La sentenza n. 303 del 09 novembre
2011 emessa dalla Corte Costituzionale, si è espressa in
merito alla questione di legittimità costituzionale
dell’Art. 32, commi 5,6 e 7, della legge 04 novembre
2010, n. 183, promossi dalla Corte di Cassazione con
ordinanza del 28/01/2011 e dal Tribunale di Trani con
ordinanza del 20/12/2010, in riferimento agli art.li
3,4,11,24,101,102,111e 117 della Costituzione .
Il comma 5 dell'Art. 32 stabilisce
che, nel casi in cui il contratto di lavoro precario si
converta a tempo indeterminato a causa della illegittima
apposizione del termine, il giudice condanna il datore
di lavoro al risarcimento in favore del lavoratore
stabilendo una indennità "onnicomprensiva" nella misura
compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12
mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto
percepita dal lavoratore.
Il comma 6 dello stesso Articolo,
dimezza questa indennità in presenza di contratti ovvero
accordi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati
con le organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale, che prevedano
l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori
già occupati con contratto a termine nell'ambito di
specifiche graduatorie.
Il comma 7 invece, precisa doversi
applicare i commi testé citati a tutti i giudizi,
compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore
della legge ( 24 novembre 2010 ).
Tale sentenza nell’attuale panorama
giurisprudenziale, assume una importanza fondamentale,
in quanto consentirà la ripresa di numerosi processi
civili, i quali sono stati sospesi o rinviati in attesa
della pronuncia della stessa Consulta su tale delicata
questione.
Il Giudice delle Leggi, non si è
limitato a dichiarare la legittimità costituzionale
dell’Art. 32 del Collegato Lavoro, ma con una pronuncia
interpretativa di rigetto, ne ha esplicato le
motivazioni, delineando limiti e ambito di applicazione
dello stesso collegato lavoro.
L’Ordinanza della Corte di
Cassazione
Con ordinanza interlocutoria n.
2112 del 28/01/2011, la Suprema Corte di Cassazione
sollevava questione di legittimità costituzionale dei
commi 5,6,7 dell'Art. 32 della Legge 183/2010.
A parere della S.C., tale articolo
di legge, si pone in chiaro contrasto con l'orientamento
consolidato della giurisprudenza.
In relazione alla censura formulata
al comma 5 dell'Art. 32, la S.C. non ritiene possibile
quantificare economicamente ed in via preventiva, un
danno che è futuro ed incerto, determinando il suo
ammontare facendo riferimento all'indennità prevista
dall'Art.8 della legge 15 luglio 1966 n. 604. Inoltre a
parere della Corte, una indennità probabilmente
sproporzionata per difetto rispetto all'ammontare del
danno, può indurre il datore di lavoro a persistere
nell'inadempimento.
Il rimedio introdotto dal
legislatore, è ritenuto dai Giudici della Cassazione, in
contrasto con il principio affermato da una secolare
dottrina processualista ( recepita dagli art.li 24 Cost.
e 111 Cost. II comma ), la quale esige l'esatta, per
quanto materialmente possibile, corrispondenza tra la
perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo
ed il rimedio ottenibile in sede giudiziale.
Il limite risarcitorio introdotto
con la legge 183/2010, sarebbe anche in contrasto con
l'Art. 117 Cost., comma 1, per violazione dell'obbligo
assunto dall'Italia con la sottoscrizione e ratifica
della Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo, il cui
art. 6 comma 1, sancendo il diritto di ogni persona ad
un giusto processo, impone al potere legislativo, di non
intromettersi nell'amministrazione della giustizia allo
scopo di influire sulla decisione di una singola
controversa o su un gruppo di esse. Tale ingerenza,
sarebbe giustificata solo da ragioni imperative di
interesse generale ( Corte Cost. n. 311 del 2009 e
giurisprudenza della Corte EDU).
Tali ragioni, sono ricondotte ad
ipotesi tassative espressamente indicate dalle sentenze
della Corte EDU, e di fatto non contemplate nel corpus
della legge 183/2010.
Nella ordinanza di rimessione, i
Giudici di legittimità ribadiscono ulteriormente che, le
ragioni di opportunità economica, non possono essere
considerate ragioni imperative o di interesse generale.
Ravvisa la Corte altresì, la
violazione della Direttiva n.1999/70 CE, la quale
obbliga gli Stati membri, di prevenire l'utilizzo
abusivo dei contratti a termine, così come da
interpretazione costante della giurisprudenza
comunitaria.
