Avv. Stefano Rossi
Una premessa: la
medicina difensiva come causa e non come soluzione.
Viviamo
in un contesto giuridico e culturale nel quale quando si
verifica un incidente, la tendenza immediata è quella di
cercare ed individuare un colpevole al quale vanno
attribuite le responsabilità: ciò determina quindi una
reazione che si sviluppa principalmente sotto il profilo
disciplinare e sanzionatorio. L’organizzazione e
l’amministrazione, nel cui ambito si è originato il
processo causale che ha portato all’evento lesivo,
invece, rimangono sullo sfondo come se la ricerca delle
responsabilità individuali costituisse la panacea di
tutti i mali. A fronte di tale situazione la medicina
difensiva diventa la soluzione più semplice che i medici
vengono ad adottare per tentare di tutelarsi, anche se
ciò inibisce l’apprendimento organizzativo, con il
rischio di minare la qualità delle attività di cura
aumentandone i costi.
Nella
definizione fornita dal Congresso degli Stati Uniti,
la medicina difensiva si concreta in quell’insieme di
condotte e prassi adottate dai medici volte a ordinare
esami, procedure o visite (assurance behaviors),
o ad evitare di dover trattate pazienti a rischio o
procedure ad alto rischio (avoidance behaviors),
principalmente (ma non esclusivamente) per ridurre la
propria esposizione al contenzioso legale. Esistono
perciò due tipi di comportamento difensivo: l’uno
orientato ad effettuare azioni e procedure in esubero,
l’altro, invece, indirizzato ad eludere alcuni
trattamenti che possono essere considerati a rischio.
La
percezione di un rischio concreto
di incorrere in un’azione di responsabilità induce i
medici a modificare le proprie condotte professionali,
in modo tale che la tutela della salute del paziente,
può, spesso, diventare per il sanitario un obiettivo
subordinato alla minimizzazione del rischio legale.
Tale
fenomeno è strettamente legato all’aumento costante
delle richieste di risarcimento da parte dei pazienti,
che rivela come la categoria degli operatori sanitari
sia particolarmente esposta al rischio di dover
affrontare procedimenti giudiziari tanto in sede civile
che in sede penale.
Detto
questo, ci si può chiedere il perché abbia dato avvio
alla mia esposizione dalla considerazione del fenomeno
della cd. medicina difensiva. Semplicemente perché nella
vulgata la si considera uno strumento efficace,
uno scudo pre-giudiziario, se serve utilizzabile anche
nelle aule dei Tribunali, per ridurre l’esposizione al
rischio di essere vittima di cause di malpractice.
In
realtà tale atteggiamento da parte della classe medica
comporta una sorta di eterno ritorno all’errore,
nella misura in cui la medicina difensiva è causa di un
aumento esponenziale della conflittualità tra il
personale sanitario (in quanto ognuno pensa in primis
a tutelare sè stesso) e nei confronti dei pazienti,
dando luogo inevitabilmente ad un clima nel quale il
rischio di errore
cresce esponenzialmente.
Essenziale appare quindi il processo di decostruzione
del concetto di medicina difensiva, in quanto ad essere
rilevante è il profilo sistemico di tale fenomeno nella
misura in cui le conseguenze dell’errore medico si
irradiano non solo attraverso i danni ai pazienti e la
condanna degli operatori e delle strutture sanitarie, ma
hanno un impatto sulla gestione dei rischi e dei
relativi risarcimenti e conseguentemente sul
funzionamento e sui costi degli ospedali.
Quali
gli strumenti per ottenere giustizia ?
L’aumento delle denunce in materia di responsabilità
medica induce a riflettere sugli strumenti che il nostro
ordinamento mette a disposizione per tutelare i diritti
e gli interessi dei medici vittime di ingiuste accuse:
in particolare si possono prospettare, in astratto,
diversi percorsi che vanno dalla presentazione di una
querela per calunnia nei confronti del paziente o dei
suoi familiari (con la speranza di potersi costituire
parte civile in un’istaurando procedimento penale a loro
carico), alla citazione in giudizio per ottenere, ai
sensi degli artt. 2043 e 2059 c.c., il risarcimento dei
danni che da una denuncia infondata inevitabilmente
derivano a chi è ingiustamente coinvolto in un
procedimento giudiziario, sia esso civile che penale, ed
infine alla reazione di tipo processuale del medico
convenuto in un giudizio civile, il quale potrebbe
richiedere, in via riconvenzionale, il risarcimento del
danno o la condanna dell’attore per lite temeraria ai
sensi dell’art. 96 c.p.c..
Tuttavia, passando dalla poesia del diritto ideale alla
prosa della prassi giudiziaria, si può notare come sia
una «porta stretta»
quella che deve attraversare il medico per ottenere
giustizia, in quanto sia la contro-querela per calunnia
che l’azione autonoma di risarcimento danni si
appalesano come soluzioni poco praticabili e irte di
insidie, specie per l’onere probatorio che verrebbe a
gravare sul medico.
In particolare quest’ultima ipotesi trova un’evidente
limite nella consolidata giurisprudenza,
secondo cui necessario presupposto dell’azione
risarcitoria è la configurabilità del reato di calunnia
ex art. 368 c.p.,
dato che «la sola denuncia di un reato perseguibile
d’ufficio non è fonte di responsabilità per danni
a carico del denunciante, ai sensi dell’art. 2043 c.c.,
anche in caso di proscioglimento o di assoluzione
dell’imputato, se non quando essa possa considerarsi
calunniosa» (ex plurimis, Cass. civ., 20 ottobre
2003, n. 15646; Cass. civ., sez. III, 13 gennaio 2005,
n. 560; App. Roma, sez. III, 6 febbraio 2007; Trib.
Roma, sez. XII, 16 febbraio 2009; Cass. civ., sez. III,
11 giugno 2009, n. 13531; Cass. civ., sez. III, 27
gennaio 2010, n. 1703; Trib. L’Aquila, 8 febbraio 2010;
Trib. Bologna, sez. III, 21 settembre 2010).
Interessanti sono invece i riscontri in giurisprudenza
relativamente al caso in cui il medico si sia difeso
chiedendo la condanna della controparte al risarcimento
del danno per lite temeraria,
concetto che definisce quel particolare illecito avente
ad oggetto non un qualunque fatto, bensì un
comportamento particolarmente qualificato, ossia
un’attività processuale, colorata, nell’ipotesi di cui
al primo comma, da malafede o colpa grave, in quelle di
cui al secondo, da mancanza di “particolare prudenza”,
prevedendosi infine al terzo comma una sorta di sanzione
per l’ipotesi di temerarietà “temperata”.
