FONDAMENTALE
di MATTEO
BARIZZA
SOMMARIO:
1. Premessa. – 2. Dalle origini al
Code
Napoléon.
– 3. Dalla codificazione del
1865 al
Codice Civile del 1942. – 4. Il rapporto di lavoro quale
“rapporto complesso”.
– 5. Il
rapporto di lavoro quale “rapporto fondamentale”. – 6.
Osservazioni finali.
1. – PREMESSA.
Il rapporto
di lavoro subordinato, nelle ipotesi fisiologiche di
costituzione, trae
origine dal
contratto di lavoro concluso tra la persona del
lavoratore e quella del
datore, ma
non si identifica in esso, rappresentando, quest’ultimo,
semmai soltanto
l’elemento-fonte (il principale, ma non necessariamente
l’unico) dell’articolato
rapporto
che, per suo tramite, si viene ad instaurare.
Considerato
nel diritto romano e sino all’avvento del codice civile
del 1942 quale
rapporto di
locazione e, successivamente e fin quasi ai giorni
nostri, quale rapporto
complesso
(ossia somma delle singole posizioni giuridiche dallo
stesso nascenti), è
solo con
l’elaborazione dottrinale degli ultimi decenni che si è
giunti ad una
definizione
che ha cercato di privilegiare una dimensione
sostanzialmente
unitaria,
anziché
prettamente atomistica, del rapporto, approdando
finalmente al concetto di
rapporto di
lavoro quale
rapporto fondamentale.
Le presenti
note avranno il compito di tentare di ripercorrere
brevemente tale
excursus
storico,
cercando di spiegare cosa di debba intendere per tale
concetto e come ad esso
si sia
pervenuti.
2
2. – DALLE
ORIGINI AL
CODE
NAPOLÉON.
Il contratto
con il quale ci si obbliga a prestare il proprio lavoro,
sino all’avvento del
Codice
Civile del 1942, poteva essere sistematicamente
collocato nel novero del
contratto di
locazione.
Origine di
questa concezione era la
locatio servi
del diritto
romano, che per molti secoli
ha
rappresentato lo schema negoziale tipico per inquadrare
lo svolgimento
dell’attività lavorativa da parte di uomini non liberi1.
La
locatio servi
poteva
considerarsi al pari di ogni altra forma di locazione2,
con la
quale si
attribuiva temporaneamente la disponibilità ed il
godimento di una
res
per un
determinato
periodo di tempo dal
locator
al
conductor
in cambio di
una mercede.
Unico
elemento distintivo della
locatio servi
era la
peculiarità dell’oggetto della
locazione,
il servo appunto, giuridicamente considerato non come
persona, ma come
res,
indifferente rimanendo la funzione che della
res
ne venisse temporaneamente
fatta3.
La locazione
del
servus,
per svariate finalità pratiche, fu presto accompagnata,
con
l’ampliamento dell’impero romano ed i conseguenti
sconvolgimenti economici e
sociali,
dalla possibilità anche per il
libertus
(prima) e per l’uomo libero (poi), il
mercenarius,
di locare la propria persona4.
La
locatio servi
divenne,
pertanto, in questo periodo
locatio hominis.
Per i romani
era, quindi, normale considerare l’uomo, e non invece il
proprio lavoro,
oggetto del
rapporto giuridico di locazione. Solo in seguito
all’opera di recupero e
1
Cfr. M. MARTINI,
‹‹ Mercenarius››.
Contributo allo studio dei rapporti di lavoro in diritto
romano,
Milano,
Giuffrè, 1958, p.39, parla, in relazione all’utilizzo
degli schemi negoziali consueti anche per le nuove
figure contrattuali, di economia giuridica dei Romani.
2
In questo senso cfr. V. ARANGIO
– RUIZ,
Istituzioni di diritto romano,
14a
ediz., Napoli, Jovene, 1998, p. 345
ss., che dissente dalla dottrina dominante, secondo la
quale il nome
locatio conductio
sarebbe comune a tre
contratti diversi:
locatio conductio rei, locatio conductio operarum,
locatio conductio operis.
3
Così G. SUPPIEJ,
Il rapporto di lavoro – Costituzione e svolgimento,
Padova, 1982, p.2; G. SUPPIEJ,
M. DE
CRISTOFARO,
C. CESTER,
Diritto del lavoro – Il rapporto individuale,
Padova, Cedam, 1998, p.1 ss.