Motivazioni della Corte
Costituzionale
La Corte Costituzionale, investita
dalle autorevoli richieste di censure, argomenta in
termini generali, precisando che la norma scrutinata,
non si limita a forfettizzare il risarcimento del danno
dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine,
ma, in via prevalente, assicura a quest'ultimo, la
garanzia di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato,
considerando quest'ultimo, la protezione più intensa che
possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario.
A parere della Corte dunque, la
normativa impugnata risulta nell'insieme adeguata a
realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti
interessi, nonché a limitare il ricorso abusivo del
rapporto di lavoro a termine.
Sull'applicabilità dell'Art. 32
della legge 183/2010 nel settore del pubblico impiego
Commento
A parere dello scrivente, si
appalesa la necessità di verificare e dimostrare la
inapplicabilità della disciplina introdotta con l'Art.
32 della legge 183/2010 a tutti i settori della Pubblica
Amministrazione, al fine di evitare che le stesse P.A.,
le quali abbiano abusato dei contratti a termine e di
conseguenza abbiano violato la Direttiva Comunitaria
1999/70 CE, possano usufruire della parziale sanatoria
introdotta dal legislatore con la novella del 2010.
L'Art. 32 della legge 183/2010, non
brilla certo per chiarezza espositiva.
Dalla lettura del comma 3 lettera
d) dell'art. 32, tali disposizioni si applicano
all'azione di nullità del termine apposto al contratto
di lavoro ai sensi del decreto legislativo 368/2001 e
successive modificazioni.
La lettera b) del comma 4 dell'Art.
32 della legge 183/2010, applica tale normativa ai
contratti di lavoro a termine, stipulati anche in virtù
di leggi previgenti al decreto legislativo 06 settembre
2001 n. 368 e già conclusi in vigore della presente
legge.
Dal combinato disposto dei citati
comma 3 lettera d) dell'Art. 32, e dal comma 4 lettera
b) dello stesso articolo, sembrerebbe prima facie, che
il limite risarcitorio onnicomprensivo stabilito ex ante
dal legislatore, si applicherebbe a tutti i rapporti di
lavoro a termine, a prescindere dalla natura e dal tipo
del rapporto di lavoro, includendo pertanto tutti i
rapporti di lavoro precari precedenti o successivi al
D.lgs. 368/2001, ivi inclusi quelli appartenenti al
settore pubblico.
Nel dubbio interpretativo, onde
evitare applicazioni speculative della norma impugnata,
contrarie invece alla sua autentica ratio, riscontrando
l'orientamento della stessa Corte Costituzionale
espresso con sentenza n. 303/2011, è necessario fare
chiarezza e circoscrivere con certezza l'ambito di
applicazione dell'Art. 32 della legge 183/2010,
argomentando sulle ragioni che ostano ad includere nella
fattispecie oggetto di attenzione, il rapporto di lavoro
dei dipendenti pubblici precari.
Innanzi tutto si rileva che, la
fattispecie sottoposta al controllo di legittimità
costituzionale da parte dei Giudici delle leggi, trae
origine da lavoratori a termine assunti dall’Ente Poste,
i quali erano stati dismessi dal servizio, pertanto
trattasi di dipendenti appartenenti al settore privato.
L'Art. 32 della legge 183/2010, si
riferisce espressamente ai rapporti di lavoro
disciplinati dal D.lgs. 368/2001, e qualora il
legislatore avesse voluto disciplinare anche le
conseguenze risarcitorie dei lavoratori illegittimamente
precari delle pubbliche amministrazioni, avrebbe incluso
nell'Art. 32, le forme contrattuali atipiche utilizzate
dalla P.A..
La legge 183/2010, quando lo ha
ritenuto opportuno, ha modificato citandolo, il D.lgs.
165/2001 ; lo ha fatto sostituendo il comma 2 dell'Art.
57 del D.lgs. 165/2001, in virtù del quale : " Le P.A.,
adottano tutte le misure per attuare le direttive
dell’Unione Europea in materia di pari opportunità,
contrasto alle discriminazioni ed alla violenza morale e
psichica, sulla base di quanto disposto dalla Presidenza
del Consiglio dei Mnistri - Dipartimento della Funzione
pubblica ".
Dalla precisa lettura della
sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011, si
evince chiaramente che "lo Stato datore di lavoro
pubblico a termine.....omissis, non figura neppure tra i
destinatari delle disposizioni censurate ".
