Camonita Salvatore
Il reato di diffamazione previsto e
punito dall'articolo 595 del codice penale, consiste nel
fatto di chi, comunicando con più persone, offende la
reputazione di una persona non presente.
La diffamazione risulta inquadrata
tra i delitti contro l’onore e punisce chiunque, fuori
dai casi ricompresi dalla figura dell’ingiuria prevista
e punita dall'art. 594, c.p., ..."offenda l’altrui
reputazione comunicando con più persone".
L'oggetto giuridico di tale delitto
è la reputazione, intesa come la stima di cui
l'individuo gode nel proprio ambiente sociale e
professionale.
La "reputazione" (o riputazióne) s.
f. [der. di reputare]. –1. letter. Il fatto di reputare,
la stima, il favore che si concede a uno: [la plebe]
volse la sua riputazione a Mario, tanto che la lo fece
quattro volte consule (Machiavelli). 2. Il fatto di
essere reputato, la stima e la considerazione in cui si
è tenuti da altri: come avvocato gode buona, ottima r.;
si è procurato una pessima r.; qui in paese ha cattiva
r.; r. d’avaro, d’incostante; è una ditta di solida
reputazione. Assol., sempre in senso positivo, buono:
debbo difendere la mia r.; quelle calunnie gli hanno
fatto perdere, gli hanno rovinato la r.; parea che ti
scemasse l’onore e la riputazione (Leopardi); è la
passione che ho della riputazione del casato che mi fa
parlare (Manzoni)1.
La reputazione, nel contesto dei
delitti contro l'onore in special modo nell'ambito del
delitto di diffamazione, non risiede in uno stato o
sentimento individuale, indipendente dal mondo
esteriore, nè tanto meno dal semplice amor proprio: la
reputazione è il senso della dignità personale
nell'opinione degli altri, un sentimento limitato
dall'idea di ciò che, per la comune opinione, è
socialmente esigibile da tutti in un dato momento
storico. Ergo, nel delitto di ingiuria ex art. 594,
c.p., viene tutelato l'onore in senso soggettivo, inteso
come opinione o sentimento che un soggetto ha delle
proprie qualità personali, mentre nel delitto di
diffamazione viene protetto l'onore in senso oggettivo,
visto come la stima che la persona offesa riscuote
presso gli altri membri della comunità. In particolare,
è affermato che nel delitto di diffamazione l'offesa
alla reputazione può anche consistere nell'aggressione
alla sfera del decoro professionale2.
L'elemento materiale nel reato di
diffamazione, richiede: l'assenza dell'offeso; l'offesa
all'altrui reputazione; la comunicazione a più persone.
Quindi, la diffamazione si
distingue dall'ingiuria perché solo per l'art. 594 c.p.
la presenza dell'offeso, all'atto della realizzazione
della condotta, è elemento costituivo della fattispecie.
Il terzo comma, dell'art. 595,
c.p., prevede un’aggravante con previsione di autonoma
misura di pena anche per l’ipotesi in cui l’offesa sia
veicolata attraverso “qualsiasi altro mezzo di
pubblicità” diverso dalla stampa e, pertanto, anche
tramite Internet. E’ appena il caso di precisare che
l’elemento della “presenza” (o della percezione), della
persona offesa ha portato ad altalenanti orientamenti
circa la qualificazione giuridica del fatto come
ingiuria ovvero come diffamazione. Secondo il Manzini
“se l’offeso fosse presente il fatto costituirebbe
delitto di ingiuria ancorché all’offesa assistessero
altre persone”.
Delle problematiche sono sorte,
pure riguardo alla competenza territoriale per il reato
di diffamazione a mezzo internet.
La giurisdizione penale è ripartita
tra gli organi titolari del potere di giudicare in base
a vari criteri di competenza. In breve, trattando della
competenza ovvero la quantità di giurisdizione che ogni
organo giudiziario può esercitare in concreto, essa è
limitata in base a dei criteri, quali quello funzionale,
quello per materia ed infine quello per territorio. Così
abbiamo:
Competenza funzionale: è la
ripartizione in base al grado e allo stato del processo,
con la quale si assegnano le indagini preliminari al
GIP, l'udienza preliminare al GUP, il primo grado
dibattimentale al tribunale o alla Corte d'assise, il
secondo alla Corte d'Appello e l'ultimo alla Corte di
Cassazione ;
Competenza per materia: è la
ripartizione in base al tipo di reato da giudicare.