4
In questo senso vedi F. M. DE
ROBERTIS,
I rapporti di lavori nel diritto romano,
Milano, Giuffrè, 1946, p.130
ss.
3
rivalutazione della dignità umana operata dall’etica
cristiana si giunse ad ammettere
quale
oggetto del contratto di locazione non più l’uomo, ma le
energie di lavoro, ossia
le
operae;
si inizia, pertanto, a parlare gradualmente di
locatio operarum,
quale esplicita
espressione
tanto della incommerciabilità della persona, quanto
delle
operae
quale
nuovo
oggetto del contratto di lavoro5.
Il contratto
di locazione delle
operae
si sarebbe
enucleato, pertanto, gradatamente,
grazie, in
principio, ad un primitivo contratto di messa a
disposizione della persona:
dello
schiavo (da parte del padrone) prima, del liberto ed
infine dell’uomo libero6.
Successivamente il nome del contratto
locatio-conductio
inizia ad
essere accomunato a
tre diverse
figure contrattuali; la
locatio rei,
la
locatio operarum
e la
locatio operis7.
E tale
suddivisione
viene, poi, fatta propria dal
Code
Napoléon,
all’art. 1708: “deux
sortes de
contrats de louage
[…]
celui des choses, et celui d’ouvrage”.
3. – DALLA
CODIFICAZIONE DEL
1865
AL CODICE
CIVILE
DEL
1942.
Seguendo
l’esempio del codice civile francese, anche il nostro
codice civile unitario
del 1865
continuava a concepire il contratto di lavoro quale
forma,
sui
generis,
di
locatio-conductio8.
E questo sia per il lavoro subordinato (locatio
operarum),
che per il
lavoro
autonomo (locatio
operis faciendi),
non ben definiti, né distinti l’uno dall’altro
dall’art.
1627 del codice unitario9,
ma entrambi rapportati a quell’unica forma di
5
ULPIANO,
in Dig. 3, 1, 1, 6 parla non più di « locare se », ma di
« locare operas ».
6
Cfr. F.M. DE
ROBERTIS,
op.cit.,
p.129, 130.
7
Per la concezione unitaria della
locatio-conductio
di ARANGIO-RUIZ,
vedi
supra
in nota 2; concorda con il
pensiero di quest’ultimo autore S. MAGRINI,
Lavoro (contratto individuale di),
Enc. dir. XXIII, Milano, 1973,
p.369 ss., che definisce “[…]
l’adattamento della figura della locatio-conductio
romana alla nuova locatio
operarum, intesa in senso nettamente contrapposto alla
locatio operis,
[…]
una vera e propria deformazione del
pensiero romano”.
8
Il codice civile del 1865 definiva, infatti, all’art.
1570 la “locazione
delle opere”
come “il
contratto per cui una
delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa
mediante la pattuita mercede”.
9
Il quale affermava “che
vi sono tre principali specie di locazione di opere e di
industria: 1° quella per cui le
persone obbligano la propria opera all’altrui servizio;
2° quelle de’ vetturini sì per terra come per acqua, che
s’incaricano del trasporto delle persone o delle cose;
3° quella degli imprenditori di opere ad appalto o
cottimo”.
4
contratto di
lavoro rappresentata dalla locazione delle opere, in
contrapposizione alla
locazione
delle cose10.
Unica norma
specifica e riferibile al lavoro subordinato nel codice
unitario del 1865
era l’art.
1628, ove si affermava che “nessuno
può obbligare la propria opera all’altrui
servizio che a tempo o per una determinata impresa”.
Questa forma
di “disinteresse” normativo del legislatore dell’epoca
per il lavoro
subordinato
non deve certo essere letta come indice di una scarsa
rilevanza sociale del
contratto di
lavoro; tutt’al più rappresentava una sorta di omaggio
ad una
plurisecolare tradizione risalente alla giurisprudenza
romana, secondo la quale la
determinazione del contenuto della
locatio operarum
era
prerogativa della piena e
completa
autonomia contrattuale delle parti11.
