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PROBLEMATICA SULLA GIURISDIZIONE DELLA CORTE DEI CONTI NEI GIUDIZI DI OTTEMPERANZA. RAPPORTI FRA LE AZIONI IN TEMA DI OTTEMPERANZA E DI ESECUZIONE FORZATA, SECONDO LA GIURISPRUDENZA DELLA CASSAZIONE A SEZIONI UNITE E DEL CONSIGLIO DI STATO-. www.contabilita-pubblica.it

 

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 Antonio VETRO

(Presidente on. Corte dei conti)

 

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La Sezione giurisdizionale per la Sardegna, con sentenza n. 690/2009, ha affermato la giurisdizione della Corte dei conti in materia di ottemperanza nei giudizi di responsabilità amministrativa, relativamente alle spese, a carico della pubblica amm.ne, liquidate a favore dei convenuti prosciolti.

In particolare, la Sezione ha rilevato che “l’art. 10 della legge n. 205/2000 ha previsto che “all’articolo 33 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, è aggiunto il seguente comma: per l’esecuzione delle sentenze non sospese dal Consiglio di Stato il tribunale amministrativo regionale esercita i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza al giudicato di cui all’articolo 27, primo comma, numero 4), del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, e successive modificazioni. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche nel giudizio innanzi alle sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti per l’esecuzione delle sentenze emesse dalle sezioni medesime e non sospese dalle sezioni giurisdizionali centrali d’appello della Corte dei conti; per l’esecuzione delle sentenze emesse da queste ultime provvedono le stesse sezioni giurisdizionali centrali d’appello della Corte dei conti”. La disposizione ha comportato evidentemente un ampliamento delle attribuzioni giurisdizionali di questa Corte, atteso che, precedentemente alla sua entrata in vigore, era pacificamente ritenuto che in ordine all’ottemperanza o all’esecuzione delle sentenze del giudice contabile sussistesse la giurisdizione rispettivamente del TAR-Consiglio di Stato e del giudice ordinario. … La Sezione ritiene di affermare la propria giurisdizione, per un duplice ordine di ragioni. In primis, la norma in discussione non contiene elementi letterali o di altro genere che possano indurre ad un’interpretazione restrittiva della sua portata dispositiva. E’ pur vero che la norma parla di sentenze delle sezioni regionali “non sospese dalle sezioni giurisdizionali centrali d’appello della Corte dei conti”, il che potrebbe far ritenere che essa si riferisca alle sole sentenze in materia pensionistica, sussistendo soltanto per queste un potere del giudice d’appello di disporne la sospensione dell’esecutività (negli altri casi è la proposizione dell’appello a determinare ope legis tale effetto, ex art. 1, c. 5-ter del d.l. n. 453/1993, conv. in l. n. 19/1994). Tuttavia, l’argomento appare debole, ove si consideri l’evidente intento del legislatore, manifestato dalla ripetizione, nel secondo comma, della medesima espressione usata nel primo comma (“esecuzione delle sentenze non sospese”), di conferire alle sezioni regionali della Corte dei conti lo stesso potere attribuito ai tribunali amministrativi regionali di giudicare in ordine all’ottemperanza delle proprie sentenze esecutive, quand’anche non ancora passate in giudicato (tale possibilità era sino ad allora stata esclusa dalla giurisprudenza). Così che è da ritenere che l’uso di detta espressione sia il frutto di una mera imprecisione nella stesura della disposizione. In secundis, la norma appare inserirsi in un coerente e complessivo disegno del legislatore, teso ad affidare ad ogni giudice i poteri inerenti all’esecuzione delle proprie sentenze (oltre alla norma di cui ci si occupa, v. d.lgs. n. 546/1992, art. 70, per il giudice tributario). Talché ipotizzare un’attribuzione parziale di detta competenza solo per la Corte dei conti si risolverebbe in una invero singolare e illogica eccezione a tale ormai definito orientamento legislativo”.

