Da qui al 2014 le spese locali resteranno
sostanzialmente invariate mentre quelle delle
amministrazioni centrali diminuiranno dell'8 per cento.
In ogni caso discutere sull'equità della distribuzione
dei tagli tra centro e periferia non ha senso. Il
trade-off non è tra spesa centrale e spesa locale,
quanto tra spese per sanità e previdenza e tutte le
altre. La politica di bilancio nel prossimo decennio
dovrà sostenere la sfida di governare le pressioni che
verranno alla spesa dalle dinamiche demografiche e allo
stesso tempo mantenere l'avanzo primario intorno al 4-5
per cento del Pil. Un compito insostenibile se le
decisioni verranno dominate da logiche "sindacali".
Lo scontro sulla distribuzione dei tagli alla spesa
pubblica tra livelli di governo ha implicazioni di
un certo interesse se si cerca di leggerlo andando un
po’ oltre la facciata.
LA SPESA DEGLI ENTI LOCALI
La prima riguarda direttamente l’oggetto del contendere:
la manovra colpisce in modo sproporzionato le autonomie
locali? Se si guarda semplicemente all’ammontare
dei tagli, non sembra esserci dubbio (tabella 1). Le
amministrazioni locali, cui compete un terzo della spesa
pubblica primaria (quella al netto degli interessi),
sopportano quasi la metà delle riduzioni di spesa decise
con i decreti legge di luglio (Dl 98/2011) e di
ferragosto (Dl 138/2011).
Si tratta, tuttavia, di un’immagine distorta
della realtà. I tagli sono diminuzioni di spesa rispetto
a una base di partenza (nel nostro caso, il tendenziale
“a legislazione vigente”). Tagli molto ampi possono
benissimo accompagnarsi a una spesa in aumento. Dipende
dalla base di partenza. A dire il vero, quasi sempre le
manovre di bilancio sulla spesa non ne comportano una
diminuzione da un anno all’altro, bensì una minore
crescita rispetto a ciò che si prevedeva prima delle
nuove misure. Da almeno due decenni, ogni anno abbiamo
la nostra manovra con tagli di spesa e proteste dei
settori colpiti. Eppure, in tutto il dopoguerra solo in
un anno (il 2010) la spesa primaria totale è diminuita
rispetto all’anno precedente.
Va detto, comunque, che ci sono buoni motivi per
commisurare i tagli rispetto alla base della
legislazione vigente e presentare in questi termini le
manovre di bilancio: la base ci dice quale sarebbe
l’evoluzione della spesa se non si intervenisse con la
manovra. È un punto di vista utile, quindi, per decidere
dove intervenire e con quanta intensità. Non è, invece,
il punto di vista migliore se vogliamo valutare le
priorità politiche e individuare i settori di spesa
sui quali grava maggiormente lo sforzo per il
risanamento. A questi fini, ciò che conta è l’andamento
effettivo della spesa e non l’ampiezza dei tagli
rispetto a una base ipotetica. E se si guarda
l’andamento futuro della spesa si ottiene un quadro
molto diverso da quello che appare concentrandosi sulla
dimensione dei tagli (tabella 2). Mentre la spesa
primaria delle amministrazioni centrali nel periodo
2010-2014 diminuirà dell’8 per cento, quella delle
amministrazioni locali resterà sostanzialmente
invariata, diminuendo solo dello 0,4 per cento. Nel
complesso, la spesa pubblica primaria nel 2014 crescerà
del 2,7 per cento rispetto al 2010, per effetto della
forte crescita (quasi il 12 per cento) di quella degli
enti di previdenza. Tenendo fuori dal confronto,
come è giusto fare, la spesa previdenziale, le proteste
di Regioni ed enti locali non appaiono, nell’insieme,
giustificate. Diciamo “nell’insieme” perché non siamo in
grado di distinguere la spesa delle Regioni da quella
delle province o dei comuni, in quanto le previsioni
ufficiali sono fornite solo per il complesso delle
amministrazioni locali.