Ancora
all’inizio del XX secolo, malgrado la dottrina tedesca e
lo stesso
BGB
stessero
abbandonando
l’impostazione concettuale tradizionale in tema di
ricostruzione
sistematica
delle norme in materia di prestazione di lavoro, la
nostra dottrina
rimaneva
saldamente ancorata agli insegnamenti del passato12.
Solo
attraverso un approccio sistematico più moderno è stato
possibile superare
l’impasse
rappresentata dalla concezione del godimento delle
energie propria del
contratto di
lavoro concepito come contratto di locazione13.
10
Così E. GHERA,
Diritto del lavoro,
Bari, Cacucci, 2000, p.51 ss.
11
E. GHERA,
ibidem;
contra
S. MAGRINI,
op. cit.,
p.370 ss., il quale riconosce una posizione di rilievo
alla
tradizione romanistica quanto al ripudio dello schema
della vendita, ma allo stesso tempo afferma che la
scelta di aderire allo schema della
locatio-conductio
operata dal nostro legislatore del 1865, anziché alla
tradizione germanica legata allo schema di un rapporto
fiduciario improntato alla reciproca fedeltà
(Treudienstvertrag),
non fu tanto dettata da un omaggio formale alla
tradizione romanistica, quanto da
ragioni etico sociali improntate ad un profondo valore
di libertà. Una sorta di ripudio della concezione
corporativistico – medioevale, legata ad una dimensione
del lavoratore “[…]
soggetto ad un ordinamento
professionale rigidamente organizzato in strutture
gerarchiche”.
12
Per tutti L. BARASSI,
Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano,
I, Milano, Società editrice libraria,
1915, p. 541 ss., il quale lamenta il tentativo espresso
da MODICA,
Il contratto di lavoro,
p. 17,
ivi
citato, di
inquadrare il contratto di lavoro in una forma
contrattuale
sui generis,
anziché nell’ambito della
locatio;
concorda con L. BARASSI,
PACIFICI-MAZZONI,
Locazioni,
p. 318,
cit.
in nota 3 p. 548-549 da L. BARASSI.
13
La
locatio-conductio
presuppone, infatti, la concessione
temporanea
in godimento della
res
che ne è
oggetto, con l’obbligo della sua restituzione al termine
del contratto; ricostruzione difficile da accettare se
riferita, anziché ad una
res
corporea, ad un’entità, quali le
operae
intese come energie fisiche,
destinate a
consunzione nel momento in cui vengono fruite.
5
Già CARNELUTTI
parlava non di
locatio,
ma di
emptio-venditio operarum,
salvo non voler
intendere la
locazione avente ad oggetto il lavoratore nella sua
dimensione corporea14.
Se ancora
nel 1865 il contratto di lavoro rappresentava una realtà
giuridica
completamente affidata alla disciplina generale delle
obbligazioni e dei contratti e,
quindi,
negli spazi lasciati liberi dalla norme di legge, alle
regole elaborate dagli
ordini
professionali (e corporativi), con l’avvento degli
ordinamenti giuridici liberali e
la
soppressione delle organizzazioni professionali il
contratto di lavoro-locazione
d’opere
veniva “abbandonato” sostanzialmente alla determinazione
regolamentare
della parte
contrattuale più forte: l’imprenditore-conduttore.
Solo gli
ultimi ottanta anni di storia legislativa si sono
caratterizzati per un profondo
mutamento di
tendenza. L’inflazione normativa lavoristica – che ha
visto, ormai, il
rapporto di
lavoro sempre più minuziosamente disciplinato ed il
contratto di lavoro
divenire uno
schema precostituito per entrambe le parti, tale da
rendere del tutto
privo di
valore il suo accostamento ad un tipo negoziale
tradizionale – si è sempre più
caratterizzata per una precisa volontà garantistica
della parte debole del rapporto, il
lavoratore,
considerato come contraente debole (prima) e come
persona (poi)15.
Una sorta di
tutela del lavoratore assegnata dall’ordinamento alla
disciplina giuridica
del rapporto
di lavoro16.
14
F. CARNELUTTI,
Teoria generale del diritto,
3a
ediz., Roma, 1951, p. 127: “[…]
nell’uomo va schiettamente
riconosciuta,
[…]
non solo una persona, ma pure una cosa, e così
[…]
un oggetto di diritto, il qual diritto può
appartenere sia alla persona del medesimo uomo,
[…]
sia alla persona di un uomo diverso”;
vedi anche pp. 148 e
172.