Occorre
precisare, onde scongiurare possibili equivoci, che i
danni in questione non presentano differenze ontologiche
quanto alla natura delle conseguenze lesive rispetto ai
danni considerati dal diritto sostanziale, per cui
l’elemento discretivo e peculiare dei danni processuali
è costituito dalla fonte causativa del pregiudizio,
ascrivibile – secondo un nesso di derivazione eziologica
immediata e diretta – ad un’attività processuale svolta
dal litigante temerario o imprudente, cioè ad un
contegno tenuto in un processo o ad esso correlato.
Volendo
riassumere si può icasticamente dire che, per prassi
consolidata, “la difesa è il miglior attacco”, ossia che
il medico ha maggiori possibilità di veder tutelati e
risarciti i suoi diritti quando innesta la propria
azione nel solco del procedimento avviato dal paziente,
muovendosi sostanzialmente in “contropiede” attraverso
una riconvenzionale ovvero con domanda ex art. 96
c.p.c.
Il
danno patrimoniale.
L’essere
chiamati in Tribunale a seguito di una malpractice
litigation per il medico ha gravi ripercussioni
sotto il profilo professionale, economico, morale e
psicologico-relazionale.
Pare
necessario approfondire il profilo attinente al versante
patrimoniale del danno che può subire il medico in tali
circostanze, notando come le conseguenze di una denuncia
ingiusta possano ingenerare diversi effetti a seconda
che il sanitario sia un dipendente di una struttura
pubblica o privata, ovvero svolga, in via esclusiva o
meno, anche la libera professione.
Nel
caso di lavoro dipendente presso strutture pubbliche o
private, infatti, il medico – su determinazione della
direzione sanitaria – potrebbe essere sospeso e, nei
casi più gravi licenziato, il che comporterebbe una
evidente perdita patrimoniale, facilmente quantificabile
essendo per lo più corrispondente alla retribuzione che
egli avrebbe percepito. Più complessa è invece la
valutazione da effettuare per il medico libero
professionista, nella misura in cui, pur potendo
valutare il quantum del danno emergente,
comprensivo di
ogni perdita
di utilità attuali già presenti nel suo patrimonio, sulla
base della situazione preesistente la denuncia, si può
profilare anche una perdita corrispondente al lucro
cessante,
costituito dal venir meno per il futuro di un reddito di
cui si fruiva in precedenza nonché di ogni mancato
guadagno eventuale che si sarebbe prodotto in futuro -
in eccedenza rispetto a quello ristorato quale perdita
attuale - laddove il fatto illecito non fosse stato
attualizzato dal danneggiante. Si tratta quindi di
considerare anche il mancato guadagno solitamente
commisurato alla ricchezza che il danneggiato avrebbe
potuto presuntivamente ottenere in futuro, ma non ha
conseguito.
Danno emergente e lucro cessante individuano due concetti diversi
anche dal punto di vista temporale, in quanto il primo
si è già prodotto, occasionando danno attuale, mentre il
secondo, vale a dire il lucro cessante, deve ancora
prodursi (danno eventuale) o non si sarebbe prodotto in
futuro se non vi fosse stata la denuncia per
malpractice del paziente.
Connessa
al lucro cessante è poi l’ipotesi di danno determinato
da perdita di chance. In merito al danno
conseguente alla perdita di chance, occorre
premettere che essa va intesa come concreta ed effettiva
occasione di conseguire un determinato bene o risultato,
ossia non va intesa come una mera aspettativa di fatto,
ma come un’entità patrimoniale a sé stante,
giuridicamente ed economicamente suscettibile di
autonoma valutazione, già esistente nel patrimonio del
danneggiato al momento del verificarsi dell’illecito, la
cui perdita integra un danno che, se allegato e provato,
deve essere risarcito.
Il risarcimento del danno da perdita di chance
risulta funzionale, quindi, alla tutela del patrimonio
del soggetto sia sul versante dell’essere, la perdita
dell’occasione, sia su quello del dover essere, le
utilità che da quell’occasione potevano derivare (art.
1223 c.c.); in questi termini tale danno si presenta
come una pura perdita patrimoniale (pure economic
loss), ossia un pregiudizio meramente economico che
consegue alla lesione di interesse protetto del
danneggiato.
In
particolare, in ambito sanitario, la perdita di
chance può concretarsi nell’azzeramento ovvero nella
maggiore difficoltà per il medico, colpito da una
denuncia ingiusta, di ottenere un avanzamento di
carriera o di vincere un concorso pubblico.
Nell’applicazione pretoria il danno de qua viene
quantificato e liquidato prendendo in considerazione un
criterio equitativo ed individuandone il canone
applicativo nella valutazione della probabilità di
promozione che aveva il danneggiato desunta dal rapporto
tra i dipendenti promossi e i dipendenti astrattamente
idonei alla promozione. La valutazione della chance
in termini di effettività deve dunque tener conto anche
delle possibilità di cui godevano i soggetti concorrenti
con il danneggiato ed aventi analoghe o comparabili
possibilità di successo, e non può pertanto ridursi a
tutela di una mera aspettativa di fatto, ma deve essere
valutata sulla base delle concrete e ragionevoli
possibilità di risultato.
Non da ultimo va considerato pure il danno alla
reputazione (che può essere causa di una mancata
promozione sul lavoro o della perdita di clientela per
il libero professionista) che consiste nella proiezione
verso l’esterno dell’insieme dei valori che vengono
riconosciuti ad una persona dal corpo sociale e
che concernono non solo le qualità morali ma qualsiasi
ambito e aspetto in cui si esplica la vita umana sia
essa inerente l’attività economica, culturale, politica
o sociale. Essa non consiste in un sentimento
individuale, scollegato dal mondo esterno, o nel
semplice amor proprio che ciascuna persona ha per se
stessa; la reputazione che rileva giuridicamente va
identificata con l’idea di dignità personale che è
presente, in un dato momento storico, nell’opinione
comune e che è ritenuta esigibile da parte di tutti i
consociati.