La Sezione territoriale ha, inoltre, osservato che “l’attribuzione (pacifica) al giudice ordinario della giurisdizione in tema di esecuzione forzata (ogni qual volta ne ricorrano i presupposti, ex art. 474 c.p.c.) di una sentenza che rechi condanna della P.A. al pagamento di una somma di denaro, come nel caso di specie, non implica, a detta della stessa Corte di cassazione, che nella medesima situazione non sussista la giurisdizione del giudice dell’ottemperanza, essendo nella facoltà dell’interessato di scegliere, per la realizzazione del suo credito, fra le due azioni”, citando in proposito “Corte di cassazione, Sezioni unite, 9 marzo 1981, n. 1299 e, nello stesso senso, più di recente, n. 7578 del 31 marzo 2006”.

La Sez. I d’appello, con sentenza n. 416/2011, ha annullato la citata sentenza, osservando che “dall’analisi della norma dell’art. 10 in questione, non possono sussistere dubbi circa la sua riferibilità – anche se nessuna indicazione esplicita sembrerebbe, prima facie, essere contenuta nel testo – alle sole sentenze in materia pensionistica. … L’inciso – quello secondo cui è possibile attivare il giudizio d’ottemperanza in questione solo “per l’esecuzione delle sentenze emesse dalle Sezioni medesime e non sospese dalle Sezioni giurisdizionali centrali d’appello della Corte dei conti” –fa venir meno ogni possibile dubbio in proposito. … Il dato letterale appare incontrovertibile e non superabile in alcun modo. In conseguenza di quanto innanzi, va affermato con certezza che per le sole sentenze in materia pensionistica – le uniche, cioè, di per sé esecutive e suscettibili di sospensione, o meno, in sede d’appello – è attivabile lo strumento normativo di cui all’art. 10, comma 2 l. n. 205/2000. E tale soluzione ermeneutica si presenta anche come l’unica davvero coerente con il complesso normativo che regolamenta il contenzioso giuscontabile. In proposito, infatti, vanno anche condivise le considerazioni avanzate da parte dell’appellante Procuratore, il quale correttamente evidenzia la differente natura del giudizio di ottemperanza (che ha finalità essenzialmente cognitiva, e solo eventualmente esecutiva, con la p.a. che può comunque scegliere, nei limiti della discrezionalità amministrativa, i modi concreti di esecuzione), rispetto al giudizio di esecuzione, con il quale il giudice è chiamato esclusivamente ad accertare l'esistenza ed il contenuto del titolo esecutivo e a dirigere il procedimento diretto alla soddisfazione delle ragioni del creditore; e non a caso, tale giudizio è affidato alla cognizione del Giudice civile. Anche per tali ragioni, dunque, è infondata, e foriera anzi di pericolose confusioni, l’affermazione della Sezione territoriale, secondo la quale i due rimedi sarebbero perfettamente alternativi e utilizzabili (par di capire) ad libitum da parte degli interessati: nulla di più errato”.

La sentenza della Sezione d’appello suscita notevoli perplessità, sia nella parte in fatto che nella parte in diritto.

Nella parte in fatto appare singolare la circostanza che, a fronte della diffusa esposizione delle tesi del procuratore regionale, alla sentenza impugnata siano dedicate poche righe (in tutto sei righe), mentre addirittura non è dato comprendere l’opinione espressa dal procuratore generale, in virtù del mero richiamo a conclusioni scritte di contenuto ignoto.

Ma, a prescindere da valutazioni di forma, i maggiori dubbi riguardano l’iter interpretativo accolto nella sentenza d’appello che si è fermato al “dato letterale”, peraltro neppure di contenuto univoco, tanto è vero che, nella stessa sentenza, non può disconoscersi che “nessuna indicazione esplicita sembrerebbe, prima facie, essere contenuta nel testo”, mentre al contrario, come osservato dalla Sezione territoriale, “l’argomento appare debole, ove si consideri l’evidente intento del legislatore, manifestato dalla ripetizione, nel secondo comma, della medesima espressione usata nel primo comma (“esecuzione delle sentenze non sospese”), di conferire alle sezioni regionali della Corte dei conti lo stesso potere attribuito ai tribunali amministrativi regionali di giudicare in ordine all’ottemperanza delle proprie sentenze esecutive, quand’anche non ancora passate in giudicato”.