15
M. RUSCIANO,
Sospensione del rapporto di lavoro (cause di),
EGT, XXX, 1993, p. 1.
16
In questo senso cfr. G. SUPPIEJ,
M. DE
CRISTOFARO,
C. CESTER,
Diritto etc.cit,
p. 5.
6
4. – IL
RAPPORTO DI LAVORO QUALE
“RAPPORTO
COMPLESSO”.
Abbiamo
visto che il contratto di lavoro è, ormai, oggi uno
schema giuridico
precostituito per entrambe le parti, interamente
disciplinato dalla legge o, comunque,
integrato
dalla contrattazione collettiva17.
Ma il
contratto di lavoro, tutt’al più, rappresenta solo
l’elemento-fonte del complesso
rapporto
che, per suo tramite, si viene ad instaurare tra
lavoratore e datore di lavoro:
il rapporto
di lavoro, appunto. Rappresenta, cioè, a far propria la
terminologia usata
da RUBINO
in un
suo famoso scritto18,
la fattispecie grazie alla quale è possibile la
produzione
di un insieme di effetti giuridici che trovano, poi, il
loro presupposto nel
rapporto
(fondamentale) di lavoro.
Rapporto di
lavoro che la dottrina comune ha da sempre, però,
tentato di definire in
termini
diversi da quelli appena accennati. Ricorrendo, infatti,
ad una nozione
sostanzialmente
atomistica,
essa ha definito il rapporto con l’attributo
complesso,
costituito,
cioè, da una pluralità di singole posizioni giuridiche
(chiamate anche
rapporti
semplici, o singoli19)
proprie delle due contrapposte parti contrattuali, tutte
aventi la
loro unica fonte nel contratto20.
Posizioni considerabili nella loro singola
realtà e
complessivamente riunite, poi, in unico vincolo
giuridico che ne rappresenta
la semplice
somma.
17
L’attuale codice civile non prevede il contratto di
lavoro come contratto tipico nel IV libro, ma definisce
all’articolo 2094, titolo II del libro V (lavoro
nell’impresa), la figura del lavoratore subordinato.
18
D. RUBINO,
La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari,
Edizioni Scientifiche Italiane, Ristampa a cura
della scuola di perfezionamento in diritto civile
dell’università di Camerino, a cura di P. PERLINGIERI,
1978, ristampa inalterata dell’edizione del 1939.
19
D. RUBINO,
op. cit.,
p. 11; anche G. SUPPIEJ,
Il rapporto di lavoro etc. cit.,
p. 348, parla, seppur in relazione
all’oggetto della fattispecie sospensione, di posizioni
giuridiche singole e dei relativi controcrediti,
lasciando, quindi, intendere di considerare la medesima
relazione giuridica nel senso di rapporto
giuridico semplice, o singolo, come costruito da SAVIGNY
e fatto proprio, poi, da D. RUBINO
per elaborare
la sua tesi sul rapporto fondamentale.
20
G. SUPPIEJ,
op. cit.,
p. 60 ss.
7
Un
insormontabile limite a questo comune modo di intendere
il rapporto di lavoro è
certamente
rappresentato dall’incapacità della concezione
atomistica di cogliere
l’aspetto
unitario del rapporto e, quindi, il nesso fra le singole
posizioni giuridiche, fra
i singoli
rapporti semplici che legano le due parti contrattuali.
Principalmente per questo motivo voci autorevoli hanno
ritenuto il concetto di
rapporto
complesso (di lavoro) come non soddisfacente a spiegare
il fenomeno nella
sua
interezza. Gli sviluppi successivi si sono, pertanto,
orientati verso la ricerca di una
dimensione
sostanzialmente
unitaria
del
rapporto, anziché prettamente atomistica
quale quella
offerta dal panorama dottrinario comune.
5. –
IL RAPPORO DI LAVORO QUALE
“RAPPORTO
FONDAMENTALE”.
Tentativi di
riconduzione del rapporto ad unità che hanno visto la
dottrina tanto
cimentarsi
nelle più disparate discussioni circa la natura
istituzionale21
o
meno del
rapporto di
lavoro nell’impresa22,
quanto tentare di ridurre ad unità il rapporto
21
Concezione, questa, foriera di innumerevoli risvolti
problematici in dottrina generale, per quanto
riguarda, in particolar modo, la conseguenza principale,
la pluralità degli ordinamenti giuridici, che
discende dal considerare
istituzione
il rapporto di lavoro nell’impresa.