Sotto questo profilo, è necessario tener distinto il
diritto alla reputazione professionale dal diritto alla
reputazione personale, poiché nel primo la lesione
provoca un discredito “commerciale” a danno del soggetto
esclusivamente nel settore lavorativo in cui opera,
mentre nel secondo caso si ha una lesione della sua
dignità e del prestigio di cui ogni persona gode
indipendentemente dall’attività che svolge. Pertanto, il
soggetto (medico libero professionista o lavoratore
subordinato che sia) che subisce, a seguito
dell’ingiusta accusa, una lesione della propria
reputazione professionale ha diritto al risarcimento del
danno patrimoniale e non patrimoniale conseguente alla
lesione.
Si può terminare considerando, da un lato,
le spese irripetibili,
ed in particolare le spese stragiudiziali che la parte
sostiene per l’approntamento della propria linea
difensiva, per la ricerca dei mezzi probatori, per i
colloqui con il proprio difensore, per recarsi nel luogo
di ubicazione del giudice competente e altre spese di
carattere preparatorio rispetto alla lite, purché si
tratti di esborsi in stretta connessione causale con
l’attività processuale,
con l’esclusione delle spese eccessive o superflue;
dall’altro, i c.d.
opportunity costs, cioè le utilità non conseguite
per attività lavorativa non prestata e per il temporaneo
abbandono delle proprie attività in ragione del
dispendio di energie necessariamente impiegati per
colloqui col difensore o per interessarsi allo
svolgimento del giudizio (Trib. Milano 14 maggio 2003;
Trib. Roma, 9 ottobre 1996). Vi sono infine da
considerare, in quanto non certamente secondari, i costi
indiretti che il medico subisce a livello di rinnovo
della polizza assicurativa sulla responsabilità
professionale.
Non è superfluo rammentare che, nel nostro Paese, alcune
tra le maggiori compagnie assicurative, già oggi,
rifiutano di prestare la garanzia ai ginecologi ed ai
chirurghi plastici e, considerando spesso la semplice
denuncia al pari del sinistro, tendono a revocare la
polizza a chi sia stato vittima di richiesta
risarcitoria ancorché terminata senza esito. Ciò
determina una vera difficoltà a trovare poi una
compagnia che assuma il rischio rifiutato da altra e
comunque a costi superiori.
Il
danno non patrimoniale.
La storia del
danno non patrimoniale ha visto trascorrere un
lustro abbondante tra la celebre svolta interpretativa
sancita dalle sentenze gemelle (Cass. civ., 31 maggio
2003, nn. 8827 e 8828, in Resp. civ. prev., 2003,
675, con nota di P. Cendon, Anche se gli amanti si
perdono l’amore non si perderà) e le quattro recenti
decisioni adottate in serie dalle Sezioni Unite nel
2008.
Queste ultime pronunce presentano un corpo comune
dedicato all’esame e alla ridefinizione della complessa
materia della responsabilità extracontrattuale, del
sistema risarcitorio inerente il danno non patrimoniale.
Tale intento, tuttavia, non ha trovato concreta
realizzazione; per usare una metafora abusata ma quanto
mai adatta a descrivere la sensazione che si ricava
dalla lettura di tale corpo comune, ben si può affermare
che la montagna ha partorito un topolino.
A nessuno sfugge la sproporzione che emerge tra lo
sforzo profuso nell’ordinanza di rimessione n. 4712/2008
dove viene evocata tutta la complessa trama di nodi che
devono essere sciolti al fine di dar vita ad un sistema
risarcitorio armonioso e costituzionalmente coerente e
la risposta fornita dalle sentenze dell’11 novembre
2008.
A venire, anzitutto, in evidenza è la sostanziale
inadeguatezza di carattere dogmatico della quale
appaiono permeate le argomentazioni messe in campo dai
giudici di legittimità. Le stesse risultano esposte in
maniera frammentaria,
peccano spesso di approssimazione (basti pensare
all’elencazione dei casi tipici cui rimanda l’art. 2059
c.c., incompleta e inesatta nei riferimenti)
e si rivelano ora
contraddittorie,
ora categoriche, mettendo in luce inversioni logiche
e alimentando vere e
proprie aporie.
Ed è in particolare l’aprioristico rifiuto formulato
dalle Sezioni Unite ad utilizzare razionalmente una
griglia fenomenologica utile a distinguere le varie
categorie di
danno,
anche al fine di governare la materia
risarcitoria in termini più generali, che ha spinto
autorevole giurisprudenza di merito
e di legittimità
a discostarsi dalle indicazioni della Suprema Corte,
abbracciando altresì le elaborazioni della scuola
triestina.
Così dovendo interrogare la vittima di un illecito
produttivo di danni non patrimoniali – come nel caso che
ci riguarda – non chiederemo al danneggiato quali
compromissioni del valore-uomo questi ritenga di aver
subito, ma più semplicemente cercheremo di illustrare le
varie conseguenze negative subite sul piano del valore
salute (danno biologico), sul piano emotivo (danno
morale), nonché i cambiamenti della propria vita
esterna (c.d. sconvolgimento dell’agenda di vita fonte
del
danno esistenziale) indotti dal torto. Solo una
volta effettuato l’inventario circa la ricorrenza di
questo o quel riflesso negativo, si tratterà di valutare
l’idoneità dello stesso a incidere sul valore-uomo.
In questa prospettiva si
possono delineare a carico del medico diverse
conseguenze negative che a loro volta si concretano in
diverse voci di danno. Si può prospettare, in alcuni
casi, la trasmutazione delle predette conseguenze in
forma di danno alla salute (o biologico)
del medico vittima di una denuncia ingiusta: si cita, a
conferma, lo studio pubblicato nel 1999 da Ashok
che ha rivelato come una percentuale di medici di
medicina generale, di fronte ai «complaint» da
parte dei propri assistiti,
avessero reagito con perdita di stima in sé stessi,
stati di depressione accompagnati da idee suicidiarie.
Non meno devastanti sul piano
complessivo sono inoltre i possibili danni morali che si
vengono a creare: essi si manifestano nella sofferenza,
turbamento, stress e angoscia determinati dalla
condizione di precarietà, dal senso di colpa che
consegue all’accusa di aver commesso un errore e dal
fatto che tale errore, nel peggiore dei casi, ha avuto
effetti anche mortali.
E’ stato autorevolmente
sottolineato come il danno morale (“temporaneo e
transeunte”, secondo la giurisprudenza, ma anche,
talvolta, eterno ed immutabile) appartenga alla
relazione dell’io con sé stesso e con il proprio sé,
riflettendosi sull’intimo della persona.
