Una questione aperta
Alla data del 17 ottobre 2011 sono
presenti negli istituti penitenziari italiani 2.890
detenute donne e 64.622 detenuti uomini (capienza
regolamentare rispettivamente di 2.569 donne e 43.009
uomini) con un tasso di affollamento che pone l'Italia
al secondo posto in Europa.
In Umbria, alla stessa data, le
presenze sono di 83 detenute donne e 1.675 detenuti
uomini (capienza regolamentare rispettivamente di 74
donne e 1.060 uomini).
Dato numerico significativamente
allarmante, ma che non produce alcuna reazione emotiva
nel cittadino distratto dalle tante questioni che lo
affliggono e legato alle sue personali esigenze e
priorità.
Abbiamo così perso la parte più
nobile della nostra storia e tradizione culturale ed
anche religiosa che proprio nel confronto,
nell'equilibrio e nella comprensione dava qualità e
senso al vivere democratico.
Ed ecco che, un pezzo alla volta,
assistiamo immobili e distratti al crollo dei capisaldi
di questa nostra giovane democrazia, vecchia e cadente
prima che sia diventata adulta. La Costituzione
repubblicana in questo caso, come in tanti altri,
rappresenta la punta più avanzata di una legislazione
normativa mai portata a pieno compimento. Una Carta
fondamentale a cui segue il nulla di un dibattito che
non pone all'ordine del giorno nessuna delle questioni
cui ragionevolmente dovremmo dare priorità. Fra queste
anche il carcere.
Anestetizzati dal bombardamento dei
disastri del mondo e dalla situazione catastrofica degli
Stati, ci trinceriamo spesso dietro l'alibi della nostra
quotidianità e del nostro egocentrismo e rimuoviamo quel
momento di riflessione che ci farebbe comprendere, ad
esempio, la sofferenza fisica e morale cui questo Stato
sottopone i detenuti: della inaccettabile convivenza con
altri due perfetti estranei in una stanza di nove metri
quadrati, dell'impossibilità di trovare refrigerio
chiusi in gabbie di cemento e ferro per venti ore al
giorno o del dibattersi fra l'ozio e la voglia di farla
finita in un tempo che scorre inutile, senza alcun
senso, in una apatia priva anche di sogni e speranze.
Certo non ci tormenta (come avviene per i detenuti) la
lontananza dalle nostre famiglie, delle quali non
abbiamo nemmeno notizie su come facciano a vivere, né ci
tormenta la certezza di un futuro peggiore del presente
che rende inevitabile tornare a ripetete e ripetere
l'esperienza della devianza e delle sue conseguenze.
Certo non ci angoscia non aver voce
per parlare né argomenti che possano attirare
l'interesse. Né penseremmo mai di essere gli ultimi tra
gli ultimi, quelli che devono essere puniti riabilitando
desideri di vendetta senza senso e dimensione che,
sinceramente, dovrebbero invece essere relegati ad un
profondo passato storico.
E questo è solo un aspetto della
questione infatti chi si trova in prigione non ha
nemmeno la possibilità di comprendere ed accettare la
pena per nessuna delle sue definizioni che altri
giuristi ed in altri tempi hanno voluto enunciare:
funzione retributiva (nel momento in cui la pena
irrogata dal giudice viene in concreto eseguita),
general-preventiva (nel momento in cui vi è la
comminatoria della pena nella legge penale),
special-preventiva (nel momento in cui il giudice
applica la pena al reo nel caso concreto), funzione
rieducativa (art. 27 Costituzione:la pena deve tendere
alla rieducazione del condannato).
Ed ancora chi si trova in prigione
non comprenderà nemmeno perché ciascuna è diversa
dall'altra. Le differenze che infatti caratterizzano le
strutture detentive sono, a livello di organizzazione e
regole, enormi e variegate: spesso la qualità della
vita, di chi risiede in prigione, è determinata dalla
professionalità in capo al personale che le sovrintende
ed alla loro sensibilità. Direttori, magistrati di
sorveglianza, educatori, assistenti sociali, personale
sanitario, polizia penitenziaria, ma anche Enti locali e
volontariato dello specifico territorio sono figure
determinanti nell'esecuzione penale, a tal punto che a
condanna simile non sempre segue identità di percorso
punitivo o risocializzante.