Innanzitutto l'art.5 c.p.p. individua la competenza
della Corte d'Assise, che giudica i delitti per i quali
è prevista la pena dell'ergastolo o una reclusione di 24
anni, esclusi i delitti di tentato omicidio, rapina ed
estorsione, con qualsiasi aggravante, nonché i delitti
previsti dall'art.630 c.p. e dal D.P.R. 9 ottobre 1990,
n.309 modificato dalla legge 21 aprile 1999 n.29, dai
delitti consumati enunciati dagli artt. 579, 580 e 584
c.p. e da ogni delitto doloso se ha cagionato la morte
di qualcuno, salvo per le ipotesi previste dagli
artt.586, 588 e 593 c.p. Il giudice di pace giudica nei
casi previsti dall'art.4 del d.lgs. 28 agosto 2000
n.274. Il tribunale in via residuale del resto
Competenza territoriale: è
l'ultima ripartizione, operante dopo l'individuazione
della materia, fra i vari distretti geografici. L'art.8
c.p.p. sancisce le regole per la determinazione del
giudice territorialmente competente. Innanzitutto, è
competente il giudice del luogo ove è stato consumato il
reato. Se a causa del reato è morto qualcuno, però,
competente è il giudice dell'avvenuta azione od
omissione. Nel caso di reato permanente è competente in
ogni caso il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la
consumazione, mentre nel caso di delitto tentato è
competente il giudice dell'ultimo atto. L'art.9 soccorre
i principi generali dell'8, qualora non sono
determinabili i criteri d'individuazione: il giudice
competente è innanzitutto quello dell'ultimo luogo noto
in cui si è svolta parte dell'azione, e qualora non
fosse comunque conoscibile, competente è il giudice
della residenza, della dimora oppure del domicilio
dell'imputato. Se anche in questo caso fosse impossibile
risalire a un criterio, competente è il giudice della
sede del PM che per primo ha iscritto la notizia di
reato.
L'art.10 c.p.p. disciplina la
competenza per i reati commessi all'estero. I tipi di
competenza possono essere ovviamente derogati dal
criterio di connessione.
Per quanto concerne, il reato di
diffamazione a mezzo internet ex art. 595, 3° comma,
c.p., una premessa è d'obbligo per poter comprendere la
problematica concernente la competenza territoriale.
Considerando la sempre maggiore
diffusione delle nuove tecnologie informatiche, che ha
posto, in passato, il legislatore nella difficoltà ad
approntare un'adeguata tutela dei diritti della
personalità, attesa l'assenza di un'apposita disciplina
che non consentiva di reprimere condotte che, se pur
meritevoli di condanna, non erano previste come ipotesi
di reato, ciò ha portato il legislatore ad emanare la
legge n.547/1993, la quale ha introdotto nuove
fattispecie di reato, volte proprio a contrastare i c.d.
reati informatici, vale a dire quei reati lesivi della
libertà informatica degli utenti.
Tra i diritti della personalità
facilmente aggredibili, in questa prospettiva, vi è il
diritto alla reputazione, minacciabile mediante la
diffusione di notizie false o diffamatorie ai danni di
un soggetto, attraverso il mezzo di internet, che
consente una capillare e rapidissima diffusione in ogni
angolo del mondo dei contenuti in esso pubblicati.
In particolare, per quanto riguarda
la diffamazione a mezzo internet e la normativa sulla
stampa, la dottrina e la giurisprudenza si sono
domandate se tale reato non debba più correttamente
essere inquadrato e disciplinato alla stregua di ipotesi
particolari, analogamente alla diffamazione a mezzo
stampa o a mezzo di trasmissioni radio-televisive.