In tal
senso varie indagini empiriche hanno dimostrato che i
medici accusati di malpractice - prima e durante
il processo - soffrono di gravi traumi
emozionali, in particolare l’essere processati provoca
sentimenti uguali a quelli di un grave lutto,
determinando conflitti a proposito delle propria
identità e capacità professionale e personale.
Ed è proprio questo aspetto
che differenzia il danno morale sia dal danno
esistenziale, che è riverbero di un vissuto esterno,
modificazione delle proprie abitudini, regola, modalità,
entusiasmi del vivere con gli altri e tra gli altri, sia
dal danno all’immagine professionale, nel suo aspetto
non patrimoniale.
Tornando
su quest’ultimo si deve notare che la locuzione
“danno all’immagine”
individua, comunemente, diverse lesioni di diritti
inerenti alla personalità, tra cui il diritto
all’identità personale (ossia il diritto di essere
rappresentato nella realtà sociale con la propria
identità), all’onore (a non essere offeso nella
considerazione che si ha di sé stesso), alla reputazione
(a non vedersi pregiudicata la considerazione che gli
altri, in un determinato contesto sociale, economico o
commerciale, hanno della nostra persona). La lesione
della suddetta situazione giuridica soggettiva, avente
una rilevanza costituzionale in forza del dettato di cui
all’art. 2 Cost., risulta risarcibile quale danno non
patrimoniale, ai sensi e nei limiti di quanto disposto
dall’art. 2059 c.c. (Trib. Palermo, sez. III, 7 febbraio
2011; Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2009, n. 22190).
Nella liquidazione di tale danno, possono essere presi
quali elementi di valutazione le condizioni sociali del
danneggiato e la sua collocazione professionale, in
ragione del fatto che il patema d’animo e le sofferenze
morali non possono prescindere dal discredito che ne può
derivare al soggetto leso nel contesto sociale e
lavorativo in cui esso vive.
Vi è poi
il danno esistenziale
che si fonda sull’idea secondo
cui il “valore umano perduto” non è riducibile al mondo
interiore, ma contempla il mondo esterno essendo
essenzialmente «
riverbero di vissuto esterno e modificazione delle
proprie abitudini».
Il danno esistenziale
si differenzia dagli altri tre canonici tipi di danno:
da quello biologico, in quanto esiste a prescindere da
una lesione della psiche o del corpo; da quello morale,
in quanto esso non consiste in una sofferenza ma nella
rinuncia di un’attività concreta; da quello
patrimoniale, in quanto esso può sussistere a
prescindere da qualsiasi compromissione del patrimonio.
Il danno esistenziale è quindi
un pregiudizio areddituale, non patrimoniale,
tendenzialmente omnicomprensivo, in quanto qualsiasi
privazione, qualsiasi lesione ad attività esistenziali
del danneggiato può dar luogo a risarcimento”. Pertanto,
si verserebbe in tale ipotesi tutte le volte che viene
ad essere compromessa, più o meno definitivamente,
l’attività creatrice della persona umana, il suo
rapporto con il tempo e con lo spazio (ivi
compresi il riposo, le attività ricreative e lavorative
- che si concretizzi nella lesione del diritto alla
“serenità personale”, alla vita sociale ed alla vita
affettiva), insomma quando si
verifica un peggioramento della qualità della sua vita.
Il danno esistenziale si ricollega, in sostanza, alla
somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto
nell’ambiente in cui esplica la propria esistenza e può
manifestarsi alla stregua di un penoso travaglio che
impedisce in tutto o in parte di attendere alle
ordinarie occupazioni, tra le quali – naturalmente –
visitare o operare i malati con l’abituale
concentrazione. In tale contesto il danno esistenziale
si concreta così nel «…dover organizzare la propria
difesa temendo che la verità non verrà ristabilita,
sentirsi tagliati fuori dai vari circuiti, sobbalzare
all’uscita dei quotidiani, intercettare sorrisetti
furtivi nei caffè, ossia i rovesciamenti forzati
dell’agenda di vita…».
In questo quadro si deve
ritornare infine sul danno da lite temeraria ex
art. 96 c.p.c. che comprende tutte le ipotesi di atti e
comportamenti processuali delle parti e copre ogni
possibile effetto che ne derivi (Cass. civ., 1 febbraio
1993, n. 1212; Cass. civ., 12 marzo 2002, n. 3573; Cass.
civ., 23 marzo 2004, n. 5734). La natura onnicomprensiva
della disciplina degli atti e dei comportamenti
(processualmente illeciti), che inducono responsabilità
da lite temeraria, non comporta limitazione alla
risarcibilità delle conseguenze residuate a carico della
parte, in quanto tale responsabilità rende risarcibile
“qualsiasi tipo di danno” causato da uno dei
comportamenti tipicizzati connessi al processo e,
perciò, “senza alcuna limitazione ai soli danni
processuali”. Possono venire quindi in considerazione
non solo i danni patrimoniali,
ma anche quelli di natura non patrimoniale.
In particolare, tra le voci
del danno risarcibile ai sensi dell’art. 96 c.p.c. può
ricomprendersi anche quello esistenziale. La
dimostrazione del pregiudizio esistenziale può essere
desunta, in via indiretta, da nozioni di comune
esperienza, considerando il danno che la parte abbia
subito in quanto costretta a contrastare un’iniziativa
del tutto ingiustificata dell’avversario; il nocumento
si compendia nell’impatto negativo che il processo
determina sulla quotidianità del soggetto leso
(Trib. Bologna, 24 maggio 2005, in
www.personaedanno.it.; Trib. Reggio Emilia, 31
maggio 2005, in www.personaedanno.it in entrambi
i casi il danno esistenziale è stato liquidato
equitativamente. Anche Trib. Bologna, 27 gennaio 2005,
in Resp. civ. prev., 2005, 1430).
Una
conclusione.
Prima
che un istituto giuridico, il risarcimento del danno è
finanche geneticamente espressione di una specifica
forma di giustizia, una forma che ha natura
schiettamente giuridica. In questi termini il problema
del danno si presenta come rottura di un equilibrio
(funzionale) connesso alla giustizia tra sfere private,
quella del paziente danneggiato dall’imperizia del
sanitario ovvero del medico colpito da una falsa accusa
di negligenza professionale. Gli strumenti messi in
campo dall’ordinamento per sanare le “ferite” che
conseguono all’illecito sono stati sommariamente
esposti, ma è necessario guardare oltre, per ridefinire
il baricentro del sistema della responsabilità in campo
sanitario, in funzione degli attori e dei decisori che
vi operano: così se è vero che il costo del danno non
deve esser fatto gravare sull’intera società ma sul
cheapest cost avoider, cioè su chi può assumerlo nel
modo più efficace ed economico possibile, allora a
rispondere e ad assumersi l’onere di un rischio - che ha
spesso la sua eziologia nell’organizzazione delle
strutture sanitarie – devono essere essenzialmente
coloro che erano in condizioni di minimizzare i danni,
senza per questo ridurre i benefici che un servizio come
quello sanitario apporta.