Due reclusi potrebbero
paradossalmente essere soggetti ad identica condanna,
derivante da identica fattispecie di reato, ma
percorrere strade molto diverse sino ad una parziale
riduzione della stessa in capo ad uno dei due, e la
piena e dolorosa esecuzione in capo all'altro.
In termini ancora generali poi non
comprenderà mai la sua "sfortuna†per essersi trovato
fra la minoranza di quelli che incappano nella rete
della giustizia. Il settimanale "l'Espresso†ha
pubblicato una chiara e dettagliata inchiesta di
Gianluca Di Feo nella quale si racconta che sono circa
150.000 i processi che ogni anno vengono chiusi per
scadenza dei termini. Una sorta di impunità che
quest'anno si calcola che si possa arrivare a circa
200.000 prescrizioni, si legge, anche per reati gravi,
come l'omicidio colposo. Così la giustizia sta
soffocando sommersa dai fascicoli.
Analoghe posizioni ha rappresentato
Emma Bonino al Senato il 22 giugno spiegando le
posizioni radicali che mirano, con forme di lotta non
violente, a far rivivere nel Paese la speranza della
sacralità della legge, il senso dello Stato di diritto,
il senso delle istituzioni, interrompendo una flagrante
violenza di Stato. Ella afferma che chi è fuori legge in
questo Paese sono lo Stato e le sue istituzioni. E
questo non è tollerabile in un regime democratico,
perché ne mina alle fondamenta la credibilità verso i
cittadini.
I tribunali penali e civili sono
oggi soffocati da 11 milioni di processi pendenti, hanno
già prodotto in 10 anni 2 milioni di reati prescritti e
continuano a produrre, come una catena di montaggio
impazzita, sempre meno sentenze e, al ritmo di quasi
200.000 all'anno, sempre più prescrizioni.
Uno scandalo senza fine che, negli
ultimi dieci anni ha prodotto altresì il suicidio di 650
detenuti, ma anche di 87 agenti di polizia penitenziaria
e, lo scorso anno, di un dirigente generale. Il carcere
si configura sempre di più come contenitore del
conflitto, come discarica sociale e strumento atto a
confinare donne e uomini delle classi sociali meno
abbienti, in quanto tali, ritenute pericolose. Circa
l'80 per cento della popolazione carceraria è, infatti,
costituita dalla cosiddetta detenzione sociale, ovvero
da persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o
marginalità (immigrati, tossicodipendenti, emarginati)
per le quali, più che una risposta penale o carceraria,
sarebbero opportune politiche di prevenzione e sociali
appropriate.
Secondo l'opinione di Joseph
Chamie, direttore del Center for Migration Studies di
New York, mandare un immigrato clandestino in carcere
non è la soluzione. Certi problemi vanno affrontati con
l'educazione, i servizi pubblici, la sorveglianza. Gli
immigrati non li si può mettere in prigione, perché sono
troppi, diventerebbero dei criminali, creerebbero più
problemi che risolverne. Occorre poi considerare che la
dimensione del problema deve considerare le ferree leggi
della demografia ed i conflitti sempre più evidenti che
colpiscono tutto il nord ed il centro Africa che
determinano un flusso migratorio incontrollabile. I
paesi più sviluppati saranno obbligati ad accogliere
milioni di immigrati l'anno (l'Italia si stima 120.000).
Si possono fare tutte le leggi in Parlamento, ma non si
può contrastare le norme di ferro della demografia. Né
si possono fare minacce a vuoto. Se si sa che non si
riesce a rimandali indietro, è meglio non avviare
nemmeno le procedure legali.
Ed ancora il Presidente della
Repubblica, in qualità di Garante dei diritti
costituzionali, in primo luogo degli ultimi, il 28
luglio al Convegno organizzato dal Partito radicale
presso il Senato, fra l'altro, ha riaffermato la
necessaria priorità di mettere a fuoco il punto critico
insostenibile cui è giunta la questione, sotto il
profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da
conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il
profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani
negati per le persone ristrette in carcere, private
della libertà per fini o precetti di sicurezza e di
giustizia.
Analoga preoccupante conferma è
stata infine riassunta e sviluppata lo scorso 21
settembre presso il Senato della Repubblica (seduta n.
606). Gli interventi non hanno mai potuto assolvere le
gravi responsabilità e la mancanza di iniziative
incisive che emergono in modo incontrovertibile.
