisti", aggrappati al vessillo
della sovranità nazionale. La vera soluzione
intelligente, due istituzioni sovranazionali per la
politica monetaria e per quella fiscale, equivalenti ed
equidistanti, non piaceva a nessuno dei due partiti, e
non se ne fece nulla. Essi hanno alimentato una continua
tensione nel funzionamento dell'Ume, ma, come spesso
accade tra opposti estremisti, si sono appoggiati gli
uni agli altri nel puntellare lo status quo.
Ideologie a briglia sciolta
In queste vicende l'ideologia ha un
peso maggiore di quel che si pensa, come si rese conto
Keynes durante le sue lunghe battaglie pubbliche degli
anni '30. Le idee economiche, o politiche, hanno bisogno
di una visione del mondo per nascere e affermarsi, ma
diventano ideologia nociva quando, da strumento per
interpretare e governare la realtà si sostituiscono alla
realtà stessa diventando un dogma da applicare con fede
e non con ragione.
I "falchi" della Bce sono ben lieti
di trincerarsi dietro ai Trattati e all'idea della
responsabilità fiscale esclusiva degli Stati per
sfruttare totalmente lo spazio esclusivo di politica
monetaria "indipendente" più ampio e meno accountable di
tutto il mondo occidentale. La dottrina secondo cui la
Bce non deve MAI comperare direttamente titoli di Stato
dei paesi membri ha lo stesso valore scientifico di
affermazioni come "la proprietà privata è un furto".
Dire che quella norma sta scritta nei Trattati europei
non cambia le cose: i Trattati possono essere sbagliati,
e infatti lo sono, come è risultato chiaro nella
drammatica situazione che stiamo vivendo.
Una lettura equilibrata
dell'analisi economica porta a concludere che ci sono
situazioni in cui il finanziamento dei disavanzi
pubblici è nocivo per la stabilità monetaria e
finanziaria, altre in cui è utile o necessario. Durante
una crisi economico-finanziaria profonda come quella che
stiamo vivendo, occorre cambiare il libro delle
istruzioni. Garantire il finanziamento ordinato e
stabile del settore pubblico è una condizione necessaria
per stabilizzare sia l'economia reale, sia quella
finanziaria per la quale i titoli di Stato costituiscono
l'unica base solida per ricostruire la piramide del
rischio e ricominciare a finanziare il sistema
economico. E' quello che ha fatto, e continuerà a fare,
la banca centrale americana di concerto col Tesoro, e
che Washington ci esorta a non sabotare in nome del
mondo intero. Ciò non significa ignorare la
sostenibilità del debito, sottoponendola anche al
giudizio dei creditori. Ma al miracolo "non keynesiano"
di una restrizione fiscale che trasforma una recessione
in crescita, non crede più molto neanche chi l'aveva
predicato. Al contrario, i reiterati annunci, minacce,
ricorsi, piazzate a mercati aperti, per porre fine al
"regime keynesiano" troppo presto e troppo brutalmente
hanno, con tutta evidenza, destabilizzato il sistema, un
risultato difficilmente riconducibile ai doveri
istituzionali della Ume. "I policy maker europei
sembrano intenzionati a defraudare i paesi debitori di
quel clima di cui avrebbero gran bisogno" (P. Krugman,
La Repubblica, 27 settembre).
Il problema della mancata soluzione
intergovernativa alla crisi fiscale della Grecia è di
natura più complessa, sia per ragioni tecniche che
politiche. Ma è del tutto evidente che si è trattato di
uno dei moltiplicatori (se non il principale) del
contagio greco e della sua amplificazione a crisi
sistemica dei debiti sovrani. Il braccio di ferro sulla
legittimità di aiuti, per non parlare di salvataggio,
della Grecia (piccola e poco costosa) ha creato (con
qualche ragione) la psicosi collettiva degli investitori
della fallibilità di tutti i debitori (grandi e molto
costosi). Per rimanere sul piano della riflessione
generale, la vicenda ha mostrato per intero i danni che
può oggi produrre la vuota ideologia della
sovranità-responsabilità nazionale su cui si sono
attestati "tecnocratici" e "politicisti" (largamente a
scapito dei secondi).