Dapprima ci si è chiesti se si potesse direttamente
richiamare la normativa sulla stampa e sulle
trasmissioni radio-televisive. L'orientamento prevalso è
stato di segno negativo scaturito dall'insormontabile
divieto di analogia in malam partem vigente in materia
penale. Un chiaro ostacolo all'interpretazione anzidetta
è costituito proprio dalla definizione, espressamente
dichiarata dalla giurisprudenza dominante insuscettibile
di interpretazione estensiva, di stampato, data dallo
stesso art. 1, l . n.° 47 del 1948, che fa riferimento a
tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute
con mezzi meccanici o fisico-chimici; appare evidente
l'incompatibilità della suddetta definizione con le
modalità di diffusione delle pubblicazioni a mezzo
internet, che avvengono attraverso la collocazione di
dati ed informazioni trasmessi per via telematica,
tramite l'utilizzo della rete telefonica, al server di
un cosiddetto provider o webmaster, accessibile a
migliaia di utenti contemporaneamente, presso il quale
le informazioni restano a disposizione nei diversi siti
in modo tale che ciascun interessato può leggerle e
conservarle mediante il proprio computer. Peraltro, alla
luce delle pur generiche definizioni contenute nella
normativa sovranazionale di riferimento, è di tutta
evidenza come, in ossequio al principio di stretta
legalità, le trasmissioni via internet non possano che
ritenersi estranee alle previsioni penali relative alla
radio-televisione, poiché esse avvengono con modalità
del tutto differenti, e dunque incomparabili, rispetto
alle trasmissioni oggetto della regolamentazione operata
dalla normativa in esame. Tuttavia, uno spiraglio per
un'equiparazione di internet agli altri mezzi di
comunicazione è stato fornito dalla l. 7 marzo 2001, n.°
62 sul diritto d'autore, la quale, se pur ad altri fini,
fornisce una definizione di prodotto editoriale che si
estende sino a ricomprendere qualsiasi prodotto su
supporto cartaceo o su supporto informatico destinato a
pubblicazione o diffusione con ogni mezzo anche
elettronico. Alcuni giudici di merito hanno affermato
che il sito internet deve essere ritenuto prodotto
editoriale ai sensi dell'art. 1, l . n.° 62 del 2001, in
quanto prodotto realizzato su supporto informatico
destinato alla diffusione di informazioni con mezzo
elettronico attraverso l'immissione nella rete mondiale,
accessibile in pratica a chiunque, di una serie di
opinioni e informazioni.
Sul punto è altresì intervenuta
un'ulteriore pronuncia di merito3 che, ritenendo
insuperabili le molteplici e rilevanti obiezioni ad
un'equiparazione, quantomeno in campo penalistico, tra
internet e stampa, riafferma l'incompatibilità delle
caratteristiche tecniche di internet con la definizione
di stampato fornita dalla l. n.° 47 del 1948, non
potendosi ignorare come il concetto di riproduzione, che
ne costituisce il fulcro, presupponga - da un punto di
vista logico - una distinzione fisicamente percepibile
tra l'oggetto da riprodurre e le sue riproduzioni,
essendo poi indifferente il procedimento fisico-chimico
mediante il quale la riproduzione viene posta in essere.
Al contrario, il testo pubblicato
su sito internet non può in alcun modo essere
considerato una riproduzione, poiché il relativo file si
trova in unico originale sul sito stesso, e può essere
consultato dall'utente mediante l'accesso al sito.
I files pubblicati su internet non
sono, in realtà, riproduzioni, ma documenti informatici
originali. La citata pronuncia giurisprudenziale può,
del resto, giovarsi del conforto di autorevole dottrina
la quale, sin dagli albori della vexata quaestio, ha
coerentemente evidenziato come, pur essendo innegabile
che la nozione di comunicazioni telematiche includa
un'attività di stampa, essa sia da considerare meramente
eventuale e qualora abbia luogo è in ogni caso il
soggetto utente a decidere se stampare e cosa stampare,
riproducendo l'intero documento o solo parte di esso;
peraltro, non si può ignorare come esistano anche
comunicazioni telematiche insuscettibili di tale
operazione, quali i messaggi audio o video. Inoltre, si
evidenzia come l'art. 1, l . n.° 47 del 1948, individua
come proprio campo di applicazione le riproduzioni
tipografiche in qualunque modo destinate alla
pubblicazione; tale definizione risulta assolutamente
estranea alle comunicazioni telematiche, che utilizzano
tecniche completamente diverse. Solo nell'ipotesi in cui
lo stampato venisse duplicato e diffuso verso una
generalità di soggetti esso potrebbe acquistare
rilevanza ai fini del succitato art. 1.
Con riferimento alla diffamazione a
mezzo internet e l'aggravante speciale per offese
commesse con un qualsiasi mezzo di pubblicità, ex art.