Ed ancora nella sentenza n.
303/2011, la Corte Costituzionale ribadisce che "..la
normativa de qua, escluso ogni vantaggio mirato per lo
Stato od altro soggetto pubblico...omissis.. ".
Seguendo l'iter logico giuridico
seguito dalla stessa Corte, qualora fosse ritenuto
applicabile l'Art. 32 del collegato lavoro ai dipendenti
pubblici, si concretizzerebbe uno scolastico esempio di
violazione dell'Art. 6 comma uno della Convenzione
Europea dei Diritti dell'Uomo, per ingiustificata
ingerenza dello Stato nell' amministrazione della
giustizia in cui è evidentemente parte, anche tramite le
diverse pubbliche amministrazioni in cui esso si
articola.
Per tali motivi, è evidente
pertanto che, le norme introdotte nell'Art. 32 della
legge 183/2010, nel dettato interpretativo della stessa
Corte Costituzionale, si applicano esclusivamente nei
confronti del datore di lavoro privato.
Ed ancora, l'azione di nullità del
termine apposto al contratto di lavoro, è chiaramente
un' azione imprescrittibile e il lavoratore pubblico, ha
sempre potuto prolungare sine die il tempo dell'azione
di nullità, e per dieci anni ( art. 2946 c.c. ) quello
dell'azione risarcitoria.
Con l'entrata in vigore della legge
183/2010, è stato introdotto un termine di decadenza per
l'esercizio dell'azione, così come espressamente
disciplinato dall'Art. 32 comma 3 lettera d.
Tale limite temporale apposto a
pena di decadenza dell'azione, sarebbe chiaramente un
termine in danno dei lavoratori pubblici, contrastando
altresì la giurisprudenza costante in materia, la quale
più volte ha sottolineato la necessità, di differire la
decorrenza del termine prescrizionale, al momento della
certa esistenza della stabilità del rapporto di lavoro,
e tanto perché solo in tale data, si presume cessi la
situazione psicologica di timore del lavoratore ( Cass.
S.U. 05/03/1991 n. 2334, Cass. 12/01/2002 n. 325, Cass.
22/06/2004 n. 11644, Cass. 13/12/2004 n. 23227 ). La
Cassazione ha espressamente motivato il differimento del
termine prescrizionale, giustificato dall’evidente metus
del lavoratore, di perdere l’occupazione nella
successione di contratti illegittimi ( Cass. 03/07/2003
n. 10542, Cass. 21/05/2007 n. 11736 ).
Numerosi sono i casi in cui le
P.A., hanno abusato dei contratti a termine, anche nei
confronti di quei lavoratori vincitori di regolare
concorso pubblico.
E' il caso della procedura di
infrazione n.2007/4734 ( Abuso dei contratti di
formazione e di lavoro a tempo determinato ) nei
confronti dello Stato Italiano, a seguito della messa in
mora ex. Art. 226 TCE.
Nel caso di specie, la Commissione
Europea accertava l’abuso da parte dello Stato Italiano
e della Pubblica Amministrazione, per aver
illegittimamente prorogato “sine die” il contratto di
lavoro di un lavoratore pubblico vincitore di regolare
concorso.
I limiti e le modalità risarcitorie
indicate dal collegato lavoro, non potrebbero in casi
analoghi a quest'ultimo citato, ristorare in maniera
adeguata i lavoratori..
L'espressione " onnicomprensiva "
adoperata dal legislatore e riferita all'entità massima
del danno risarcibile, di cui al comma 5 dell'Art. 32
della legge 183/2010, acquista significato solo
escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore,
indennitario o risarcitorio.
E' fin troppo evidente che l'entità
del danno così come espressamente circoscritta dalla
Legge, in caso di illegittimità del termine apposto al
contratto di lavoro, elimina tout court una serie di
voci risarcitorie che nel pubblico impiego hanno una
valenza particolare.
Infatti, se fosse applicato tale
limite risarcitorio, i lavoratori pubblici, non
potrebbero ottenere il ristoro economico per non aver
potuto godere di una serie di istituti contrattuali,
riconosciuti per tantissimi anni solo ai lavoratori
assunti a tempo indeterminato.
Inoltre, la fedele applicazione dei
principi contenuti nell'Art. 32 della legge 183/2010 nel
settore del pubblico impiego, renderebbero vane le
legittime richieste di risarcimento del danno da perdita
di chance, per quei lavoratori, i quali sono stati per
decenni esclusi dalle procedure concorsuali interne, in
quanto illegittimamente precari.
