Con una pronuncia resa dalla
sezione lavoro il 25 ottobre 2011, la Corte di
Cassazione
è tornata sul tema del procedimento
ex art. 7 della Legge n. 300 del 1970 e del
licenziamento per giusta causa,
ribadendo due principi essenziali in tema di
procedimento disciplinare.
Il primo, secondo il quale nel
procedimento de quo non trova applicazione il principio
(di derivazione penalistica) della
predeterminazione della pena, dal momento che la
predeterminazione e la certezza
dell'incolpazione del lavoratore sono validamente
affidate “a concetti diffusi e
generalmente compresi dalla collettività in cui il
giudice (nella
specie, quello disciplinare) opera”
1.
Secondo la Corte, pertanto,
affinché le prescrizioni di cui all’art. 7 dello Statuto
dei
Lavoratori siano rispettate, il
codice disciplinare aziendale deve indicare in modo
chiaro le ipotesi di infrazioni,
pur essendo sufficiente una nozione schematica e non
dettagliata delle varie
prevedibili, o possibili azioni del singolo.
Le previsioni sanzionatorie
corrispondenti, quindi, potranno essere indicate in
maniera ampia e suscettibile di
adattamento, secondo le effettive e concrete
inadempienze, senza la necessità di
“un’analitica e specifica predeterminazione delle
1 Cfr. Cass. n. 9097 del 3 maggio
2005, in La Tribuna, Archivio giuridico della
circolazione e dei sinistri
stradali, 2006, 2, p. 187.
infrazioni e, in relazione alla
loro gravità, delle corrispondenti sanzioni secondo il
rigore
formale proprio del sistema
sanzionatorio penale statuale”.
Il secondo, in base al quale nel
momento in cui il Giudice del merito vaglia la
legittimità del licenziamento per
giusta causa ex artt. 2119 e 2106 c.c., e 7 dello
Statuto
dei Lavoratori, non può limitarsi
ad affermare la sussistenza della fattispecie
disciplinare, ma deve verificare la
proporzionalità della sanzione alla fattispecie
contestata.
Ha affermato, infatti, la Suprema
Corte, che la giusta causa di licenziamento e la
proporzionalità della sanzione
disciplinare sono nozioni che la legge configura con
disposizioni ascrivibili alla
tipologia delle cosiddette clausole generali e, quindi,
delineanti un modulo generico che
richiede di essere specificato in sede interpretativa,
attraverso un’attività che ha
natura giuridica e la cui disapplicazione, quindi, è
deducibile in sede di legittimità
come violazione di legge.
Al contrario, “l'accertamento della
concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio,
degli
elementi che integrano il parametro
normativo e le sue specificazioni e della loro concreta
attitudine a costituire giusta
causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la
proporzionalità
tra infrazione e sanzione, si pone
sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al
giudice
di merito ed incensurabile in
cassazione se privo di errori logici o giuridici”2.
2 Sul punto, cfr. anche Cass. n.
25144 del 13 dicembre 2010.
CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 25
ottobre 2011, n. 22129 - Cassiere -
Appropriazione di premi in possesso
della società datrice di lavoro - Licenziamento
per giusta causa
Primo Presidente: dott. Vittorio
Nobile; Relatore Consigliere: dott. Giulio Maisano
Svolgimento del processo
Con sentenza del 18 luglio 2008 la
Corte d'Appello di Milano ha confermato la
sentenza del Tribunale di Milano
del 4 dicembre 2006 che ha rigettato la domanda di
(...) dipendente della (...) in
qualità di cassiere presso la sede di Via (...) intesa a
far
accertare l'illegittimità del
licenziamento intimatogli in data 5 agosto 2005 per
giusta
causa, ed a condannare la società
(...) alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al
risarcimento del danno.
La Corte territoriale ha motivato
tale sentenza ritenendo che la condotta contestata al
lavoratore, e consistita nell'avere
accreditato su una propria fidelity card punti
conseguenti a spese compiute da
terzi, con conseguente appropriazione di premi in
possesso della società datrice di
lavoro e destinati a premiare i clienti più assidui,
rientra tra le infrazioni
disciplinari previste; inoltre tale condotta è passibile
di
licenziamento per giusta causa in
quanto, ripetuta nel tempo, lede il rapporto
fiduciario rendendo impossibile la
prosecuzione del rapporto di lavoro. Il (...)
propone ricorso per cassazione
avverso tale sentenza articolandolo su cinque motivi.
Resiste la (...) con controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente
lamenta violazione o falsa applicazione degli artt.
2104, 2106 2119 cod. civ. e
dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966 con riferimento
alla
sussistenza della giusta causa del
licenziamento.
In particolare il ricorrente deduce
che la condotta addebitata al lavoratore non
configurerebbe giusta causa di
licenziamento stante la lieve entità della condotta e
del
danno procurato all'azienda, e
stante le circostanze di fatto che giustificherebbero la
condotta contestata, e consistente
nella diffusa prassi di consentire l'utilizzo di punti
relativi a spese di terzi.
Con secondo motivo si deduce
violazione o falsa applicazione degli arti 2104, comma
2, e 2106 cod. civ., e dell'art. 3
della legge n. 604 del 1966 in ordine al principio di
certezza e predeterminazione delle
sanzioni disciplinari, nonché omessa o
insufficiente motivazione sulla
circostanza controversa dell'assoluta incertezza della
sanzione. In particolare si assume
che il codice disciplinare non conterrebbe la
condotta contestata né la sanzione
prevista,
Con il terzo motivo si lamenta
contraddittoria ed insufficiente motivazione sulle
circostanze controverse della
reiterazione della condotta nel tempo e della lievità
del
fatto, nonché violazione e falsa
applicazione degli artt. 2104, comma 2, e 2106 cod.
civ., nonché dell'art. 3 della
legge n. 604 del 1966 in ordine al principio di
proporzionalità tra infrazione e
sanzione.