22
Fra tutti cfr. S. ROMANO,
L’ordinamento giuridico,
2a
ed., Firenze, Sansoni, 1946, capostipite della teoria
istituzionalistica italiana, il quale però, nel suo
scritto, particolarmente a p. 55, esclude che si possa
parlare di istituzione in riferimento al rapporto di
lavoro, in quanto “l’istituzione
non si risolve mai in un
singolo rapporto o in più rapporti giuridici determinati”,
ma è “[…]
a questa preordinata”.
Importanti riflessioni
critiche sul tema anche in M. PERSIANI,
Contratto di lavoro e organizzazione,
Padova, Cedam, 1966, in
particolare a pp. 81 ss. Tale Autore incentra la sua
teoria sull’attribuzione di una persistente funzione di
scambio al contratto di lavoro, caratterizzato per
un’accentuata intensità dell’obbligo
di fedeltà
del
lavoratore verso il datore. Concretamente, per M. PERSIANI,
il fine dell’impresa può essere rappresentato
dalla persona stessa dell’imprenditore, dal momento che
l’organizzazione del lavoro viene dalla stesso
predisposta. Ogni giudizio, pertanto, incentrato sul
rapporto di lavoro non può che essere compiuto
assumendo quale criterio tipico di valutazione quello
proprio della persona che ha predisposto
l’organizzazione medesima per il “[…]
conseguimento di fini che sono esclusivamente suoi”.
Contro tale
interesse si ergerebbe quello del lavoratore, che si
ridurrebbe ed esaurirebbe unicamente nella
retribuzione (pp. 63-65). Soddisfatto tale interesse,
resterebbe da soddisfare quello del datore, al cui fine
dovrebbe completamente adeguarsi il comportamento del
debitore. L’attività di lavoro obbedirebbe,
pertanto, secondo tale teoria, al criterio della
funzionalizzazione
all’interesse del datore e dovrebbe
consistere non tanto in un comportamento diligente,
quanto in un comportamento subordinato e fedele
(pp. 214-215), elevando infine la fedeltà al grado di
«dovere». M. PERSIANI,
in ogni caso, non utilizza il
concetto di
istituzione,
ma sembra prenderne a volte le distanze, affermando a
pp. 38 ss che “[…]
l’organizzazione dell’impresa
[…]
non costituisce un sistema autonomo di produzione di
norme, né tanto meno di
8
medesimo
attraverso l’unificazione per lo meno in una posizione
giuridica
complessiva
delle diverse posizioni specifiche che fanno capo a
ciascuna delle parti23.
In primis
la posizione
passiva del lavoratore, riunificata attorno ad una sola
obbligazione
definita predominante (la prestazione di lavoro),
accanto a svariati altri
doveri
considerati alla stregua di semplici manifestazioni
della prestazione
medesima24.
Malgrado,
comunque, i tentativi operati da certa parte della
dottrina e finalizzati ad
abbandonare
la dimensione atomistica del rapporto attraverso la sua
concezione in
termini di
unitarietà, non appare ancora possibile cogliere la
dimensione globale ed
allo stesso
tempo unitaria del fenomeno, in riferimento,
soprattutto, ad alcuni aspetti
del rapporto
che, se non inquadrati entro una corretta e
soddisfacente dimensione,
rischiano di
essere fraintesi.
Fra tutti il
tema della sospensione della prestazione lavorativa:
come poter
esaurientemente spiegare, infatti, il diritto alla
conservazione del posto di lavoro e la
rapporti giuridici”,
dando, inoltre, dimostrazione di preferire
all’espressione
istituzione
quella di
organizzazione.
Sul punto merita anche un accenno l’importante opera di
A. CESSARI,
Fedeltà, lavoro,
impresa,
Milano, Giuffrè, 1969, che proprio in tema di fedeltà
sposta l’angolo visuale dall’imprenditore
(concezione
individuale
e
signorile)
all’impresa
(concezione
comunitaria
dell’impresa).