Anche se evangelicamente l’invito è ad entrare «per
la porta stretta, poiché larga è la porta e
spaziosa la via che mena alla perdizione, e
molti son quelli che entran per essa. Stretta
invece è la porta ed angusta la via che mena
alla vita, e pochi son quelli che la trovano»
(Matteo
7:13-14).
Il reato di calunnia è punito a titolo di dolo,
richiedendosi la volontà dell’incolpazione,
unita alla consapevolezza che l’incolpato è
innocente e che il fatto attribuito ha carattere
delittuoso: requisiti questi non certo agilmente
dimostrabili.
Ancor più esplicita è Cass. civ., sez. un., 29
novembre 1996, n. 10677 per cui «la denunzia per
il reato di calunnia, rivelatasi infondata, non
comporta perciò stesso la consumazione del
medesimo reato da parte del denunziante,
richiedendosi a tal fine che questi sia
consapevole della non responsabilità del
denunziato. Pertanto ove quest’ultimo ponga la
propria assoluzione dal reato di calunnia a
fondamento di un’azione di risarcimento del
danno morale nei confronti del denunziante, è
preclusa al giudice civile, in mancanza di
accertamento del reato da parte del giudice
penale, (e salvo che non si sia verificato un
definitivo ostacolo a quell’accertamento) la
liquidazione del danno non patrimoniale ex art.
2059 c.c.». Ancora
Cass. civ., 27 gennaio 2010 n. 1703; Cass. civ.,
11 giugno 2009 n. 13531.
In senso
contrario una marginale giurisprudenza di merito
Trib. Napoli, 22 gennaio 2000, Giur.
napoletana, 2000, 431; Trib. Bologna, 12
maggio 1994, Giur. di Merito, 1995, 29.
Cass. civ., sez.
III, 12 marzo 2010, n. 6045; Trib. Bologna, sez.
III, 9 ottobre 2007 in cui l’attore che aveva
citato in giudizio il medico ritenendolo
responsabile del decesso della moglie per un
ritardo nelle cure prestate, era stato
condannato ai sensi dell’art. 96 c.p.c. in
quanto era incorso in «colpa grave nell’agire
nel giudizio come emerge dalle considerazioni
sopra svolte in ordine alla mancata prova ma
soprattutto mancata allegazione del nesso
eziologico tra la morte della signora B. S. e la
condotta del dott YY, circostanza ostativa ad
ogni pronuncia sul merito del presente giudizio.
Tale circostanza configura una grave mancanza di
diligenza nell'acquisizione da parte dell'attore
della consapevolezza della carenza nella
allegazione e nell’offerta dei mezzi di prova a
sostegno della propria tesi».; Trib. Roma, sez.
XIII, 23 gennaio 2007, n. 1394; Trib. Roma, sez.
XIII, 31 maggio 2006, gu. Rossetti per cui in un
caso di wrongful birth, i genitori erano
stati condannati a risarcire ex art. 96 c.p.c.
la ginecologa, che aveva effettuato solo la
prima ecografia, in quanto «secondo l'opinione
unanime e concorde della scienza medica, prima
della 20a settimana di gestazione è impossibile
accertare l’esistenza di malformazioni
cardiache. Si consideri, del resto, che quando
G. N. e L. DL. eseguirono le proprie prestazioni
non solo il feto non era dotato di tutti gli
organi di un organismo formato, ma aveva
dimensioni infinitesime, a fronte delle quali
nessuno strumento per indagini ecografiche
avrebbe consentito la visualizzazione delle 4
camere cardiache […]Pertanto delle due l'una: -
o gli attori hanno agito nonostante ben
sapessero che alla 8a od alla 13a settimana le
malformazioni cardiache non sono rilevabili
ecograficamente, e dunque in mala fede; - ovvero
ignoravano tale circostanza, ed allora hanno
agito con colpa grave, trattandosi di ignoranza
inescusabile. Non rileva che tali nozioni, pur
essendo incontroverse, rientrino nel campo della
scienza medica: colui il quale promuove un
giudizio ha infatti l'onere di accertarsi della
ragionevole e verosimile fondatezza della
propria pretesa, anche chiedendo pareri o
consigli ad esperti del settore: e nessun
esperto di ostetricia o ginecologia avrebbe mai
potuto sostenere che dopo 13 settimane di
gestazione siano visibili all'esame ecografico
le cavità cardiache».
Così l’art. 96 c.p.c. (Responsabilità aggravata)
«1. Se risulta che la parte soccombente ha agito
o resistito in giudizio con mala fede o colpa
grave
[c.p.c. 220], il giudice, su istanza
dell’altra parte, la condanna, oltre che alle
spese, al risarcimento dei danni, che liquida,
anche d’ufficio, nella sentenza. 2. Il giudice
che accerta l’inesistenza del diritto per cui è
stato eseguito un provvedimento cautelare
[c.p.c. 669-bis], o trascritta
domanda giudiziale
[c.c. 2652, 2818], o iscritta ipoteca
giudiziale, oppure iniziata o compiuta
l'esecuzione forzata
[c.c. 2920, 2927; c.p. 483], su
istanza della parte danneggiata condanna al
risarcimento dei danni
[c.p.c. 97] l’attore o il creditore
procedente, che ha agito senza la normale
prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a
norma del comma precedente. 3. In ogni caso,
quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art.
91, il giudice, anche d’ufficio, può
altresì condannare la parte soccombente al
pagamento, a favore della controparte, di una
somma equitativamente determinata».
