(Sentenza Cassazione penale
26/08/2011, n. 32914)
di Alessio Scarcella
La volonta' di detenere, a fini di
spaccio, banconote contraffatte (art. 455 c.p.) puo'
essere desunta da qualsiasi elemento sintomatico che
valga a denotare l'intenzione dello ''spacciatore'' di
mettere in circolazione le banconote contraffatte
ricevute in malafede; ne consegue che anche il
comportamento del detentore della banconota falsa, anche
nel corso del processo, puo' essere valorizzato dal
giudice per desumere l'esistenza del dolo richiesto
dalla fattispecie incriminatrice in esame.
Particolare la questione affrontata
dalla Suprema Corte nella vicenda processuale in esame
riguardante il tema dello «spaccio» di banconote false.
La Corte, traendo spunto da un caso
banale che vedeva protagonista un individuo detentore di
due banconote, poi rivelatesi false, di 100 euro
ciascuna, ha svolto con ampia ed esaustiva
argomentazione alcune utili considerazioni che
consentono di desumere, dal comportamento tenuto dallo
«spacciatore», l'intenzione di mettere in circolazione
denaro falso con lo scopo di gabbare il prenditore.
Il fatto
La vicenda processuale, come
anticipato, è assai semplice. Sfortunato protagonista,
suo malgrado, era un individuo il quale era stato
condannato, sia in primo che in secondo grado, perché
riconosciuto colpevole del delitto previsto dall'art.
455 c.p., per aver detenuto, al fine di metterle in
circolazione, due banconote contraffatte da 100 euro
ciascuna. La banconote, per quanto desumibile dagli
atti, erano state rinvenute sul cruscotto dell'auto
condotta dall'imputato ed, inoltre, recavano il medesimo
numero di codice. In sede processuale, peraltro,
l'imputato, esercitando un suo diritto, non aveva voluto
rendere dichiarazioni, senza quindi fornire la sua
versione dei fatti.
Il ricorso
La condanna per il reato di
detenzione a fini di spaccio di banconote false era
stata però contestata dalla difesa dell'imputato,
secondo il quale i giudici del merito avevano solo
apparentemente motivato in ordine all'elemento
psicologico del delitto in esame.
Sul punto, osservava la difesa,
l'ipotesi di detenzione di banconote falsificate
presuppone (come quella di acquisto e introduzione nel
territorio nazionale) il dolo specifico, vale a dire
l'intenzione di porre in circolazione le stesse.
Tale elemento psicologico – secondo
i difensori - non può desumersi da meri dati sintomatici
o dal silenzio serbato dall'imputato, trattandosi di una
condotta processuale lecita, che non può essere valutata
in suo danno.
Le considerazioni che il giudice
d'appello aveva svolto erano da considerarsi meramente
congetturali e, anzi, contrastanti con la comune logica.
Invero, sosteneva la difesa, se le banconote erano in
vista sul cruscotto dell'auto dell'imputato, si trattava
di circostanza quantomeno equivoca e tendenzialmente
inconciliabile con il proposito di "spacciarle".
In tal senso, sosteneva la difesa,
la prova del dolo di «spaccio» deve essere certa,
rigorosa e desumibile da gravi e sicuri elementi
sintomatici, ma non può mai essere data attraverso una
valutazione negativa di una facoltà prevista dalla legge
(il silenzio dell'imputato).
La decisione della Cassazione
La Corte di cassazione, nel
rigettare il ricorso, ha disatteso le argomentazioni
difensive, fornendo, come anticipato, delle utili
indicazioni su come «scoprire» lo spacciatore di denaro
falso.
La norma oggetto di contestazione è
rappresentata dall'art. 455 c.p. che, sotto la rubrica «Spendita
e introduzione nello Stato, senza concerto, di monete
falsificate», punisce "Chiunque, fuori dei casi
preveduti dai due articoli precedenti, introduce nel
territorio dello Stato, acquista o detiene monete
contraffatte o alterate, al fine di metterle in
circolazione, ovvero le spende o le mette altrimenti in
circolazione, soggiace alle pene stabilite nei detti
articoli, ridotte da un terzo alla metà".
Il problema è quello di individuare
quando ed in che misura sia individuabile, nel
comportamento del detentore, la volontà di mettere in
circolazione banconote false.
