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Sfruttamento e riempimento dei
tempi e degli spazi, esibizione e baccano caratterizzano
la concezione prevalente della vacanza e dei luoghi di
vacanza, a dispetto delle superficiali espressioni di
elogio della tranquillità, della contemplazione, della
bellezza della natura.
Non è chiaro se il tempo delle
vacanze, ormai alle spalle, giovi al pensiero. Secondo
alcuni, le vacanze servono a placare la mente; secondo
altri, a renderla più acuminata.
L’etimo di ‘vacanza’
però rimanda al vuoto, allo svuotamento, alla vacuità. E
i comportamenti, i discorsi, le espressioni facciali di
molti turisti avvalorano questa lettura.
Del resto, la necessità di fare il vuoto per qualche
settimana è ben presente alla coscienza di molti
“vacanzieri”. A sentirli, condividono una vocazione
quanto mai salda alla vita contemplativa e perseguono
forme di turismo rigorosamente all’insegna degli spazi
liberi e della pace perfetta. A ogni pie’ sospinto,
magnificano i doni inestimabili del silenzio e della
solitudine, salvo poi attrupparsi alla prima occasione
per evitare cadute depressive.
Amici fidati e servizi giornalistici si prodigano nel
consigliare i posti giusti: il paesino appartato, la
caletta deserta, l’incantevole itinerario
semisconosciuto. Inutilmente. Legioni di turisti che si
dicono in cerca d’isolamento e tranquillità prenderanno
subito d’assalto quei “posti
giusti”, rendendoli rapidamente
inabitabili e cancellandone le qualità che li hanno
fatti segnalare.
Per fortuna, non saranno in molti a soffrire: la
beata solitudo non è poi così apprezzata come si vuole far
credere: i pochi autentici amanti di tale condizione
avranno di che penare a trovare soddisfazione, mediante
complesse manovre di evitamento dell’altrui presenza.
I più invece si adatteranno, entro certi limiti, al
rumore e all’affollamento. Accetteranno un moderato
gregarismo,
con tutti i benefici secondari del caso: nuove
conoscenze, gossip, possibilità di esibirsi e
primeggiare, etc., E non baderanno troppo a rumori e
musicacce, abituati come sono a un
soundtrack
esistenziale permanente.
Se però il bel posto continua a sfuggire al dannoso zelo
del giornalismo turistico e si mantiene appartato, se
non incontaminato, capiterà – come a chi scrive –
d’incontrare l’entusiasta che, dopo aver espresso la sua
meraviglia per il delizioso villaggetto isolato e
inaccessibile ai mezzi di trasporto, rimasto finora
impermeabile a qualsiasi forma di sfruttamento
commerciale, comincia subito a fantasticare su quanto
sarebbe bello (traduci: profittevole, furbo, vantaggioso
– per lui, s’intende) aprirci un’attività commerciale.
Per carità, niente di eccessivo: un localino chic, un
baretto con musica dal vivo, un ritrovo “che manca”, e
che subito avrebbe successo.
Il fatto che una “minimovida” locale altererebbe per
sempre la bellezza e la pace del paesino, finendo per
distruggerle, non si affaccia neppure alla mente del
falso estimatore di luoghi tranquilli e ben preservati.
L’importante per lui è aver trovato
una “nicchia” vuota da
riempire di gente, rumore, oggetti di
consumo, oltre che un modo di far soldi. Magari con la
copertura di uno di quei discorsi insopportabili sulla
necessità di creare “nuovi punti di aggregazione”, di
cui la comunità (i ‘ggiovani, soprattutto) sente tanto
il bisogno.
Il giorno stesso in cui lo scrivente ascolta inorridito
la fantasticheria sul futuro bar o bistrot che sia (ma
già si sono avviati i primi contatti per affittare lo
spazio adatto), la lettura di un gran libro
autobiografico di
Fosco Maraini
(‘Case, amori,
universi’, Mondadori) lo istruisce su
alcuni aspetti della cultura giapponese, e più in
particolare sulla percezione della natura e della
“vacanza”.
Maraini ci racconta (p. 514) come un potente del passato
(lo shogun Gomizu-no-o) amava trascorrere il suo tempo
libero, quando si ritirava nella sua villa imperiale.
Prima di tutto, la villa non aveva nulla di “imperiale”
nel senso che si dà di solito a questa parola. Non si
trattava infatti di un “vasto,
sontuoso, complesso edificio come potrebbe trovarsi
all’Isola Bella di Stresa o alla villa Aldobrandini di
Firenze… Il parco-giardino c’è sì, ed è grande assai,
coprendo oltre cinque ettari di terreno, ma al suo
interno si trovano solo delle squisite capanne di legno,
carta, paglia e bambù, varie per disegno e dimensioni –
tutte però tendenti al piccolo, se non al minuscolo.”
Anche più interessante è ciò che apprendiamo
sull’atteggiamento del nobile shogun, improntato alla
massima discrezione e al rifiuto di ogni spinta
esibitiva.
Si assiste anzi a un
rovesciamento
di prospettiva, rispetto al costume
occidentale, che predilige il mostrarsi e il farsi
ammirare, a vantaggio del puro piacere contemplativo: “Le
capanne non sono fatte, quasi, per essere viste, ma come
umili ripari per vedere, per rendere omaggio alla natura
d’intorno… per seguire incantato e consolato il volgere
delle stagioni, il fiorire delle azalee a primavera,
piogge e nebbie che vagano tra i pini d’estate,
erubescenze d’aceri in autunno, e ricami di neve in
inverno.”
Il gusto, le emozioni, le aspirazioni soggiacenti a
comportamenti come quelli appena descritti non
potrebbero essere più distanti dalla nostra cultura,
così profondamente involgarita, sporca e chiassosa,
nemica dell’intervallo e dell’incanto.
Per noi, niente “squisite capanne” per
osservare e meditare;
solo agitazione, baccano, godimento esteriore e
compulsivo.
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