Tale assunto infine, contrasterebbe
anche con l'orientamento costante della giurisprudenza
della Corte di Giustizia dell' Unione Europea, in virtù
del quale anche i lavoratori precari, hanno diritto a
partecipare alle procedure concorsuali interne, e non
possono in alcun modo essere discriminati rispetto ai
lavoratori assunti a tempo indeterminato. Si veda per
tutte la recente sentenza della Corte di Giustizia
(Seconda Sezione ) n. C - 177/10.
Dott. Giulio Greco
SENTENZA N. 303
ANNO 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente:
Alfonso QUARANTA; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Franco
GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE,
Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Alessandro
CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI,
Marta CARTABIA, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei
giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 32,
commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183
(Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di
riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e
permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per
l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure
contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di
lavoro pubblico e di controversie di lavoro), promossi
dalla Corte di cassazione con ordinanza del 28 gennaio
2011 e dal Tribunale di Trani con ordinanza del 20
dicembre 2010 iscritte ai nn. 62 e 86 del registro
ordinanze 2011 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica nn. 16 e 21, prima serie speciale,
dell’anno 2011. Visti gli atti di costituzione di Poste
Italiane s.p.a., di C. C. e di S. G., nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 4 ottobre 2011 il
Giudice relatore Luigi Mazzella; uditi gli avvocati
Arturo Maresca e Roberto Pessi per Poste Italiane s.p.a.,
Sergio Vacirca e Vittorio Angiolini per C. C., Domenico
Carpagnano e Vincenzo De Michele per S. G. e l’avvocato
dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente del
Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – La Corte
di cassazione, con ordinanza del 28 gennaio 2011, ha
sollevato questioni di legittimità costituzionale, con
riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 della
Costituzione, dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge
4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia
di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di
congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori
sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi
all’occupazione, di apprendistato, di occupazione
femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e
disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro). Tali disposizioni prevedono
quanto segue: il comma 5, che nei casi di conversione
del contratto a tempo determinato, il giudice condanna
il datore di lavoro a risarcire il lavoratore in ragione
di un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa
tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della legge 15
luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti
individuali); il comma 6, che, in presenza di contratti
collettivi di qualsiasi livello, purché stipulati con le
organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale, i quali contemplino
l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori
già occupati con contratto a termine nell’àmbito di
specifiche graduatorie, il limite massimo della suddetta
indennità è ridotto alla metà; il comma 7, che tali
previsioni trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi
compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore
della predetta legge. 1.1. – Riferisce la Corte
rimettente che, con ricorso al Tribunale di Pisa, il
signor C. C. aveva affermato l’illegittimità del termine
di durata apposto al contratto con cui la S.p.A. Poste
Italiane lo aveva assunto al lavoro, nonché la
conseguente conversione del negozio in contratto a tempo
indeterminato, chiedendo che la società, avvalsasi del
termine ed estromessolo dall’azienda, fosse condannata a
riammetterlo in servizio ed a risarcirgli il danno da
sospensione del rapporto di lavoro; che, rigettata la
domanda in primo grado, la Corte d’appello di Firenze,
in accoglimento del gravame del lavoratore, aveva
accertato la sussistenza di un contratto a tempo
indeterminato e condannato la società a riammetterlo in
servizio ed a risarcirgli il danno, pari alle
retribuzioni con accessori, a partire dal 26 settembre
2002, ossia dal giorno in cui egli aveva offerto le
proprie prestazioni; che contro detta sentenza la
società aveva proposto ricorso per cassazione. Entrata
nelle more del giudizio in vigore la legge n. 183 del
2010, la Corte rimettente opina di dover applicare la
nuova disciplina in materia di contratto a tempo
determinato delineata dalle disposizioni impugnate ivi
contenute, in quanto ritenute riferibili a tutti i
giudizi in corso, di qualunque grado. Sicché, la
sentenza impugnata dovrebbe a suo avviso essere cassata
con rinvio, onde consentire al giudice di merito di
calcolare l’indennità spettante in base alla novella, in
misura certamente inferiore a quella dovuta ai sensi
della normativa previgente, ossia dal 26 settembre 2002
fino alla riammissione al lavoro, nella specie – stando
agli atti – non ancora avvenuta. Donde la rilevanza
delle questioni di legittimità costituzionale dei commi