La Sezione d’appello ha trascurato la ratio della norma, evidenziata dalla Sezione territoriale, secondo cui la norma appare inserirsi in un coerente e complessivo disegno del legislatore, teso ad affidare ad ogni giudice i poteri inerenti all’esecuzione delle proprie sentenze (a parte i limiti per il g.o. ex artt. 4 e 5 l. n. 2248/1865 all. E), talché ipotizzare un’attribuzione parziale di detta competenza solo per la Corte dei conti si risolverebbe in una invero singolare e illogica eccezione a tale ormai definito orientamento legislativo.

L’interpretazione restrittiva accolta in appello porterebbe effettivamente all’aberrante conclusione che il legislatore ha riservato un trattamento discriminatorio nei confronti del solo giudice contabile, negando la pienezza di poteri riservati a tutti i giudici, da ultimo ai giudici tributari, in ordine all’ottemperanza delle relative sentenze.

Appare singolare, infine, il disconoscimento puro e semplice di una giurisprudenza ultratrentennale della Cassazione a Sezioni unite, puntualmente richiamata dalla Sezione territoriale, tacciata dal giudice d’appello come “nulla di più errato” e “foriera di pericolose confusioni”.

 Nella sentenza annullata si è affermato che è “nella facoltà dell’interessato di scegliere, per la realizzazione del suo credito, fra le due azioni” (ottemperanza ed esecuzione forzata) e si è fatto riferimento a “Corte di cassazione, Sezioni unite, 9 marzo 1981, n. 1299 e, nello stesso senso, più di recente, n. 7578 del 31 marzo 2006”.

Vediamo, quindi, che cosa ha statuito in materia da oltre trenta anni la Cassazione con la citata sentenza n. 1299/1981:

A fronte di una pronuncia giudiziale che condanna la pubblica amministrazione al pagamento di una somma di denaro, al creditore, in ipotesi di inerzia della debitrice, oltre alla possibilità di esperire l'esecuzione forzata per espropriazione, davanti al giudice ordinario e secondo le norme del codice di rito, deve riconoscersi pure la possibilità, in via alternativa od anche cumulativa, di promuovere giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, per conseguire un intervento di quest'ultimo in ordine alle scelte di atti ed operazioni, a tutela delle proprie posizioni di interesse legittimo.

Tale indirizzo giurisprudenziale è stato costantemente seguito dalla Cassazione (fra le tante, vedi SS.UU. n. 1074/88, 8547/93, 1593/94, 7014/95, 7578/06, 19345/2008 ecc.).

E’ sufficiente riportare la massima delle due ultime sentenze delle Sezioni unite, la prima espressamente citata dalla Sezione territoriale:

Sent. n. 7578/2006:

Presupposto del processo di esecuzione civile è l'esistenza di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile, senza che possano venire in considerazione profili cognitori per l'accertamento dell'esistenza di un'obbligazione, con la conseguenza che in punto di giurisdizione non si può profilare altro giudice competente sulla materia e che quando sia posta in esecuzione una sentenza di condanna della P.A., ancorché pronunciata da un giudice speciale, viene introdotta una controversia avente per oggetto un diritto soggettivo, rimessa alla competenza del giudice ordinario. Né rileva che sia anche possibile la proposizione del giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, trattandosi di rimedio complementare, che il creditore può alternativamente esperire.

Sent. n. 19345/2008:

In tema di crediti nascenti da rapporto di impiego pubblico giudizialmente riconosciuti, ai fini dell'attuazione di un giudicato amministrativo è consentito adire il giudice ordinario, in alternativa al ricorso al giudizio di ottemperanza dinanzi al giudice amministrativo, soltanto in sede esecutiva, nell'ipotesi in cui sia possibile procedere ad esecuzione forzata per la presenza di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile.

