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Per capire quanto sia tutelata
l’infanzia nel suo stato puro, senza vincoli civilistici
o di natura penale, occorre fare riferimento a due tipi
di fonti normative. Una di natura internazionale e
l’altra di natura costituzionale. Ci sono poi alcune
leggi, in particolare la 194/1978 e la 40/2004,
rispettivamente sull’interruzione di gravidanza e sulla
procreazione medicalmente assistita, le quali offrono
uno spunto notevole per scoprire in quale direzione il
nostro ordinamento si stia muovendo e, soprattutto,
quale momento della vita costituisca l’incipit del
riconoscimento dei diritti e della loro tutela. Per
capire quanto sia tutelata l’infanzia nel suo stato
puro, senza vincoli civilistici o di natura penale,
occorre fare riferimento a due tipi di fonti normative.
Una di natura internazionale e l’altra di natura
costituzionale. Ci sono poi alcune leggi, in particolare
la 194/1978 e la 40/2004, rispettivamente
sull’interruzione di gravidanza e sulla procreazione
medicalmente assistita, le quali offrono uno spunto
notevole per scoprire in quale direzione il nostro
ordinamento si stia muovendo e, soprattutto, quale
momento della vita costituisca l’incipit del
riconoscimento dei diritti e della loro tutela.
Siamo sempre stati abituati alla
convinzione che una persona possa essere considerata
tale solo se inserita in un contesto. All’interno di un
luogo di lavoro, del gruppo di amici, del vicinato e
della famiglia, quasi a voler dire che senza gli altri
non si è nulla.
Seguendo questo ragionamento, che
riflette quello del nostro codice civile quando
sottopone all’evento della nascita l’acquisizione della
capacità giuridica, consistente nel divenire centro di
imputazione di diritti e doveri, si è persone perché si
ricopre il ruolo di lavoratore, di amico, di vicino di
casa, di marito o moglie e di figlio. Tutti ruoli che
hanno in comune però un elemento: si tratta di status
certamente rilevanti, ma successivi all’essere persona
in quanto tale. Quando nasciamo, non siamo
immediatamente figli, mariti o mogli, impiegati o rei,
ma siamo persone.
Se l’analisi ha come obiettivo
quello di comprendere come si risolva la questione tra
le possibilità degli adulti e la difesa dei diritti dei
più piccoli, o di chi ancora non è nato, si deve tentare
di comprendere quale sia il momento in cui si comincia a
non essere più solo e saldamente dalla parte dei grandi
ma si posano sull’altro piatto della bilancia interessi
differenti.
Nonostante la vivacità dell’attuale
dibattito relativo all’efficacia del diritto
internazionale, pietra miliare della tutela del
fanciullo è la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia del
1989 siglata in seno alle Nazioni Unite.
La sua importanza deriva
dall’essersi positivamente intromessa all’interno di
quasi tutti gli Stati al mondo, eccetto due. La Somalia
e gli Stati Uniti.
Nel suo primo articolo si enuncia
che la Convenzione si applica a tutela degli esseri
umani intesi come coloro che non abbiano compiuto la
maggiore età.
Apparentemente scontata, questa
disposizione assume una connotazione evolutiva,
protettrice e a fattispecie aperta. Non utilizzando un
criterio temporale per definire quale sia il momento
iniziale in cui i diritti della Convenzione debbano
essere applicati, si lascia al legislatore interno un
ampio margine di disponibilità giuridica. La domanda è:
quando si diventa persona? Dato che i principi di New
York sono stati dotati di efficacia esecutiva
nell’ordinamento italiano, occorrerà fare riferimento
alla nostra disciplina per molare le disposizioni
internazionali. Soprattutto in riferimento a principi
che stanno diventando, anche nei giudizi della Corte
Costituzionale, clausole generali e chiavi
interpretative; ci si riferisce, in particolare, al
superiore interesse del fanciullo, alla sua dignità,
alla ricerca delle proprie origini biologiche e
all’ascolto del minore.
Se a livello internazionale sono
stati prospettati tali diritti, esplicitamente
riconosciuti ai fanciulli, e se il nostro Stato li ha
presi inserendoli nel panorama legislativo, il passo
successivo è capire come tutto ciò riesca ad incastrarsi
con quello che già c’era e se l’effetto che si ottiene è
quello di un’adeguata tutela dell’infanzia.
Nella nostra Costituzione i
capisaldi sono costituiti dall’articolo 2, in tema di
riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo e
dall’articolo 3 in tema di eguaglianza, con la sua
doppia declinazione di eguaglianza formale e
sostanziale.
Vi sono poi altre disposizioni
costituzionali: quella relativa alla tutela della salute
di cui all’articolo 32, gli articoli 29 e 30 che
dispongono sulla famiglia come società naturale e del
conferimento dei doveri derivanti dalla genitorialità e,
infine, l’articolo 31, che costituisce il focolaio della
tutela dell’infanzia.
Si è ritenuto per molti anni che
l’unica chiave di lettura possibile delle varie
combinazioni dei citati articoli, fosse univocamente
diretta a tutelare la famiglia, quale formazione
sociale, e che l’interpretazione avanguardista si
risolvesse esclusivamente nell’eliminazione della
distinzione tra filiazione legittima e naturale.
Ma quando i Pardi Costituenti
scrissero quegli articoli non potevano certo essere
consapevoli di come il mondo sarebbe cambiato; non
sarebbero potuti essere al corrente che la Costituzione
sarebbe rimasta indietro rispetto alla modernità.
