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PARADOXA VACATIONIS" - Enzo MARIGONDA

 

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Sfruttamento e riempimento dei tempi e degli spazi, esibizione e baccano caratterizzano la concezione prevalente della vacanza e dei luoghi di vacanza, a dispetto delle superficiali espressioni di elogio della tranquillità, della contemplazione, della bellezza della natura.

Non è chiaro se il tempo delle vacanze, ormai alle spalle, giovi al pensiero. Secondo alcuni, le vacanze servono a placare la mente; secondo altri, a renderla più acuminata.
L’etimo di ‘vacanza’ però rimanda al vuoto, allo svuotamento, alla vacuità. E i comportamenti, i discorsi, le espressioni facciali di molti turisti avvalorano questa lettura.
Del resto, la necessità di fare il vuoto per qualche settimana è ben presente alla coscienza di molti “vacanzieri”. A sentirli, condividono una vocazione quanto mai salda alla vita contemplativa e perseguono forme di turismo rigorosamente all’insegna degli spazi liberi e della pace perfetta. A ogni pie’ sospinto, magnificano i doni inestimabili del silenzio e della solitudine, salvo poi attrupparsi alla prima occasione per evitare cadute depressive.
Amici fidati e servizi giornalistici si prodigano nel consigliare i posti giusti: il paesino appartato, la caletta deserta, l’incantevole itinerario semisconosciuto. Inutilmente. Legioni di turisti che si dicono in cerca d’isolamento e tranquillità prenderanno subito d’assalto quei “posti giusti”, rendendoli rapidamente inabitabili e cancellandone le qualità che li hanno fatti segnalare.
Per fortuna, non saranno in molti a soffrire: la beata solitudo non è poi così apprezzata come si vuole far credere: i pochi autentici amanti di tale condizione avranno di che penare a trovare soddisfazione, mediante complesse manovre di evitamento dell’altrui presenza.
I più invece si adatteranno, entro certi limiti, al rumore e all’affollamento. Accetteranno un moderato gregarismo, con tutti i benefici secondari del caso: nuove conoscenze, gossip, possibilità di esibirsi e primeggiare, etc., E non baderanno troppo a rumori e musicacce, abituati come sono a un soundtrack esistenziale permanente.

Se però il bel posto continua a sfuggire al dannoso zelo del giornalismo turistico e si mantiene appartato, se non incontaminato, capiterà – come a chi scrive – d’incontrare l’entusiasta che, dopo aver espresso la sua meraviglia per il delizioso villaggetto isolato e inaccessibile ai mezzi di trasporto, rimasto finora impermeabile a qualsiasi forma di sfruttamento commerciale, comincia subito a fantasticare su quanto sarebbe bello (traduci: profittevole, furbo, vantaggioso – per lui, s’intende) aprirci un’attività commerciale.
Per carità, niente di eccessivo: un localino chic, un baretto con musica dal vivo, un ritrovo “che manca”, e che subito avrebbe successo.
Il fatto che una “minimovida” locale altererebbe per sempre la bellezza e la pace del paesino, finendo per distruggerle, non si affaccia neppure alla mente del falso estimatore di luoghi tranquilli e ben preservati. L’importante per lui è aver trovato una “nicchia” vuota da riempire di gente, rumore, oggetti di consumo, oltre che un modo di far soldi. Magari con la copertura di uno di quei discorsi insopportabili sulla necessità di creare “nuovi punti di aggregazione”, di cui la comunità (i ‘ggiovani, soprattutto) sente tanto il bisogno.

Il giorno stesso in cui lo scrivente ascolta inorridito la fantasticheria sul futuro bar o bistrot che sia (ma già si sono avviati i primi contatti per affittare lo spazio adatto), la lettura di un gran libro autobiografico di Fosco Maraini (‘Case, amori, universi’, Mondadori) lo istruisce su alcuni aspetti della cultura giapponese, e più in particolare sulla percezione della natura e della “vacanza”.
Maraini ci racconta (p. 514) come un potente del passato (lo shogun Gomizu-no-o) amava trascorrere il suo tempo libero, quando si ritirava nella sua villa imperiale.
Prima di tutto, la villa non aveva nulla di “imperiale” nel senso che si dà di solito a questa parola. Non si trattava infatti di un “vasto, sontuoso, complesso edificio come potrebbe trovarsi all’Isola Bella di Stresa o alla villa Aldobrandini di Firenze… Il parco-giardino c’è sì, ed è grande assai, coprendo oltre cinque ettari di terreno, ma al suo interno si trovano solo delle squisite capanne di legno, carta, paglia e bambù, varie per disegno e dimensioni – tutte però tendenti al piccolo, se non al minuscolo.”

Anche più interessante è ciò che apprendiamo sull’atteggiamento del nobile shogun, improntato alla massima discrezione e al rifiuto di ogni spinta esibitiva.
Si assiste anzi a un rovesciamento di prospettiva, rispetto al costume occidentale, che predilige il mostrarsi e il farsi ammirare, a vantaggio del puro piacere contemplativo: “Le capanne non sono fatte, quasi, per essere viste, ma come umili ripari per vedere, per rendere omaggio alla natura d’intorno… per seguire incantato e consolato il volgere delle stagioni, il fiorire delle azalee a primavera, piogge e nebbie che vagano tra i pini d’estate, erubescenze d’aceri in autunno, e ricami di neve in inverno.”
Il gusto, le emozioni, le aspirazioni soggiacenti a comportamenti come quelli appena descritti non potrebbero essere più distanti dalla nostra cultura, così profondamente involgarita, sporca e chiassosa, nemica dell’intervallo e dell’incanto.
Per noi, niente “squisite capanne” per osservare e meditare; solo agitazione, baccano, godimento esteriore e compulsivo.

 

 

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