5 e 6 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010. 1.2. –
La Corte di cassazione ritiene, altresì, non
manifestamente infondate le questioni di legittimità
delle suddette norme. In primo luogo, per denunciato
contrasto di esse con gli artt. 3, secondo comma, 4, 24
e 111 Cost., perché la previsione di un’indennità
circoscritta ad alcune mensilità di retribuzione sarebbe
irragionevolmente contenuta rispetto all’ammontare del
danno sopportato dal prestatore di lavoro a causa
dell’illegittima apposizione del termine al contratto,
che aumenta con il decorso del tempo, assumendo
dimensioni imprevedibili, in quanto pari almeno alle
retribuzioni perdute dalla data dell’inutile offerta
delle proprie prestazioni fino a quella, futura ed
incerta, dell’effettiva riammissione in servizio. Con il
risultato che la liquidazione eventualmente
sproporzionata per difetto rispetto all’ammontare del
danno sofferto dal lavoratore indurrebbe il datore di
lavoro a persistere nell’inadempimento tentando di
prolungare il giudizio oppure sottraendosi
all’esecuzione della sentenza di condanna, non
suscettibile di realizzazione in forma specifica. Con
ciò vanificando il diritto del cittadino al lavoro ed
arrecando grave nocumento all’effettività della tutela
giurisdizionale, che esige l’esatta, per quanto
materialmente possibile, corrispondenza tra la perdita
conseguita alla lesione del diritto soggettivo ed il
rimedio ottenibile in sede giudiziale. Ancora in
riferimento all’art. 4 Cost., atteso che la sproporzione
fra la tenue indennità ed il danno, che aumenta con la
permanenza del comportamento illecito del datore di
lavoro, sembrerebbe contravvenire all’accordo quadro sul
lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 ed
allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE
(direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES,
UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato), come
interpretato dalla giurisprudenza comunitaria. 1.3. –
Con riguardo all’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione all’art. 6, primo comma, della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva
in Italia con legge 5 agosto 1955, n. 848, la Corte
rimettente deduce che le disposizioni censurate, dettate
da motivi di opportunità economica, realizzerebbero
un’intromissione del potere legislativo
nell’amministrazione della giustizia, volta ad influire
sulla decisione di una singola controversia o su un
gruppo di esse, non giustificata da ragioni “imperative”
di interesse generale, né da esigenze parificatrici in
rapporti di lavoro pubblico, né dall’incerta
interpretazione o da imperfezioni tecniche delle norme
di diritto comune in tema di risarcimento del danno
subìto dal lavoratore, come costantemente interpretate
dalla giurisprudenza lavoristica. 2. – Con memoria
depositata il 3 maggio 2011 si è costituita la società
Poste Italiane, ricorrente nel giudizio principale,
chiedendo la dichiarazione di manifesta inammissibilità
ovvero di non fondatezza delle questioni di legittimità
costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione. 2.1.
– In punto d’inammissibilità, la parte privata evidenzia
il difetto di rilevanza delle questioni in esame, in
quanto poste in via puramente ipotetica ed in relazione
a norme destinate a trovare applicazione solo nell’àmbito
del giudizio rescissorio avanti alla competente Corte
d’appello. 2.2. – Nel merito, all’asserito contrasto
delle norme censurate con i princìpi di ragionevolezza e
di effettività del rimedio giurisdizionale, espressi
negli artt. 3, secondo comma, 24 e 111 Cost., nonché con
il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost., la
predetta società obietta che il legislatore, in un
ragionevole bilanciamento ex ante degli interessi delle
parti, per un verso, ha incentrato la garanzia del
contraente debole sulla conversione del rapporto, per
altro verso, ha rimodulato la concorrente tutela
risarcitoria secondo un criterio equilibrato e
ragionevole, già sperimentato per il caso di tutela
obbligatoria del posto di lavoro. Quanto all’asserita
violazione dell’art. 117, primo comma Cost., la società
Poste Italiane eccepisce, in primis, l’inammissibilità
della questione, poiché non sollevata rispetto al comma
7 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, ed argomenta
per la sua infondatezza in base alla giurisprudenza
della Corte di Strasburgo sull’art. 6 CEDU, che non
vieta in assoluto qualunque ingerenza del legislatore,
ma stigmatizza l’alterazione della “parità delle armi”
nei giudizi in corso solo quando lo Stato utilizzi il
potere legislativo per volgere a suo favore l’esito di
una controversia di cui esso sia parte. Mentre la
riforma in oggetto sarebbe di carattere generale, e
dunque non già diretta ad interferire sulla decisione di
specifiche controversie, ma a parificare il trattamento
di situazioni eguali a prescindere dalla data di
introduzione del giudizio. 3. – Con memoria depositata
il 28 aprile 2011 si è costituito il signor C. C.,
lavoratore resistente nel giudizio principale, chiedendo
l’accoglimento delle questioni in esame. Ritenutane la
rilevanza alla luce delle puntuali allegazioni del
giudice a quo, sottolinea l’irragionevolezza delle
disposizioni di legge censurate, per la contraddizione
logica e giuridica tra il mantenimento della conversione
del rapporto a tempo indeterminato e l’esclusione della
disciplina risarcitoria di diritto comune, di
applicazione direttamente conseguente alla prima.