La perdita di chance costituisce un’ipotesi di
danno patrimoniale futuro e, come tale, essa è
risarcibile a condizione che il danneggiato
dimostri, sulla base di circostanze di fatto
certe e puntualmente allegate, la sussistenza di
un valido nesso causale tra il danno e la
ragionevole probabilità della verificazione
futura del danno. Al fine di ottenere il
risarcimento per la perdita di chance, dunque, è
necessario provare la realizzazione in concreto
almeno di alcuni dei presupposti per il
raggiungimento del risultato sperato e impedito
dalla condotta illecita, della quale il danno
risarcibile deve essere conseguenza immediata e
diretta, ossia il danneggiato deve fornire la
prova del fatto che, in assenza della condotta
che si assume dannosa, vi sarebbe stata, non la
certezza, bensì la ragionevole probabilità di
conseguire il risultato utile sperato (Trib.
Rovigo, 7 luglio 2010).
Sotto il profilo dello strumento processuale
atto a richiedere il risarcimento di tale specie
di danno si rammenta Cass. civ., sez. I, 4
aprile 2001, n. 4947 per cui «la previsione
della speciale responsabilità processuale
aggravata ex art. 96 c.p.c. comprende tutte le
ipotesi di atti e comportamenti processuali
delle parti e copre ogni possibile effetto
pregiudizievole che ne derivi, restando perciò
preclusa la possibilità di invocare, con una
domanda autonoma e concorrente, i principi
generali della responsabilità per fatto illecito
di cui all’art. 2043 c.c. con riguardo ad una
specifica asserita conseguenza dannosa di quegli
stessi atti. Pertanto nell'ipotesi in cui il
convenuto, proposta domanda di risarcimento
danni per responsabilità aggravata ex art. 96
c.p.c., proponga ulteriore domanda risarcitoria
ex art. 2043 c.c. per il discredito
professionale subito in conseguenza dell’azione
giudiziaria intrapresa dall’attore, chiedendo
soltanto la condanna generica di quest’ultimo,
tale domanda, dovendo necessariamente essere
ricompresa nell’ambito della responsabilità
aggravata ex art. 96 c.p.c., deve essere
dichiarata inammissibile, perchè formulata
contro il principio della competenza funzionale
del giudice investito del merito, al quale
spetta in via esclusiva la cognizione
inscindibile sull’an e sul quantum
della speciale pretesa risarcitoria».
Si può notare come quelli relativi alle spese
irripetibili siano gli elementi sulla base dei
quali definire il quantum del danno
patrimoniale ex art. 96 c.p.c., così
Trib. Roma, sez. XIII, 23 gennaio 2007, n. 1394
per cui «nel caso di specie, il
danno ex art 96 c.p.c.
patito dalla convenuta è di natura patrimoniale,
e può identificarsi col dispendio di tempo ed
energie necessariamente impiegati: per i
colloqui col proprio difensore; per
l'approntamento della propria difesa; tempo ed
energie cosi sottratti alla ordinaria attività
lavorativa (è, quello in esame, il c.d.
opportunity cost: si vedano in questo senso
Trib, Roma 22.11.1996, Vi. c. condominio di via
F., Ro., inedita; Trib. Roma 25.11.1997, in Giur
romana, 1998, 65; Trib. Roma 30.3.1998, Vi. c.
Sa., inedita; Trib. Roma 4.4.1998, Cu. c. Fr.,
inedita; Trib. Roma 6.4.1998, Vi. c. Pi.
inedita; Trib. Roma 11.5.1998, Pa. c. Si.,
inedita; Trib. Roma 28.10.1998, Fu. c. Ve.,
inedita)»; anche Trib. Roma, sez. XII, 31 maggio
2006, gu. Rossetti.
Le spese legali corrisposte dal cliente al
proprio avvocato in relazione ad attività
stragiudiziale seguita da attività giudiziale
devono formare oggetto di liquidazione con la
nota di cui all’art. 75 disp. att. c.p.c., se
trovino adeguato compenso nella tariffa per le
prestazioni giudiziali, potendo altrimenti
formare oggetto di domanda di risarcimento del
danno nei confronti dell’altra parte, purchè
siano necessarie e giustificate, condizioni,
queste che si desumono dal potere del giudice di
escludere dalla ripetizione le spese ritenute
eccessive o superflue, applicabile anche agli
effetti della liquidazione del danno in
questione (Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2005,
n. 14594; Cass. civ., sez. un., 5 febbraio 1997,
n. 1082; Cass. civ., sez. III, 28 novembre 1987,
n. 8872).
Sindrome ansiosa e ulcera gastrica. Con questa
diagnosi Claudio Spinella, pneumologo del «San
Filippo Neri» di Roma, s’è presentato all’Amami
per un’azione di rivalsa contro la paziente che
nella primavera del 2002 lo aveva denunciato per
imperizia. Tutto comincia con una visita in
Pronto soccorso. Alla signora — che lamenta
dolori addominali e difficoltà a respirare —
Spinella diagnostica una sindrome ansiosa. Poi,
la dimette. Dopo un anno riceve in ospedale la
lettera con cui gli viene comunicato di essere
«sottoposto ad accertamenti ». Quattro mesi dopo
dovrà presentare al giudice una memoria
difensiva. «La signora — spiega — mi accusava di
non averle diagnosticato una polmonite, scoperta
20 giorni dopo grazie a un’altra visita. Secondo
la sua versione, infatti, malgrado l’avesse
chiesta esplicitamente, non le era stata fatta
la lastra al torace necessaria per individuare
la patologia. La mia "omissione" avrebbe
condotto alla polmonite e a una operazione per
ascesso polmonare. Ma di queste accuse non
c’erano prove, né sul verbale di dimissione né
sulla cartella di Pronto soccorso. Su questa
base ho chiesto io stesso al giudice delle
indagini preliminari di essere interrogato. E
dopo un’estate passata a cercare di ricostruire
i fatti e a combattere lo stato di prostrazione
in cui questa vicenda mi aveva gettato, il 30
settembre del 2003 ho presentato la mia
versione. Ottenendo l’archiviazione ». Un lieto
fine, almeno in teoria. Senonché, per Spinella
la vicenda non termina qui. Il danno economico
non è lieve: alle spese per l’avvocato si
sommano quelle per la compagnia assicurativa
che, dopo essersi rifiutata di rinnovargli la
polizza, una volta certificata l’archiviazione
ha accettato di riaccenderla solo imponendo un
premio più alto. C’è poi quello stato d’ansia
che, lamenta il medico, tarda ad andarsene.
Chissà che la rivalsa non contribuisca ad
eliminarlo (tratto da “Il professionista:
accusa ingiusta ma ora la polizza è più cara”,
in Il Sole 24 Ore, 14.02.2005).