595 comma 3 c.p., l' orientamento giurisprudenziale
ormai dominante, consolidatosi a seguito di una
pronuncia intervenuta in tal senso da parte della
Suprema Corte4, è incline a sussumere la diffamazione a
mezzo internet in un'ipotesi aggravata, riveniente non
già dall'applicazione della disciplina sulla stampa o
sulla radio-televisione, bensì dello stesso art. 595
c.p., che al comma 3 prevede un'aggravante speciale per
l'offesa “recata...con qualsiasi altro mezzo di
pubblicità”. Tuttavia, parte della dottrina dubita che
internet sia pacificamente riconducibile all'estensione
semantica dell'espressione altro mezzo di pubblicità,
contenuta nell'art. 595, comma 3, c.p.; ad avviso di
alcuni autori, invero, l'estensione numerica degli
utenti raggiungibili dal messaggio diffamatorio è al più
suscettibile di incidere in sede di esercizio del potere
discrezionale del giudice in sede di commisurazione
della pena ex art. 133 c.p., ma non può in alcun modo
fungere di per sé da elemento di distinzione fra un
mezzo normale di comunicazione e un mezzo di pubblicità,
poiché il requisito della comunicazione con più persone
richiede, in ogni caso, una potenzialità divulgativa: al
contrario, la distinzione dovrebbe fondarsi su un
connotato valutabile aprioristicamente, che qualifichi
il mezzo divulgativo utilizzato in base alla sua natura
e non al risultato in concreto sortito sul presupposto
di un dato variabile come la consistenza numerica
effettiva delle persone raggiunte dal messaggio. In
altre parole, si può affermare che l'estensione numerica
degli utenti raggiungibili dal messaggio diffamatorio
non è decisiva ai fini della configurazione
dell'aggravante in questione.
Con riferimento alla questione del
locus commissi delicti e la giurisdizione, è evidente
che nessuna difficoltà insorge in ipotesi di reato
commesso agendo dall'Italia in collegamento con un
server parimenti installato in Italia, essendo il fatto
interamente commesso nel territorio italiano e,
conseguentemente, punibile alla stregua del principio
generale di territorialità.
Analogamente, se l'agente opera in
e dall'Italia su un server installato all'estero
sussiste la giurisdizione italiana ex art. 6, comma 2,
c.p., alla stregua del quale il reato si considera
compiuto in Italia.
Al contrario, la problematica si
presenta in relazione ai casi in cui l'agente opera
all'estero, e all'estero è pure collocato il server al
quale egli accede, ove si rifletta che il messaggio è
ricevuto, oltre che nel resto del mondo, anche in
Italia.
Il reato di diffamazione : di mera
condotta o di evento?
In un primo momento, le pronunce
dei giudici di merito in materia di diffamazione
avvenuta a mezzo internet per tramite di server allocato
all'estero sono state concordi nel ravvisare il difetto
di giurisdizione dell'autorità giudiziaria italiana.
Tanto, sulla scorta della
considerazione che se la diffusione dei contenuti
diffamatori è avvenuta fuori dai confini dello Stato
italiano, anche la consumazione del reato deve ritenersi
avvenuta all'estero, poiché la diffamazione si consuma
nel momento in cui si verifica la diffusione della
manifestazione offensiva diretta a più persone. Altra
dottrina argomenta dal differente presupposto che nel
reato di diffamazione, istantaneo e di pura condotta, la
condotta consista nella comunicazione con più persone e
la consumazione avvenga solo nel momento in cui i
destinatari percepiscono le espressioni diffamatorie,
poiché la percezione non è l'evento del reato, ma ne è
elemento costitutivo, in quanto fa parte della condotta
dell'agente: essa non integra il danno, che, viceversa,
si verifica nel momento in cui l'interessato, percependo
le espressioni offensive che lo riguardano (ma che sono
dirette a terze persone), sente lesa la propria
reputazione.
Sulla scorta di tali premesse,
questo secondo orientamento dottrinale giunge
all'opposta conclusione per cui il reato (ma non il
danno) si è perfezionato nel momento in cui il
messaggio, diffuso sul sito, viene percepito da una
pluralità di persone che a detto sito accedono; essendo
la percezione del contenuto offensivo dei messaggi
avvenuta in Italia, il reato dev'essere considerato come
commesso sul territorio italiano, alla luce del disposto
dell'art. 6 c.p. e del c.d. principio d'ubiquità.