La Sezione d’appello non ha tenuto conto neppure della consolidata (da quasi quaranta anni) giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia, in perfetta aderenza con quella citata della suprema Corte:

Sent. n. 480/2002: “Come la giurisprudenza amministrativa ha da lunghissimo tempo precisato (cfr. Cons. Stato, Ad pl., 9 marzo 1973 n. 1), l'esecuzione forzata ordinaria, secondo le norme del codice di rito, e l'esecuzione in sede amministrativa, con il ricorso per l'ottemperanza, sono concorrenti, nel senso che entrambe possono essere esperite, anche contestualmente, affinché la pretesa creditoria trovi puntuale adempimento in via coattiva”. Idem sent. n. 2161/2004, n. 4126/2004, ecc.

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In conclusione, non può che esprimersi l’auspicio che venga doverosamente riconosciuta alla Corte dei conti la stessa potestà giudicante in tema di ottemperanza riconosciuta indistintamente a tutti gli altri giudici, evitando una discriminazione giuridicamente incomprensibile e lesiva dell’immagine della Corte stessa.

Il vulnus arrecato dalla Sezione d’appello, su impulso della Procura, alla giurisdizione della Corte dei conti appare ancor più evidente se si tiene conto della giurisprudenza della Corte costituzionale sulla previsione della fase esecutiva come strettamente connessa con la stessa funzione giurisdizionale”.

Scrive la Consulta:

“Il contenuto tipico della pronuncia giurisdizionale è proprio quello di esprimere la volontà concreta della legge o, più esattamente, la "normativa per il caso concreto" che deve essere attuata nella vicenda sottoposta a giudizio. Tutto ciò comporta innegabilmente che, una volta intervenuta una pronuncia giurisdizionale la quale riconosca come ingiustamente lesivo dell'interesse del cittadino un determinato comportamento dell'amministrazione, o che detti le misure cautelari ritenute opportune e strumentali all'effettività della tutela giurisdizionale, incombe sull'amministrazione l'obbligo di conformarsi ad essa; ed il contenuto di tale obbligo consiste appunto nell'attuazione di quel risultato pratico, tangibile, riconosciuto come giusto e necessario dal giudice. Ma proprio in base al già ricordato principio di effettività della tutela giurisdizionale deve ritenersi connotato intrinseco della stessa funzione giurisdizionale, nonché dell'imprescindibile esigenza di credibilità collegata al suo esercizio, il potere di imporre, anche coattivamente in caso di necessità, il rispetto della statuizione contenuta nella pronuncia e, quindi, in definitiva, il rispetto della legge stessa. Una decisione di giustizia che non possa essere portata ad effettiva esecuzione altro non sarebbe che un'inutile enunciazione di principi, con conseguente violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, i quali garantiscono il soddisfacimento effettivo dei diritti e degli interessi accertati in giudizio nei confronti di qualsiasi soggetto; e quindi anche nei confronti di qualsiasi atto della pubblica autorità, senza distinzioni di sorta” (sent. Corte cost. n. 419/95 e 435/95).

Alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale può senz’altro affermarsi che l’interpretazione della Sezione territoriale, a fronte della dizione letterale della norma non priva di perplessità, appare perfettamente in linea con l’intenzione del legislatore “tesa ad affidare ad ogni giudice i poteri inerenti all’esecuzione delle proprie sentenze”, nella specie, in materia di liquidazione di spese, dando così piena attuazione ai principi affermati dalla Consulta secondo cui “la previsione di una fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia” costituisce “connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione giurisdizionale”.

Per i suesposti motivi, l’interpretazione anzidetta, in linea con i principi ermeneutici comunemente accolti e costituzionalmente orientata, dovrebbe trovare conferma nelle nuove decisioni che verranno emesse in materia, lasciando così isolata una sentenza d’appello che non può in alcun modo essere condivisa.

Antonio VETRO

(Presidente on. Corte dei conti)

 

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