Rifiuto che trova espressione a mezzo
dell’utilizzo quale categoria omnicomprensiva
del danno non patrimoniale. Su questo le
puntuali critiche di
P. Ziviz,
Le limitazioni al risarcimento del danno non
patrimoniale, in www.personaedanno.it
per cui «I riflessi non patrimoniali, per essere
risarciti, devono essere anzi tutto descritti; e
tale descrizione si traduce, inevitabilmente,
nella riconduzione degli stessi all’una o
all’altra delle voci non patrimoniali. Se ci si
limita a parlare genericamente di compromissioni
non patrimoniali, non è possibile verificare che
le stesse siano state prese in considerazione
nella loro integralità, per poi essere tradotte
in denaro attraverso una congrua somma. E’
soltanto tramite una rigorosa distinzione
contenutistica tra le varie voci – attraverso
cui descrivere i differenti contenuti
risarcitori di carattere non economico - che si
evita la trappola della moltiplicazione dei
danni. Poiché le compromissioni patite dalla
vittima vanno allegate e provate, a tale fine le
stesse devono essere descritte in termini
positivi; una volta che ciò avvenga, non si vede
perché dovrebbe essere impedito il transito
delle stesse attraverso una griglia distintiva.
E’ proprio quest’ultima, anzi, a rivelarsi
indispensabile al fine di evitare che il
medesimo pregiudizio possa essere preso in
considerazione più volte. I rischi di
duplicazione non vanno, quindi, sventati
rinunciando a descrivere le diverse componenti
del danno non patrimoniale, ma – al contrario –
riportando ciascuna compromissione a una voce
ben precisa».
F. Bilotta,
Le sentenze di merito dopo le Sezioni Unite
del 2008 sul danno non patrimoniale, in
Resp. civ. prev., 2009, 1499;
M. Di
Marzio, Danno non patrimoniale da
inadempimento: le prime pronunce di merito dopo
le Sezioni Unite, in Resp. civ. prev.,
2009, 2245.
G.
Travaglino, Il futuro del danno alla
persona, in Danno e Resp., 2011, 2, 5
ss.
Ossia il fatto che la sofferenza interiore si
presenta come danno diverso dalla compromissione
delle relazioni esterne, nella misura in cui «la
lesione ai diritti della persona (alla sua
serenità, al suo equilibrio, alla sua
‘felicità’: in una parola di sintesi, alla sua
dignità umana) ne incide, più o meno
profondamente, l’animo, i sentimenti, il
vissuto, il vivibile. E suscita, pur nella
unicità dei riflessi dolorosi, una duplice,
disomogenea conseguenza: il dolore, la
sofferenza, interiore e interiorizzata, il
piccolo e grande lutto, da elaborare come
perdita di ‘qualcosa’; e poi ancora la propria
percezione e proiezione nel mondo esterno, il
suo vivere modificato (e talvolta stravolto in
svivere), il mondo delle relazioni esterne con
un reale ‘altro da sé’. È questa la conseguenza
dell’agire lesivo,
la duplice,
non omologabile conseguenza
che interagisce, senza
peraltro sovrapporsi, in una impredicabile
unicità dimensionale ‘funzionale’ della
sofferenza» Cfr.
G.
Travaglino, Il futuro del danno alla
persona, cit., 7 ss.
La dottrina e il consolidato orientamento
giurisprudenziale ritengono che esista un vero e
proprio diritto alla reputazione personale anche
al di fuori delle ipotesi espressamente previste
dalla legge ordinaria, che va inquadrato nel
sistema di tutela costituzionale della persona
umana, traendo nella Costituzione il suo
fondamento normativo, in particolare nell’art. 2
e nel riconoscimento dei diritti inviolabili
della persona (in questo senso anche Corte.
cost. 10 dicembre 1987 n. 479, secondo cui
“l’art. 2 Cost. sancisce il valore assoluto
della persona umana”). In tale contesto si
inserisce certamente la disciplina degli ambiti
di tutela della reputazione del soggetto, come
persona, che sebbene non trovi espressa menzione
nelle disposizioni costituzionali, tuttavia si
ricava dai principi di cui all’art. 2 Cost.
(oltre che dall’art. 3, che fa riferimento alla
dignità sociale). L’espresso riferimento alla
persona come singolo (art. 2 Cost.) rappresenta
certamente valido fondamento normativo per dare
consistenza di diritto soggettivo alla
reputazione del soggetto, con conseguente sua
tutela da parte dell'ordinamento (Cass. civ.,
sez. III, 10 maggio 2001, n. 6507).
E’ stato icasticamente osservato, a questo
riguardo, che il danno morale si identifica con
“le lacrime”, il danno esistenziale si
identifica in una “rinuncia al fare” (P.
Cendon, Non di sola salute vive l’uomo,
in Studi Rescigno, V, Milano 1999, 139). Il
danno esistenziale viene dunque configurato come
un pregiudizio areddituale (in quanto il
relativo risarcimento prescinde del tutto dal
reddito del danneggiato), non patrimoniale (in
quanto non ha ad oggetto la lesione di beni od
interessi patrimoniali), tendenzialmente
omnicomprensivo, in quanto qualsiasi privazione,
qualsiasi lesione di attività esistenziali del
danneggiato può dar luogo a risarcimento.
Il danno esistenziale è ravvisabile in «ogni
pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed
interiore, ma oggettivamente accertabile)
provocato sul fare aredittuale del soggetto, che
alteri le sue abitudini e gli assetti
relazionali propri, inducendo a scelte di vita
diverse, quanto all'espressione e realizzazione
della sua personalità, nel mondo esterno». Il
danno è ravvisabile quando la persona subisce un
peggioramento qualitativo dell’esistenza,
tangibilmente e giuridicamente apprezzabile, non
relegato nel suo fare interiore, ma incidente
sul “fare areddituale”. Tale alterazione
peggiorativa della qualità della vita,
ascrivibile ad un fatto o un atto illecito, può
esplicarsi nei più diversi settori in cui si
articolano le relazioni sociali. Come è stato
autorevolmente notato, da parte di P.
Cendon,
Voci del verbo fare, in Persona e
danno (a cura di P.
Cendon),
Milano, 2004, II, 1839, «dicono gli
esistenzialisti: il male sta qui nella
circostanza che la vittima si trova a non potere
più fare le stesse cose di prima; e/o che dovrà
da quel momento farne altre, tendenzialmente
meno belle. Un’agenda differente di lì in
avanti, un peggior interfacciamento col mondo
esterno − famiglia, amici, oggetti, scuola,
lavoro, abitudini, creatività, tempo libero,
ambiente, ecc. La quotidianità alterata di tanto
o di poco, una qualità della vita più scarsa.