Con il quarto motivo si deduce
omessa motivazione sulla circostanza controversa
della tardività della
contestazione.
Con il quinto motivo si lamenta
violazione o falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ.
e degli artt. 118 e 421 cod. proc.
civ. per omesso ordine, nonostante l'espressa
domanda, di esibizione delle
registrazioni di cassa relative a tutte le registrazioni
della tessera nominativa del
ricorrente dal giorno della sua sottoscrizione nell'anno
2002 al luglio 2005»
Il primo motivo è infondato, in
quanto l'accertamento di fatto dal quale deriverebbe la
tolleranza dell'azienda a condotte
simili a quella in questione, e la prassi consolidata
in tal senso, sono riservati ai
giudice di merito. Inoltre deve considerarsi che il
ricorrente non ha affatto allegato
la prassi dedotta nel motivo di ricorso e secondo la
quale i dipendenti avevano l'usanza
di raccogliere punti devoluti da terzi.
Parimenti infondato è il secondo
motivo con il quale si deduce, sostanzialmente, la
mancata predeterminazione della
pena. A tale riguardo deve considerarsi che
l'istituto invocato ha rilevo
esclusivamente in sede penale, mentre in tema di
illeciti
disciplinari, stante la stretta
affinità delle situazioni, deve valere il principio -
più volte
affermato in tema di norme penali
incriminatrici "a forma libera" - per il quale la
predeterminazione e la certezza
dell'incolpazione sono validamente affidate a concetti
diffusi e generalmente compresi
dalla collettività in cui il giudice (nella specie,
quello
disciplinare) opera (Cass. 3 maggio
2005 n. 9097).
Al fine del rispetto delle
prescrizioni contenute nell’articolo 7 dello Statuto dei
Lavoratori il codice disciplinare
aziendale non necessariamente deve contenere
un’analitica e specifica
predeterminazione delle infrazioni e, in relazione alla
loro
gravità, delle corrispondenti
sanzioni secondo il rigore formale proprio del sistema
sanzionatorio penale statuale,
essendo invece sufficiente per la sua validità che esso
sia redatto in forma che renda
chiare le ipotesi di infrazioni, sia pur dandone una
nozione schematica e non
dettagliata delle varie prevedibili o possibili azioni
del
singolo e che indichi, in
corrispondenza, le previsioni sanzionatorie, anche se in
maniera ampia e suscettibile di
adattamento secondo le effettive e concrete
inadempienze..
E' invece fondato il terzo motivo
relativo alla proporzionalità della sanzione.
Giusta causa di licenziamento e
proporzionalità della sanzione disciplinare sono
nozioni che la legge, allo scopo di
adeguare le norme alla realtà da disciplinare,
articolata e mutevole nel tempo,
configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia
delle cosiddette clausole generali,
di limitato contenuto e delineanti un modulo
generico che richiede di essere
specificato in sede interpretativa, mediante la
valorizzazione sia di fattori
esterni relativi alla coscienza generale, sia di
principi che
la stessa disposizione tacitamente
richiama.
Tali specificazioni del parametro
normativo hanno natura giuridica e la loro
disapplicazione è, quindi,
deducibile in sede di legittimità come violazione di
legge,
mentre l'accertamento della
concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio,
degli
elementi che integrano il parametro
normativo e le sue specificazioni e della loro
concreta attitudine a costituire
giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere
la
proporzionalità tra infrazione e
sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di
fatto, demandato al giudice di
merito e incensurabile in cassazione se privo di errori
logici o giuridici. Pertanto,
l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito
nell'applicare le clausole generali
come quella di cui all'art. 2119 o all'art. 2106 cod.
civ., che dettano tipiche "norme
elastiche", non sfugge ad una verifica in sede di
giudizio di legittimità, sotto il
profilo della correttezza del metodo seguito
nell'applicazione della clausola
generale, poiché l'operatività in concreto di norme di
tale tipo deve rispettare criteri e
principi desumibili dall'ordinamento generale, a
cominciare dai principi
costituzionali e dalla disciplina particolare (anche
collettiva)
in cui la fattispecie si colloca
(Cass. 13 dicembre 2010 n. 25144).
Nel caso in esame la Corte
territoriale, al fine di giudicare la proporzionalità
della
sanzione, ha omesso ogni
considerazione riguardo alla graduazione della pena,
limitandosi ad affermare la
sussistenza della fattispecie disciplinare.
Il quarto motivo è infondato in
quanto il ricorrente non ha indicato le circostanze per
le quali la contestazione
disciplinare sarebbe tardiva, né è consentito nel
giudizio di
legittimità un accertamento di
fatto al fine di verificare la circostanza addotta dal
ricorrente.
Il quinto motivo è inammissibile
per l'assoluta carenza della formulazione del quesito
di cui all'art. 366 bis cod. proc.
civ.
La sentenza impugnata va dunque
cassata con riferimento al terzo motivo, con rinvio
alla Corte d'Appello di Milano in
diversa composizione che, adeguandosi a quanto
affermato più sopra, dovrà
verificare la proporzionalità della sanzione con
particolare
riferimento alla graduazione delle
sanzioni previste dal contratto di lavoro.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo di ricorso
e rigetta gli altri; Cassa l'impugnata sentenza in
relazione alla censura accolta e,
rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di
Milano in diversa composizione. |