Secondo tale Autore
l’obbligo di fedeltà che grava sul lavoratore deve
necessariamente essere concepito in relazione
“all’esigenza
di evitare che sia pregiudicata l’attitudine
dell’impresa alla funzione strumentale che la
caratterizza”
(p. 129), concepita, ora, “[…]
dal suo originario carattere attributivo dell’azione
economica individuale”,
come
“[…]
centro nel quale si integra l’attività coordinata di più
persone”
(p. 128). Per A. CESSARI,
infatti, l’attività
d’impresa esige, per essere svolta, “d’essere
ripartita fra più soggetti, tutti chiamati al
coordinamento della
prestazioni singole per una destinazione di scopo”
(p. 105). In tal modo, l’obbligo di fedeltà di cui
all’articolo
2105 c.c., è concepito non tanto quale «dovere» verso
l’imprenditore, ma unicamente “[…]
in funzione
dello stesso interesse alla cui stregua si atteggia
l’obbligo di diligenza previsto dal precedente art. 2104
c.c.”
(p.
130), che “[…]
non è minimante riferibile al supposto interesse
dell’imprenditore al profitto, bensì al distinto
interesse dell’impresa come organizzazione tecnica di
lavoro”
(pp. 75-76). Il contratto di lavoro non potrebbe,
pertanto, ottenere una configurazione quale quella
dettata dallo schema romanistico (puramente di
contratto di scambio)
do ut des,
in cui l’interesse dell’impresa è fatto coincidere con
quello individuale
dell’imprenditore, ma “ […]
deve piegare l’uso dei propri strumenti alla
penetrazione delle categorie dell’attività
e dell’organizzazione”
(p. 89).
23
Cfr. in questo senso G. SUPPIEJ,
op. cit.,
p. 65.
24
Cfr. M. CASANOVA,
Studi sul diritto del lavoro,
cit.
in G. SUPPIEJ,
op. cit.,
p. 65; VENTURI,
Il diritto fascista del
lavoro,
Torino, 1938, p. 220,
cit.
in G. SUPPIEJ,
op. cit.,
p. 66; G. MAZZONI,
Manuale di diritto del lavoro,
I, 5a
ed., Milano, Giuffrè, 1977, p. 480 ss., il quale mostra
di concepire la prestazione di lavoro come “[…]
un’unica obbligazione”
di cui le varie sue
specificazioni “[…]
in un obbligo di lavoro, in un obbligo di diligenza,
di collaborazione e di obbedienza e in un obbligo di
fedeltà”
sono fatte “[…]
per meglio sviscerare le peculiari
caratteristiche di questo specialissimo rapporto
[di lavoro]”.
9
continuità
degli effetti giuridici derivanti dal rapporto durante
la sospensione della
prestazione
lavorativa (è, infatti, la prestazione di lavoro che è
oggetto di sospensione,
e non il
rapporto)?
Sulla scia
della dottrina tedesca e grazie, in seguito, all’attento
lavoro di analisi
compiuto da
RUBINO25,
è stata elaborata una diversa e più completa nozione di
rapporto di
lavoro, che ha il merito di aver colto effettivamente la
dimensione globale
ed unitaria
della relazione scaturente fra la persona del lavoratore
e quella del datore
di lavoro.
Sicuramente
il rapporto di lavoro è un rapporto contrattuale, un
rapporto che trae,
cioè,
origine dal contratto di lavoro26.
Non si può,
però, affermare che tutte le posizioni giuridiche del
rapporto, sia dal lato
attivo, sia
dal lato passivo, nascano e si giustifichino
necessariamente ed unicamente
in relazione
al contratto di lavoro27.
Il diritto
alle ferie, per esempio, come principalmente la stessa
retribuzione,
presuppongono certo il contratto di lavoro quale
elemento fonte del rapporto di cui
poi ne
rappresentano degli aspetti per altro rilevanti; ma
necessitano, inoltre, della
prestazione
lavorativa da parte del lavoratore – e quindi di un
facere
che non
trova la
sua fonte
esclusivamente nel contratto, ma che ha il suo
presupposto in un rapporto
che dal
primo è generato28
– per
poter essere corrisposti.
Tanto è vero
che, in linea generale e salvo esplicite deroghe
contenute proprio nella
disciplina
di alcune fattispecie di sospensione della prestazione
di lavoro, se non c’è
25
D. RUBINO,
La fattispecie etc. cit.,
p. 3 ss.