Evidenzia, inoltre, la violazione dei limiti di
compatibilità costituzionale dello scostamento della
disciplina dell’illecito civile dai princìpi del diritto
comune, in contrasto con gli artt. 3, 4, 24, 111 e 117
Cost., e l’inidoneità del rimedio apprestato dalla norma
censurata, con un’indennità modellata su quella di cui
all’art. 8 della legge n. 604 del 1966, ad offrire
adeguata tutela ad una generalità di lavoratori versanti
in situazioni anche molto diverse tra loro. 4. – Con
atto depositato il 3 maggio 2010 è intervenuto nel
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, instando per la dichiarazione di manifesta
inammissibilità e/o non fondatezza delle questioni. 4.1.
– In via preliminare, la difesa dello Stato: a)
evidenzia che l’oggetto del presente giudizio di
legittimità costituzionale non sarebbe costituito in
alcun modo dalla disposizione di cui al comma 7
dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 e ne deduce l’inconferenza
delle questioni di diritto intertemporale e di
applicabilità ratione temporis delle disposizioni di cui
ai commi 5 e 6 dell’articolo succitato; b) eccepisce la
manifesta inammissibilità delle proposte questioni di
legittimità (in riferimento a tutti i dedotti parametri
di costituzionalità) per difetto del requisito della
rilevanza in relazione al giudizio a quo. Ciò, in quanto
il giudice rimettente avrebbe affermato apoditticamente
la violazione delle invocate disposizioni costituzionali
determinata dall’applicazione dei criteri di
quantificazione di cui ai commi 5 e 6 del medesimo art.
32, senza suffragare in alcun modo le proprie deduzioni
con valutazioni relative alle peculiarità del caso di
specie. 4.2. – Inoltre, a sostegno della non fondatezza
delle questioni sollevate, la difesa dello Stato pone in
risalto come i limiti dell’indennità predeterminati dal
legislatore tengano conto – a suo avviso, in un
equilibrato bilanciamento degli interessi – del
vantaggio per il lavoratore derivante dal mantenimento
della regola di conversione del rapporto, immune da
decadenze di sorta, e della intollerabile incertezza
sull’ammontare del risarcimento registratasi nella
prassi. Sarebbe parimenti infondata, per le medesime
ragioni, la denuncia della lesione dell’art. 4 Cost., in
quanto guida programmatica per il legislatore, ma non
tale da condizionarlo nelle scelte “tecniche”. Quanto
poi alla censura riferita all’art. 117 Cost., il
richiamo all’art. 6 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo non sarebbe pertinente all’ipotesi in
esame, trattandosi di contenziosi tra privati cittadini
ed aziende private. Né la citata norma della CEDU
potrebbe essere interpretata nel senso
dell’impossibilità per il legislatore nazionale di
disporre norme con efficacia retroattiva. Peraltro, la
condivisa applicabilità delle norme censurate,
innovative in via generale ed astratta della disciplina
del contratto a termine, sia ai giudizi in corso, che a
quelli in divenire, sarebbe valsa a superare le
criticità rilevate dalla Corte costituzionale in ordine
al previgente art. 4-bis del decreto legislativo 6
settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva
1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a
tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal
CES), avuto riguardo alla discriminazione di situazioni
da esso realizzata in base alla circostanza, del tutto
accidentale, della data di pendenza della lite (sentenza
n. 214 del 2009). 5. – Il Tribunale di Trani, in
funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 20
dicembre 2010, ha sollevato questioni di legittimità
costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 11, 24,
101, 102, 111 e 117 Cost., dell’art. 32, commi 5, 6 e 7,
della legge n. 183 del 2010. 5.1. – Riferisce il giudice
rimettente che, con domanda proposta in data 11 agosto
2010, il lavoratore G. S. aveva convenuto in giudizio la
S.p.A. Poste Italiane, chiedendo l’accertamento
dell’illegittimità del termine apposto al contratto di