La giurisprudenza, sul punto,
ritiene che il dolo specifico del reato in esame non può
essere desunto, con riferimento alla detenzione di una
sola banconota falsa ed a fronte della prospettazione
difensiva di averla ricevuta in buona fede e di averla
conservata per farne constatare la falsità al cedente,
dalle sole modalità della detenzione stessa. Poiché,
infatti, l'elemento psicologico del reato in questione
consiste nella finalità di mettere in circolazione la
falsa moneta, ricevuta in mala fede, a tanto consegue
che, da un lato, non può ravvisarsi dolus "in re ipsa",
dall'altro, esso può essere desunto solo da elementi
sintomatici, gravi e convergenti, idonei a
rappresentare, in modo inequivoco, l'intenzione di
mettere in circolazione la banconota (Cass., Sez. 5, 1
ottobre 1999, n. 14659, imp. O., Ced Cass., n. 215187;
da ultimo., v. Cass., Sez. 4, 19 aprile 2007, n. 25500,
imp. M., Ced Cass., n. 237006).
Tra gli elementi da valorizzare, in
particolare, vi sono: a) il numero ed il valore delle
false monete detenute; b) il tempo intercorso tra la
ricezione e la spendita delle stesse; c) lo scopo della
conservazione e della mancata consegna all'autorità. Ne
consegue, ad esempio, secondo la giurisprudenza di
legittimità, che non può dirsi illogica la motivazione
della sentenza di condanna che valorizza il numero delle
false banconote, oltre che il difetto di una qualsiasi
indicazione, da parte dell'imputato, circa la
provenienza ed un qualunque diverso e lecito fine della
detenzione: tali elementi vanno ritenuti sintomatici e
convergenti a riconoscere il dolo proprio del reato in
esame (Cass., Sez. 5, 14 aprile 2000, n. 5617, imp. B.,
Ced Cass., n. 216305; nella specie si trattava della
detenzione di oltre cento banconote false, con valore di
circa dieci milioni di lire italiane).
La vicenda in esame, peraltro, si
caratterizza per un ulteriore elemento di novità che la
differenzia da quelle in precedenza affrontate
giurisprudenza. L'imputato, infatti, come ricordato, non
aveva voluto rendere dichiarazioni durante il processo.
Osservano, sul punto, i giudici di Piazza Cavour che è
ben vero che l'ordinamento penale, nel riconoscere
all'imputato il diritto alla reticenza, al silenzio (e,
addirittura, alla menzogna, sempre che non sconfini
nella calunnia), riconosce del pari, al giudice la
facoltà di valutare il comportamento tenuto durante lo
svolgimento del processo (v., tra le tante: Cass., Sez.
2, 27 febbraio 1997, n. 2889, imp. Z., Ced Cass., n.
207560). Infatti, osserva la Corte, certamente non è
precluso a chi deve emettere una sentenza valutare la
condotta processuale dell'imputato, coniugandola con
ogni altra circostanza sintomatica, con la conseguenza
che egli, nella formazione del suo libero convincimento,
ben può considerare, in concorso di altri elementi, la
portata significativa del silenzio su circostanze
potenzialmente idonee a scagionarlo (V., in termini:
Cass., Sez. 2, 21 aprile 2010, n. 22651, imp. D.P., Ced
Cass., n. 247426).
In altri termini, dunque, nessun
rimprovero poteva esser mosso all'imputato per il suo
silenzio, ma ciò non significa che tale condotta dovesse
essere considerata tamquam non esset, in quanto tutto
ciò che accade nel processo ha (può avere) rilievo. In
tal senso, dunque, nel senso della consapevolezza della
falsità delle banconote, vennero valorizzate le
dichiarazioni della polizia che descrisse l'evidente
nervosismo e la trasparente preoccupazione mostrati
dall'imputato al momento della perquisizione, la
collocazione delle banconote in auto, la mancanza sulla
persona del ricorrente di altri mezzi di pagamento.
Nessun dubbio, quindi, che egli fosse consapevole di
detenere banconote pronte ad essere "rifilate" ad un
ingenuo prenditore: e di ciò l'imputato non poteva non
essere chiamato a rispondere. Il silenzio, in questo
caso, non lo ha premiato.
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