26
In questo senso, vedi per esempio A. VALLEBONA,
Il rapporto di lavoro,
Padova, Giappichelli, 1999, p. 39.
L’origine contrattuale del rapporto viene da questo
autore sostenuta, malgrado il tentativo di ricondurre
la fonte del rapporto di lavoro non al contratto, ma
all’inserzione di fatto del prestatore nell’impresa in
una dimensione di comunanza di scopo con il datore di
lavoro; è questa la c.d. teoria
istituzionalecomunitaria,
riferita a p. 39 dallo stesso Autore.
27
D. RUBINO,
La fattispecie e gli effetti etc. cit.,
p. 15: “[…]
gli effetti singoli, derivanti ad esempio da un negozio
giuridico, possono sorgere in momenti successivi; taluni
sorgono nel momento in cui
[…]
il negozio diviene efficace;
altri possono sorgere posteriormente”.
28
Cfr. D. RUBINO,
op. cit.,
p. 20, il quale afferma: “[…]
il negozio
[…]
fa sorgere il rapporto fondamentale; gli
effetti singoli, a loro volta, derivano dal rapporto
fondamentale”.
10
alcuna
prestazione la retribuzione non è dovuta29,
stante il suo carattere di
corrispettivo della prestazione di lavoro30.
Il
contratto, cioè, se pur necessario, non è da solo
sufficiente a spiegare il rapporto di
lavoro nel
suo complesso; rapporto che, certamente, nasce al
perfezionarsi della
fattispecie
negoziale ed al sorgere dei suoi primi effetti
giuridici, ma che si sviluppa,
poi, grazie
ad ulteriori altri fatti che vengono ad incidere su un
quid
preesistente, che
tuttavia non
è alcuno dei rapporti singoli già sorti, ma un’entità da
questi distinta31.
Pertanto:
contratto di lavoro come elemento fondante il rapporto
di lavoro, ma non
come unica
fonte delle molteplici posizioni giuridiche
riconducibili alle due parti
contrattuali32;
posizioni che possono, invece, ricondursi al
rapporto fondamentale di
lavoro
che, ed è
questo l’elemento importante, non ne rappresenta la
sterile somma, o
la sommaria
unione, né tanto meno raffigura questo o quel potere, o
dovere
particolare,
questa o quella relazione fra singola posizione attiva e
singola posizione
passiva nel
tentativo di coglierne l’unitarietà33.
Il rapporto
di lavoro, quale
rapporto fondamentale,
rappresenta, invece, una relazione
giuridica
continuativa tra due soggetti che non consiste, com’è
per la nozione classica
di rapporto
giuridico, nella relazione fra un diritto e il dovere
corrispondente, bensì in
un vincolo
neutro, ma la cui esistenza, tuttavia, costituisce il
presupposto per la
produzione,
al verificarsi di determinati fatti, di una pluralità di
effetti34.
29
In questo senso cfr. G. SPOLVERATO,
La giusta retribuzione del lavoratore,
in
Diritto & pratica del lavoro,
n.
38/2002, p.2525; M. RUSCIANO,
op. cit.,
p.4.
30
G. SPOLVERATO,
op. cit.,
p. 2523.
31
In questo senso cfr. D. RUBINO,
op. cit.,
p 18-19.
32
Contesta tale tesi di G. SUPPIEJ,
M. PERSIANI,
Contratto di lavoro etc. cit.,
p.161 ss., il quale sul punto
sentenzia che “[…]
se si vuole dare ragione del modo in cui
[…]
i soggetti sono abilitati dall’ordinamento a
soddisfare i loro interessi, si deve ritenere che gli
effetti giuridici attraverso i quali tale soddisfazione
si realizza, non
possano
[…]
essere spiegati che con riferimento al contratto”.
33
Afferma G. SUPPIEJ,
op. cit.,
p. 69, “che
l’unitarietà del rapporto di lavoro non si coglie
esattamente unificando
l’insieme delle posizioni giuridiche di ciascuna delle
parti, ma soltanto considerando la sostanziale unità
dell’intero
rapporto”,
da intendersi quale rapporto fondamentale
34
In questo senso cfr. G. SUPPIEJ,
Il rapporto etc.,
cit,
p. 68.