Un ulteriore orientamento, da
ultimo autorevolmente avallato da una pronuncia della
Suprema Corte, è incline a considerare la diffamazione
un reato di evento, inteso quest'ultimo come avvenimento
esterno all'agente, sebbene collegato al comportamento
di costui, consistente nella percezione da parte del
terzo (rectius, dei terzi) dell'espressione offensiva;
la percezione, conseguentemente, non è un elemento
costitutivo della condotta, non essendo in alcun modo
ascrivibile all'agente, pur se si configura come una
conseguenza del suo operato. In virtù di quanto innanzi
esposto, il momento consumativo del reato de quo non è
quello della diffusione del messaggio offensivo, bensì
quello della percezione dello stesso da parte di
soggetti che siano «terzi» rispetto all'agente e alla
persona offesa.
Ben si comprende come, sulla scorta
di questo ragionamento, possa giungersi a statuire
l'applicabilità della legge italiana.
Configurabilità del tentativo. Una
parte minoritaria della dottrina ipotizza che sia
configurabile il tentativo nel reato di diffamazione a
mezzo internet. Ora, come rilevato anche dalla Suprema
Corte, nel caso in cui l'offesa venga arrecata tramite
internet, risulta di più agevole e immediata
constatazione la differenziazione concettuale tra
condotta ed evento, poiché l'evento appare anche
temporalmente ben distinto dalla condotta.
Ed invero, in un primo momento si
ha l'inserimento in rete da parte dell'agente degli
scritti offensivi o denigratori, e, solo in un secondo
momento, a distanza di minuti, secondi, ore, giorni,
ecc., i terzi, connettendosi con il sito e percependo il
messaggio, consentiranno la verificazione dell'evento e,
di conseguenza, la consumazione del reato ex art. 595
c.p.
Nell'ipotesi in cui un messaggio
dal contenuto diffamatorio venga pubblicato sul web e,
per avventura, nessuno abbia la possibilità di prenderne
conoscenza, in assenza di percezioni da parte dei terzi
del messaggio diffamatorio, l'azione si è evidentemente
compiuta e perfezionata, mentre ciò che non si è
verificato, impedendo al reato di giungere a
consumazione, è innegabilmente l'evento.
Tuttavia, la dottrina prevalente
concorda nel ritenere che l'art. 595 c.p., contempli un
reato di pericolo c.d. concreto; ed invero, se da un
lato non vi è alcuna necessità di accertare che la
reputazione o l'onore del soggetto abbiano
effettivamente subito un danno per effetto della
condotta diffamatoria, pure è essenziale che il giudice
accerti, caso per caso, esaminando e valutando il fatto
nella sua singolarità storica, nei suoi elementi
costitutivi di azione e di evento, al fine di trarre il
convincimento della sussistenza degli estremi oggettivi
e soggettivi della lesione, che esista quantomeno una
rilevante possibilità di verificazione dell'evento
temuto.
Altra parte della dottrina
prospetta un quadro dogmatico-interpretativo differente,
asserendo da un lato che l'effettiva percezione
dell'offesa non segna il momento consumativo del reato,
non potendo considerarsi la diffamazione un reato di
evento, dall'altro che, nel caso di specie ed in altri
analoghi, sussiste ugualmente la giurisdizione italiana,
dovendosi considerare il reato commesso nel nostro
territorio ai sensi dell'art. 6 c.p.
La suddetta dottrina riconosce
come, in caso di immissione di materiale diffamatorio in
internet, si debba addirittura dubitare se e quando
possa dirsi realizzata un'effettiva comunicazione e se
questa sia comunque imputabile all'agente, visto che vi
è una pluralità indeterminata di destinatari; essi,
peraltro, non vengono neppure «avvisati», come avviene
invece per il destinatario (determinato) di un' e-mail,
dell'esistenza concreta del messaggio, ma autonomamente
possono acquisirne cognizione accedendo ai servers in
cui è memorizzato e tanto solo se previamente lo
ricercano, con un loro volontario comportamento, pur
ignorandone, fino alla totale o parziale lettura, il
preciso contenuto ed anzi spesso anche la concreta
esistenza5.
In sintesi possiamo ben dire che
l’immissione di scritti lesivi dell’altrui reputazione
nel sistema internet integra il reato di diffamazione
aggravata previsto e punito dall’art. 595 c.p. Comma 3.
Per la consumazione del reato in
questione è sufficiente che un soggetto inserisca
l’informazione disvoluta dall’ordinamento in un
qualsiasi spazio web (es. testata giornalistica on
line), messo a disposizione da un provider, per il
tramite di un server.