Per qualche tempo, o definitivamente, le
attività realizzatrici non saranno più le
medesime».
Il processo genera stress, patema d’animo
e preoccupazione nella parte che ne attende la
conclusione, senza che sia tranquillizzante
l’antico motto habent sua sidera lites.
Nei casi più gravi, le conseguenze lesive del
processo possono riverberarsi sulla salute della
parte coinvolta, minandola nel corpo e nel
fisico, arrecandole un danno biologico, pur se
questa non è una conseguenza normale, rientrante
nell’ordine delle cose. Si ricorderà come il
danno alla salute fu riscontrato e liquidato
dalla Corte d’Appello perugina nel caso
Antonelli (App. Perugia, 27 aprile 2006). È per
certi versi notorio che il processo sconvolga la
vita della parte, alterandone i ritmi, le
abitudini di vita, incidendo peggiorativamente
sulle attività realizzatrici della persona,
costretta ad occuparsi dell’attività difensiva,
così sottraendo tempo ed energie ad occupazioni
non remunerate, astrattamente idonee alla
realizzazione personale.
Appare interessante riportare il testo di una
recente pronuncia per cui «La domanda di
risarcimento svolta dal convenuto per lite
temeraria va accolta. Sull’an non vi è
dubbio: si deve ravvisare se non dolo, quanto
meno colpa grave nel fatto di aver agito
prospettando circostanze non vere: il dente 1.5,
come si è avuto modo di constatare, non era
affatto sano e l’attore se non ne era
consapevole, quanto meno è stato assai
disattento perché nella memoria ex art. 183 cpc
del 25 novembre 2005 afferma che dalla
radiografia del 14 ottobre 2003 risulta che “il
nervo del dente 15 era sano” così lasciando
credere che il dente era sano e che fu il
convenuto a distruggerlo. E invece proprio da
quella radiografia emerge che il dente 1.5 era
già cariato prima delle cure intraprese da K. A
questo si aggiunga un atto di citazione al
limite della nullità dove non sono indicati né
la data del fatto né l’importo del danno, con
palese violazione dell’obbligo di lealtà. In più
una richiesta di risarcimento assolutamente
pletorica di €. 50.000,00 del tutto fantasiosa
anche se fosse stata vera la perdita di un dente
sano. Nel quantum questo tribunale
aderisce con convinzione ad un recente
orientamento introdotto dalla giurisprudenza di
merito – (vedi ad esempio Trib. Modena 2
febbraio 2007; Tribunale di Roma 18 ottobre
2006) - che, sviluppando gli argomenti delle
celebri sentenze gemelle Cass. n. 8827 e 8828
del 2003 secondo cui il danno non patrimoniale è
risarcibile tutte le volte che ci sia lesione di
un diritto costituzionale, ha ritenuto che la
responsabilità da illecito ex art 96 cpc
(dottrina e Cassazione assolutamente pacifiche)
possa cagionare non solo danno patrimoniale, ma
anche danno non patrimoniale risarcibile. Tanto
si desume da alcune norme di legge quali la
recente formulazione dell’art. 385 c.p.c.
(condanna del soccombente nel giudizio di
Cassazione ad una somma equitativamente
determinata), l’art. 111 della Costituzione
(comma 2, sulla ragionevole durata del
processo), la legge 24 marzo 2001 n. 89 (c.d.
“Legge Pinto” sugli indennizzi per eccessiva
durata del processo); assai significativa è poi
la giurisprudenza della CEDU sulla eccessiva
durata del processo per violazione all’art. 6
della Convenzione sulla Salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo (ratificata con legge 4 agosto 1955 n.
848). Da questo complesso di regole se da un
lato emerge il principio che un processo che si
protrae eccessivamente lede uno dei diritti
fondamentali dell’uomo e provoca quindi un danno
non patrimoniale risarcibile, dall’altro se ne
deve desumere che vieppiù è risarcibile il danno
(anche non patrimoniale) cagionato dal fatto di
aver dovuto affrontare un processo inutile, che
fin dall’inizio non doveva nascere il che, oltre
a costituire illecito espressamente previsto
dalla legge, lede anche un diritto
costituzionalmente protetto, anzi, meglio, un
diritto fondamentale menzionato nell’art. 6
della citata Convenzione. Sicché da questa
normativa si trae, oltretutto, il parametro per
liquidare equitativamente il danno, vale a dire
nella misura di €. 1.000 per ogni anno di durata
del processo, secondo i criteri adottati dalla
giurisprudenza citata e poi ripresi da varie
Corti di Appello. Nel caso in esame il processo
è iniziato nel giugno del 2005 ed è durato fino
al dicembre 2007 per due anni e sei mesi;
eliminando alcuni tempi morti, il danno può
quindi essere individuato in €. 2.000» (Trib.
Roma, sez. XIII, 27 febbraio 2008, gu. Paolone;
anche Trib. Bologna, sez. III, 9 ottobre 2007).
La sicurezza dei pazienti, assume in questa
prospettiva, una rilevanza che coinvolge tutte
le fasi e gli aspetti dell’organizzazione,
vincolando l’effettiva applicabilità delle
soluzioni individuate, alla capacità di gestire
sinergie multidisciplinari (mediche, manageriali
ed economiche) e coinvolgimento dei diversi
livelli organizzativi. La mancanza di
integrazione tra i diversi livelli organizzativi
o la predominanza di alcuni su altri, determina
la perdita di componenti essenziali della
gestione del rischio clinico con la conseguenza
di fornire visioni parziali o artificiose. In
mancanza di una siffatta integrazione, l’area
legale-amministrativa di una determinata
struttura sanitaria, che ha l’interesse di
prevenire e gestire il contenzioso, risulterà
distaccata da quella tecnica, finalizzata ad
aspetti tecnologici e strutturali e, ancora da
quella clinica, concentrata sull’outcome dei
trattamenti sanitari con conseguente perdita
della sistematicità che la gestione del rischio
richiede. Se è vero che il fine primario di
un’azienda sanitaria è la tutela della salute
dei pazienti e della popolazione, è anche
evidente che le strategie di risk management
dovranno focalizzarsi sulla prevenzione e
gestione dei rischi secondo il principio
ippocratico del primum non nocere.
|