11
Un rapporto
definito dallo stesso RUBINO
amorfo,
perché da esso potrebbero derivare
per entrambe
le parti diritti e obblighi35,
e non come entità statica, ma come fenomeno
intimamente
dinamico.
Realtà sulla
quale, nel suo evolversi, si innestano le varie
posizioni giuridiche delle
parti al
verificarsi di determinati fatti idonei, nel loro
intrinseco combinarsi con il
contratto di
lavoro, alla produzione di singoli effetti giuridici che
immancabilmente
vengono ad
incidere su quel
quid
preesistente che RUBINO
chiama, appunto,
rapporto
fondamentale.
Nozione,
questa, certamente tra le più soddisfacenti, esaurienti
ed utili, in grado in
particolar
modo di affrontare in termini consoni il problema della
continuità degli
effetti
derivanti dal rapporto di lavoro durante la sospensione
della prestazione
lavorativa;
perché ciò che si sospende è, infatti, una di quelle
posizioni giuridiche che
trovano la
propria essenza nel
rapporto fondamentale,
uno di quei rapporti singoli che si
rifanno ad
un unico
rapporto fondamentale36.
Rapporto
che,
medio tempore,
permane attivo, continuando, pertanto, a produrre
effetti
rilevanti
per le parti contrattuali.
Tale
soluzione è senz’altro anche una delle più appaganti,
contrariamente a quanto si
addiviene se
si concepisce il rapporto di lavoro quale rapporto
complesso, o quale
rapporto
unitariamente rappresentato in un’unica posizione
giuridica, quella passiva
del
lavoratore, per esempio.
Nel primo
caso (rapporto complesso) la fattispecie sospensione e
la contemporanea
permanenza
degli effetti del rapporto risultano difficilmente
giustificabili, dal
momento che
i più rapporti giuridici singoli (atomisticamente
considerati) che
compongono
il rapporto di lavoro complesso non presentano alcun
nesso giuridico
35
Cfr. D. RUBINO,
op. cit.,
p. 14.
36
Cfr. D. RUBINO,
ibidem.
12
fra di loro,
né risultano tanto meno rifarsi ad un unico rapporto che
ne rappresenti il
presupposto.
Sospendendo,
pertanto, una di tali posizioni giuridiche (o rapporti
giuridici singoli,
che dir si
voglia), ad esempio proprio l’obbligo di lavoro, non
risulta agevole
comprendere
come l’intero rapporto possa rimanere in vita e,
soprattutto, produrre
effetti
giuridici rilevanti, se il rapporto singolo non trova a
sua volta la propria
giustificazione ontologica in un
quid
unitario che ne funga da presupposto37.
Nel secondo
caso perché, concependo il rapporto di lavoro come
unificato intorno ad
una sola
posizione giuridica (definita principale) di una delle
parti, sospendendo
proprio
quest’ultima, il rapporto per forza deve entrare in una
fase di quiescenza. La
sua
prosecuzione giuridica non può trovare, pertanto,
esauriente giustificazione.
6. – OSSERVAZIONI
FINALI.
La
concezione del rapporto di lavoro quale
rapporto fondamentale
permette di
dare una
spiegazione
più esauriente e piena del complesso rapporto di
posizioni giuridiche che
si vengono
ad instaurare tra la persona del lavoratore e quella del
datore di lavoro per
l’effetto
della conclusione del contratto di lavoro e
dell’evolversi del rapporto che da
questo,
in
primis,
ne discende, permettendo, altresì, di trovare risposte
più ragionevoli
e congrue
agli innumerevoli interrogativi riguardanti, per
esempio, la sorte del
rapporto
nell’ipotesi di sospensione della prestazione
lavorativa.
Interrogativi, invece, che non sempre troverebbero
risposte così adeguate se solo ci si
adeguasse a
quella diversa teoria del rapporto di lavoro inteso
quale rapporto
complesso,
ossia quale semplice somma delle differenti posizioni
giuridiche che fanno
37
D. RUBINO,
op. cit.,
p. 15: “[…]
il rapporto fondamentale designa una nuova realtà,
sopraordinata agli effetti
singoli”.
13
capo alle
due differenti parti contrattuali, vista l’incapacità di
tale concezione di
cogliere
adeguatamente l’aspetto unitario del rapporto di lavoro. |