Non occorre poi alcuna identità di
tempo né di spazio tra l’autore del reato, ossia tra
colui che “pubblica” la notizia o l’articolo ed i
potenziali fruitori dello stesso che possono trovarsi a
grandi distanze tra loro e venire a conoscenza dello
scritto anche molto tempo dopo, ossia quando, per mezzo
dei propri terminali, si connetteranno al sito sul quale
si trova pubblicato lo scritto diffamatorio.
E quindi, il reato di diffamazione
a mezzo internet viene perseguito ricorrendo all’art.
595 del codice penale denominato “diffamazione” nella
sua forma aggravata di cui al comma 3°, tradizionalmente
utilizzato per la diffamazione a mezzo stampa.
Ma i problemi si presentano quando
si tratta di individuare, ai fini della determinazione
della competenza territoriale, il locus commissi
delicti.
Avuto riguardo alla diffamazione a
mezzo stampa il reato si consuma nel luogo di percezione
della notizia lesiva dell’onore, che per costante
giurisprudenza viene fatto coincidere con il luogo della
pubblicazione della testata giornalistica.
Nel caso di internet, il luogo di
percezione coinciderà con il luogo della connessione dei
vari utenti di internet e pertanto non potrà che farsi
coincidere con quello dell’immissione della notizia
nella rete.
Tale luogo è di difficilissima
identificazione, potendosi trovare persino in un Paese
estero, ma tale circostanza non potrà far venir meno la
rilevanza penale della condotta quando la notizia venga
percepita da utenti italiani (Cass. Pen. Sez. V sent.
4741/00).
Pertanto, una recentissima sentenza
della Corte di Cassazione – Cass. Pen. Sez. I 26-04-2011
n. 16307 – chiamata a redimere un conflitto di
competenza sollevata dal Gup di Roma e dal Gup di
Milano, in tema di diffamazione telematica, osservando
che in casi del genere sia impossibile utilizzare
criteri “oggettivi unici, quali, ad esempio, quelli di
prima pubblicazione, di immissione della notizia della
rete, di accesso del primo visitatore, concludeva per
l’inapplicabilità delle regole stabilite negli articoli
8 e 9 1° comma c.p.p.”.
Ed inoltre, continua la Corte,
“attesa le peculiari modalità di diffusione di notizie
lesive dell’altrui reputazione allocate in un sito web,
non può neppure sostenersi l’automatica trasposizione
dei criteri fissati per i reati di diffamazione commessi
con il mezzo della stampa impropriamente valorizzando,
al riguardo, le indicazioni in ordine al “luogo di
stampa” e a quello di “registrazione” della testata
giornalistica contenute sul portale on line.”
Pertanto, in conclusione, la Corte
ritiene di ripianare il conflitto ricorrendo ai criteri
suppletivi fissati nel 2° comma dell’art. 9 c.p.p.,
ossia individuando quale giudice competente quello del
luogo di domicilio dell’imputato.
In pratica, occorrerà rifarsi al
luogo di domicilio del responsabile della testata
giornalistica on line nell’ambito della quale è apparso
l’articolo diffamatorio.
Medesima soluzione è stata fornita
dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione,
con sentenza n.964/2011, massimata al n.16307/2011 (che
si colloca nell'alveo tracciato dalla stessa Prima
Sezione con decisione n.2739/2010), la quale ha
statuito, in un caso di conflitto positivo di competenza
per territorio, che in fattispecie di diffamazione a
mezzo Internet, ai fini dell'individuazione del Giudice
competente, "sono inutilizzabili, in quanto di
difficilissima se non impossibile individuazione,
criteri oggettivi unici, quali ad esempio quelli di
prima pubblicazione, di immissione della notizia nella
rete, di accesso del primo visitatore" ed inoltre che
"non è neppure utilizzabile quello del luogo in cui è
situato il server (che può trovarsi in qualsiasi parte
del mondo), in cui il provider alloca la notizia". Per
tali ragioni, ha concluso la Suprema Corte, "ne consegue
che non possono trovare applicazione né la regola
stabilita dall'art.8 del c.p.p., nè quella fissata
dall'art.9 comma 1 del c.p.p." ma bisogna "fare ricorso
ai criteri suppletivi fissati dal secondo comma del
predetto art.9 c.p.p., ossia al luogo di domicilio
dell'imputato".
1http://www.treccani.it/vocabolario/;
2Cass., 17 maggio 1982 n.° 154268;
3 g.i.p. Trib. Aosta, 5 febbraio
2002, n. 22
4 Cass., sez. V, 27 dicembre 2000
5
http://www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=1221 |