Una questione di prepotente urgenza
sul piano costituzionale e civile che con i processi
propri dell'emergenza, dell'approssimazione, della
mancata analisi e della disconoscenza dei problemi
produce scelte politiche e legislative oscillanti e
incerte tra depenalizzazione e depenitenziarizzazione, e
ciclica ripenalizzazione con crescente ricorso alla
custodia cautelare, abnorme estensione, in concreto,
della carcerazione preventiva.
E proprio quest'ultima evidenzia
una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la
sofferenza quotidiana. Per molti il carcere è limitato
solo a questa nell'irragionevole assunto che la pena si
sconta prima e spesso solo prima della condanna,
cancellando in un solo colpo il principio di non
colpevolezza sino a sentenza definitiva e quello della
sua certezza. Un dato impressionante quello dei circa
30.000 arrestati l'anno, che restano in prigione per
uno, due o tre giorni producendo uno sperpero
organizzativo e di risorse inaccettabile ed incongruo.
Ritengo quindi insieme ai tanti che
si sollevano, con comprensibile sdegno, che occorre
metter mano a questa inciviltà democratica ampiamente
misurata dai provvedimenti affrettati, lontani e privi
del risultato dichiarato.
Così è stato per il provvedimento
dell'indulto del 2006, monco della necessaria amnistia
che avrebbe dato respiro ai tribunali e così è stato per
la fallimentare esperienza applicativa della legge
199/2010 (c.d. svuota carceri) che ha condotto alla
concessione della detenzione domiciliare di un numero di
poco superiore ai duemila detenuti (a fronte della
platea dei 9.000 inizialmente ipotizzata dal Ministro
Alfano).
Così sarà se si considera la
costruzione di nuove prigioni come soluzione a tutti i
problemi. Questa non è la soluzione, né una delle
possibili soluzioni. La costruzione di nuove carceri è
la proposta più semplice di chi non riesce ad analizzare
le questioni se non nei termini elementari della
grandezza del contenitore rispetto al contenuto. E
quello che è perverso è la non considerazione né della
qualità del contenitore né del valore del contenuto. Ciò
che inorridisce è dichiarare impunemente l'esistenza di
una copertura finanziaria di tale spesa quando gli
istituti penitenziari da anni non dispongono di fondi
per le manutenzioni, ma nemmeno per pagare la luce,
l'acqua ed il gas come pure per assicurare attività di
lavoro, di sostegno e di dignità alle persone che
custodiscono. E si tace che esistono istituti vuoti o
parzialmente utilizzati per mancanza di personale.
Tutti i progetti in corso, come è
stato ampiamente dimostrato e discusso, sono poi
ispirati, sia in termini funzionali che strutturali, a
principi reinfantilizzanti (mera custodia e controllo) e
non risocializzanti e quindi lontanissimi da tutte le
esigenze dettate dall'ordinamento penitenziario del 1975
e dalla normativa comunitaria rispetto alla quale
l'Italia risulta inadempiente.
Così sarà se non si mantiene in
primo piano la necessità di una riforma sostanziale del
codice penale che promuova una drastica riduzione dei
reati e delle pene e la riconduzione del carcere ad
extrema ratio attraverso la tutela del principio della
riserva di codice, la concessione più equilibrata e
diffusa del beneficio della pena sospesa.
La previsione di misure extrapenali
e la riduzione dei minimi e dei massimi edittali possono
rappresentare soluzioni ben migliori se affiancate alla
disponibilità a rivedere normative altamente criminogene.
Come sostiene Leonardo Arnau in un suo articolo del
maggio scorso solo una riforma del diritto penale può
eliminare la vera causa di questa odierna crisi di
sistema.
Dobbiamo infine accettare l'idea
che restare immobili è cosa che non può essere
tollerata, nessuno può tirarsi fuori dalle questioni
fondanti i principi che sovrintendono un libero Sato
democratico. E questo è possibile se il cittadino
perbene chiede il conto delle scelte, dei risultati,
delle responsabilità.
E' il controllo sociale umile, ma
puntuale e rigoroso e che faccia della moralizzazione e
dell'equilibrio le sue regole, che può restituire la
dignità della soluzione ad una delle priorità che minano
il Paese.
Dott. Francesco Dell'Aira |