Mai come oggi, i governi nazionali
sono subordinati ai mercati, alle tecnocrazie europee e
internazionali. Il conseguente tradimento delle promesse
di difesa degli interessi nazionali li indebolisce anche
sul fronte elettorale interno. Gli stessi interessi
nazionali, che esistono e sono legittima parte del gioco
democratico, non coincidono più coi confini nazionali.
Lasciar fallire la Grecia, o l'euro, significa
danneggiare pesantemente l'economia tedesca, francese,
italiana.
Integrazione economica e
finanziaria significa anche venir meno dei fondamenti
"nobili", etici ed istituzionali, dell'avversione ai
sistemi di assicurazione e salvataggio, sia di enti
privati o statali. Primo, non è semplice (spesso è
sbagliato o ipocrita) ricondurre la situazione di un
paese alle sue esclusive responsabilità: le crisi si
esportano e s'importano con grande facilità, insieme
alle merci e ai capitali, e la virtù non è stata
distribuita nel mondo una volta per tutte. Non occorre
ricordare da dove è partita l'attuale destabilizzazione
mondiale. Forse occorre ricordare il precedente europeo
degli anni '90, quando la politica monetaria della
Bundesbank impose i costi della riunificazione tedesca a
tutti gli altri, facendo saltare il Sistema monetario
europeo con conseguente recessione continentale.
Secondo, ci sono casi in cui la somministrazione del
fallimento come medicina dell'etica capitalistica
colpisce e danneggia una moltitudine di soggetti non
responsabili: Lehman Brothers docet. I costi sociali,
incluse equità e giustizia, sono quasi sempre molto
maggiori dei benefici, figuriamoci quando ci sono di
mezzo intere nazioni. Si obietta che se non si
somministra sempre la medicina, o se si offre
un'assicurazione, si crea "azzardo morale" (mi comporto
male perché tanto sono assicurato). Questo è un
argomento serio, e anche molto chic, ma è un po'
abusato, perché spesso è usato per chiudere la
discussione. L'azzardo morale esiste ed è il pane
quotidiano delle compagnie assicurative; esse prosperano
da qualche secolo perché hanno imparato a gestire e
regolare il fenomeno. Cerchiamo di trarne qualche
lezione perché è chiarissimo che la minaccia d'impartire
severe lezioni agli insolventi, in tutti i casi di
rilevante interesse collettivo, non è credibile.
Conclusione?
La prima Grande Crisi del XXI
secolo sta costringendo l'Europa a decidere il proprio
futuro. Se i fatti in corso sono la dimostrazione che la
creazione della moneta unica fu un azzardo irrazionale,
perché i cittadini dei paesi europei non sono pronti
alla solidarietà fiscale, perché i dirigenti politici
non sono in grado di crearla, e quindi un'autorità
economica europea sovranazionale non è realizzabile,
allora tutto questo rimarrà un sogno senza futuro e
stiamo solo perdendo tempo e molto, molto denaro. Oppure
è possibile che il feticcio dell'esclusiva
responsabilità fiscale di ciascuno Stato cadrà quando la
crisi ne avrà reso evidente e insopportabile la
disparità tra costi e benefici.
Ho detto all'inizio che ora tutto
dipende da Germania e Italia. Infatti, creare la
solidarietà fiscale in fondo significa contrarre un
patto matrimoniale di scambio tra regole di
comportamento (rule sharing) e condivisione "della buona
e della cattiva sorte" (debt sharing e risk sharing).
Niente regole senza solidarietà, niente solidarietà
senza regole; quindi niente Unione. In questo momento
storico, la Germania e l'Italia rappresentano le "due
Europe" che devono dire sì a questo patto, l'unica vera
riforma dei Trattati che può salvare l'Unione e darle un
futuro. Sorgerà una classe dirigente realmente europea,
consapevole e all'altezza di questo compito? Gli storici
ci dicono che facciamo un passo avanti solo quando
stiamo per cadere. Speriamo sia questa l'eredità
benevola di questa crisi spaventosa, e largamente
autoinflittaci.
1. L'avanzo primario è il saldo tra
prelievo fiscale e spesa pubblica al netto degli
interessi, e rappresenta un importante indicatore della
capacità di riduzione del debito). |