Resta comunque vero che la nostra
Costituzione è attualizzabile, ossia sono presenti
principi talmente elevati e così generali che, sempre
nell’ottica di una loro interpretazione
costituzionalmente orientata, può essere immersa nel
presente.
Non erano nemmeno coscienti, o
forse sì, che l’articolo 31 non costituisse una
ripetizione degli articoli precedenti, anzi, si tratta
di un antecedente logico e a fattispecie aperta.
Per scoprire la ragione della sua
importanza è necessario introdurre il principio posto
dal primo articolo della legge sull’interruzione di
gravidanza.
Viene infatti enunciato l’assunto
secondo cui lo Stato garantisce il diritto alla
procreazione cosciente e responsabile, riconosce il
valore sociale della maternità e tutela la vita umana
dal suo inizio; proprio da tale articolo, la dottrina
prevalente ha fatto discendere il più generale diritto
alla procreazione.
La legge 194 ha fatto qualche cosa
di più che abolire il reato di aborto e legiferare in un
ambito giuridico che aveva come specularità sociale il
fenomeno degli aborti clandestini. Ha cominciato ad
associare una temporalità al momento di acquisizione dei
diritti. Quando pone il limite dei novanta giorni per
poter interrompere la gravidanza, prevedendo motivi
tanto generici da permettere alla donna di essere
sostanzialmente in piena libertà di scelta, si attua il
meccanismo di protezione dei diritti. Ciò equivale a
dire che la donna deve essere tutelata nella sua salute,
nella sua autodeterminazione, nella sua libertà sessuale
(intesa nel senso di possibilità di riprodursi) e nella
sua dignità personale. Quindi, se volessimo dire chi sia
il vincitore nello scontro tra diritti, nei primi
novanta giorni la vincitrice sarebbe la madre.
Fondamentale risulta il termine che
comincia a decorrere dopo il novantesimo giorno. Da quel
momento, i requisiti che possono permettere
l’interruzione devono essere gravi motivi per la salute
della donna oppure malformazioni che interessano il
nascituro. La differenza è notevole e molto importante.
Quando il legislatore ha dovuto
scrivere questa legge, da molti criticata, l’ha fatto
sulla scorta di una sentenza della Corte Costituzionale
la quale si era espressa sostenendo che l’aborto doveva
essere disciplinato e che l’interesse preminente era
quello della donna poiché «già persona». Nella scrittura
di questa legge si è andati oltre, con una lungimiranza
non scontata. È vero che la donna deve essere libera di
scegliere, tuttavia, ad un certo punto della gravidanza,
anche l’altra vita ha bisogno di essere tutelata.
Per tale ragione questa legge è
riuscita a porre un punto di equilibrio tra interessi
differenti e per certi versi contrastanti permettendo,
dunque, di rileggere in una chiave differente e più
personalistica la tutela della maternità e dell’infanzia
di cui all’articolo 31.
La maternità, perché diritto, deve
essere tutelata in tutte le sue possibili versioni. Non
solo la maternità che si ha intenzione di portare
avanti, ma anche dell’ipotesi in cui la maternità,
laddove ricorrano i requisiti, non voglia essere
conclusa. Ma, ed è qui la maturità dell’ordinamento, con
il contrappeso della nuova vita che, nonostante tutto, è
stata generata. Per questo dopo i novanta giorni il
medico, in caso di aborto praticato, deve fare tutto ciò
che è possibile, tuttavia senza accanimento terapeutico,
per salvare la possibile vita autonoma del concepito.
Ecco che il diritto di non diventare mamma, quale
esplicazione della tutela di diritti e libertà
costituzionali, diventa paritario al diritto alla vita
di chi, anche se non ancora nato, è stato concepito.
Questo discorso risulta ancora più
chiaro nel susseguente logico costituito dalla legge
sulla procreazione medicalmente assistita. L’accesso
alle tecniche, infatti, è stato limitato a quelle
situazioni che possono, nonostante l’artificialità,
essere assimilate ad una situazione verosimigliante e
naturale. Come requisiti soggettivi sono richiesti un
legame tra due persone, di coniugio o di convivenza,
l’età potenzialmente fertile e l’eterosessualità.
Addirittura, il limite posto nella precedente legge qui
non è presente e l’asse della tutela di chi ancora dovrà
essere concepito viene spostata in un momento precedente
al ricorso stesso alle tecniche. La motivazione è
rintracciabile nei principi generali del nostro
ordinamento. È infatti diritto del fanciullo, non solo
conoscere le proprie origini biologiche, situazione
impossibile nel caso di eterologa o di surrogazione
materna, ma anche di tutela del favor veritatis
dell’idea, dunque, che il genitore che cresce il figlio
sia anche il genitore biologico.
Se fondamento giuridico di questa
legge è la tutela, in chiave positiva, degli stessi
diritti costituzionalmente garantiti che riguardano
l’interruzione di gravidanza, la proiezione giuridica è
quella di favorire il pieno sviluppo del non ancora
concepito garantendogli, non solo il suo diritto alla
vita, si pensi ad esempio al divieto di analisi pre
impianto, ma anche del contesto in cui egli si troverà a
vivere una vita pretesa dagli adulti.
Non si può quindi negare che nel
nostro Stato il concepito o nascituro o embrione sia,
nel possibile, tutelato. E i discorsi che attorno a
questo tema sorgono sono di natura bioetica che
investono domande molto più intime che non possono
trovare soluzione solamente nell’opera dei legislatori.
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