LA SPESA LEGATA ALL'INVECCHIAMENTO
Informazioni maggiori si ottengono guardando al passato.
Se si considerano i tre sotto-settori, nel periodo
2001-2010, la graduatoria è la stessa (tabella 3): la
spesa degli enti di previdenza è cresciuta del 48 per
cento, quella delle amministrazioni locali del 37 per
cento, quella delle amministrazioni centrali del 27 per
cento (il complesso della spesa pubblica primaria è così
cresciuto del 39 per cento). La differenza tra spesa
locale e spesa centrale (sempre trascurando la
previdenza) è notevole, pur tenendo conto di qualche
trasferimento di funzioni dallo Stato alle autonomie
locali che si è verificato nel decennio. Va
sottolineato, tuttavia, come la dinamica della spesa
locale sia spiegata soprattutto dalla spesa degli
enti sanitari locali, cresciuta del 51 per cento nel
decennio. La spesa dei comuni e quella delle Regioni
diversa dalla sanità è, in realtà, cresciuta meno delle
spese delle amministrazioni centrali, al contrario,
quella delle province è cresciuta di più.
Insomma, volendo sintetizzare al massimo, in realtà la
questione non è tanto “spesa centrale vs. spesa locale”,
quanto “spese per sanità e previdenza (che rappresentano
circa metà della spesa primaria) vs. altre spese”. Di
questo dovrebbe occuparsi il dibattito politico: come
contenere le spese collegate all’invecchiamento della
popolazione (sanità e previdenza) e, nel caso, come
fare spazio a una loro crescita relativa, entro certi
limiti inevitabile, controllando altre spese. Sono
scelte politiche difficili, se contemporaneamente non si
vogliono ridurre gli investimenti nelle infrastrutture
pubbliche (un fattore decisivo per la crescita
economica) e si vuole mantenere la spesa per
l’istruzione e la ricerca (idem). Finora non ci siamo
riusciti: negli anni Duemila, rispetto alla crescita
complessiva della spesa per previdenza e sanità, la
crescita della spesa per l’istruzione è stata pari a
poco più della metà e quella per investimenti pubblici
solo a un sesto. (1)
Certamente, non potremo far fronte a questo compito se
la discussione si concentrerà, come è avvenuto in queste
settimane, sull’equità della distribuzione dei tagli tra
centro e periferia. Una categoria concettuale
priva di senso: come se tagliare la spesa per
l’istruzione o per la sicurezza pubblica (funzioni di
spesa proprie delle amministrazioni centrali) in maggior
misura di quella per il trasporto locale o la sanità
(funzioni delle Regioni) andasse a favore della
periferia. Sarebbe molto grave se il processo di
formazione del bilancio fosse dominato nei prossimi
anni, man mano che la trasformazioni del federalismo
andranno avanti (fino a interessare l’assetto del
Parlamento, con una Camera rappresentativa delle
autonomie) da logiche “sindacali” che non rappresentano
tanto gli interessi dei cittadini a livello locale
quanto quelli degli amministratori. Le dinamiche
divergenti delle spese per la sanità e per l’istruzione
negli ultimi dieci anni hanno certamente una
giustificazione demografica, ma un ruolo ha giocato
anche il diverso peso della rappresentanza dei
rispettivi interessi nel processo di formazione del
bilancio. Nel prossimo decennio, allo stato attuale
dell’arte, siamo destinati a dover mantenere avanzi
primari nell’ordine del 4-5 per cento del Pil. Di per sé
sarà molto difficile riuscirci senza danneggiare in modo
irreparabile le prospettive di crescita e la coesione
sociale, diventerà impossibile se la politica di
bilancio sarà dominata dalla frammentazione in una
pluralità di centri di rappresentanza di interessi
parziali.
(1)
C’è qualche eccezione alla regola che vede la crescita
maggiore nelle spese per previdenza e sanità; la più
notevole è la difesa, che per quanto costituisca solo il
3,5 per cento della spesa primaria totale, è cresciuta
negli anni Duemila dell’80 per cento, quasi il doppio
delle spese age-related.
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