lavoro sottoscritto il 5 aprile 2007; che nella pendenza
del giudizio, il 24 novembre 2010, era entrata in vigore
la legge n. 183 del 2010; che la società convenuta aveva
invocato l’applicazione dell’art. 32 della legge citata,
prevedente una forfetizzazione dal danno risarcibile al
lavoratore «nei casi di conversione del contratto a
tempo determinato», ivi incluso il comma 6, «in quanto»
avrebbe «stipulato (e» mantenuto «in essere) accordi
sindacali a livello nazionale che prevedono l’assunzione
anche a tempo indeterminato di lavoratori già occupati
con contratto a termine nell’àmbito di specifiche
graduatorie»; di avere così pronunciato una sentenza
parziale, con cui aveva dichiarato «la nullità del
termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto
dalle parti in data 5 aprile 2007» e l’instaurazione tra
le parti di un rapporto a tempo indeterminato dalla data
di assunzione, ordinando «alla società di riammettere
immediatamente in servizio il lavoratore», nonché, al
contempo, un’ordinanza in pari data, con cui, «impregiudicata
ogni ulteriore valutazione», aveva concesso «alle parti,
ex art. 32, comma 7, del c.d. “Collegato Lavoro”», un
termine per l’integrazione della domanda e delle
eccezioni in ordine all’ammontare del risarcimento
dovuto, rinviando per la discussione sui restanti
profili alla udienza del 20 dicembre 2010. 5.2. – Ad
avviso del giudice rimettente le nuove disposizioni
contrastano, anzitutto, con l’art. 3 Cost., sotto i
profili della ragionevolezza e del divieto di
discriminazioni. Sotto il primo profilo, perché la
forfetizzazione del risarcimento operata mediante la
liquidazione di una modesta indennità “onnicomprensiva”,
tale da monetizzare persino il diritto indisponibile
alla regolarizzazione contributiva e calcolata, oltre
tutto, secondo i criteri inappropriati di cui all’art. 8
della legge n. 604 del 1966, renderebbe
irragionevolmente irrilevante, anche a fronte della
ricostituzione ex tunc del rapporto sottesa alla
disposta “conversione” di esso, il tempo che il
prestatore di lavoro subordinato è costretto ad
attendere per ottenere l’accertamento giudiziale
dell’illegittimità del termine, negandogli quanto,
invece, l’ordinamento riconosce a tutti gli altri
soggetti contrattuali nel caso di inadempimento delle
loro controparti, ossia il diritto al pieno risarcimento
del danno subìto. In tal modo, inoltre, il datore di
lavoro sarebbe incoraggiato ad assumere un comportamento
dilatorio ed ostruzionistico onde ritardare, con ogni
mezzo, il momento della definitiva pronuncia. Quanto al
secondo aspetto, le norme censurate discriminerebbero
una serie di lavoratori versanti in situazioni
comparabili, ossia coloro i quali ottengano
incolpevolmente la pronuncia favorevole nei gradi
successivi al primo rispetto a coloro i quali, invece,
l’abbiano ottenuta già in primo grado, in quanto, a
differenza di questi ultimi, non possono «tenere fuori
dall’indennità “onnicomprensiva” le retribuzioni e i
contributi successivi alla pronuncia di primo grado»; i
lavoratori assunti a termine rispetto ad altre categorie
di dipendenti precari, aventi diritto alla ricostruzione
del rapporto di lavoro, sia sotto il profilo retributivo
che sotto quello contributivo, secondo le consuete
regole generali; i lavoratori assunti a termine con
giudizio ancora pendente in primo grado nei confronti di
coloro la cui causa penda in appello o in cassazione,
essendo le nuove disposizioni applicabili esclusivamente
ai primi. 5.3. – Sarebbero, inoltre, lesi, gli artt. 24,
101 e 102 Cost., perché il citato art. 32,
ridimensionando la tutela già offerta dal diritto
vivente, ricalcata dalle conclusioni rassegnate dal
ricorrente nella sua domanda giudiziale, ha finito per
incidere sui princìpi della domanda e dell’interesse ad
agire e, quindi, sul diritto all’azione, sino a minare,
inoltre, con la sua efficacia retroattiva «la tutela
dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale
principio connaturato allo Stato di diritto» e «la
coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico»,
oltre che «il rispetto delle funzioni costituzionalmente
riservate al potere giudiziario» (v. citata la sentenza
n. 209 del 2010). 5.4. – Il giudice a quo ravvisa,
infine, una violazione degli artt. 117, primo comma, 11
e 111 Cost., anche con l’interposizione dell’art. 6,
primo comma, CEDU, nella misura in cui la norma di cui
all’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del
2010, in mancanza dei “motivi imperativi di interesse
generale” che avrebbero potuto giustificarla, «cancella,
con efficacia retroattiva, una parte rilevante di
diritti (il risarcimento effettivo e la regolarizzazione
previdenziale del rapporto) comunque riconosciuti al
lavoratore dalla previgente normativa». 5.5. – Oltre che
non manifestamente infondate, le questioni di
legittimità costituzionale sin qui illustrate sarebbero,
altresì, rilevanti nel giudizio a quo, in quanto solo
l’accoglimento di esse, con l’espunzione
dall’ordinamento giuridico dell’art. 32, commi 5, 6 e 7,
della legge n. 183 del 2010 sarebbe in grado di
consentire al lavoratore ricorrente – al quale è già
stata riconosciuta dal medesimo Tribunale rimettente la
conversione del rapporto con sentenza parziale – «di
beneficiare della regolarizzazione della sua posizione
contributiva e del risarcimento “effettivo” (rectius:
integrale) del danno subìto, nella misura delle
retribuzioni maturate, al netto dell’aliunde perceptum,
per il periodo successivo alla lettera di messa in
mora». 6. – Con memoria depositata in data 25 maggio
2011 si è costituito in giudizio il signor G. S.,
lavoratore ricorrente nel giudizio principale, instando
per la declaratoria di illegittimità costituzionale
dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del
2010, con riferimento agli artt. 3, 11, 24, 101, 102,
111 e 117 Cost., ed argomentando in tal senso, in
conformità alla già sollecitata ordinanza di rimessione,
con dovizia di citazioni giurisprudenziali. 7. – Con
atto depositato il 7 giugno 2011 si è costituita la
S.p.A. Poste Italiane, chiedendo che le questioni di
legittimità sottoposte alla Corte costituzionale siano
dichiarate manifestamente inammissibili ovvero non
fondate. 7.1. – In punto d’inammissibilità, eccepisce il
difetto di motivazione sulla rilevanza, non essendo dato
in alcun modo evincere dall’ordinanza di rimessione «se,
in punto di entità del risarcimento del danno
riconoscibile al ricorrente, questi, in mancanza della
nuova disciplina dettata dall’art. 32, commi 5, 6 e 7,
della legge n. 183 del 2010, avrebbe effettivamente e
concretamente potuto percepire una somma maggiore di
quella che potrebbe essergli riconosciuta applicando i
criteri previsti dalle norme censurate». Eccepisce,
inoltre, l’inammissibilità della questione della
violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo
discriminatorio, perché presentata in modo alternativo o
ancipite, vale a dire alla stregua di un’interpretazione
ondivaga dell’àmbito di applicazione della novella. 7.2.
– In merito alla non fondatezza, ricalca gli argomenti
spesi, in relazione ai parametri dell’art. 3, secondo
comma, e 117, primo comma, Cost., nell’atto di
costituzione nel giudizio introdotto dall’ordinanza r.o.
n. 62 del 2010, sopra riassunto. Esclude, in primo
luogo, il contrasto dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della
legge n. 183 del 2010 con l’art. 3, primo comma, Cost.,
negando la sussistenza di discriminazioni di sorta tra i
lavoratori che ottengano la conversione del contratto a
termine in primo grado rispetto a coloro i quali la
conseguano negli altri gradi di giudizio, in quanto
tutti allo stesso modo ragionevolmente destinatari del
medesimo regime indennitario, ed evidenzia, in primis
come ulteriore motivo d’inammissibilità della questione
de qua, la totale inconferenza dei tertia comparationis
identificati dal rimettente. Quanto all’efficacia
retroattiva della novella (e ai suoi riflessi negativi
sugli artt. 3, 24, primo comma, 101 e 102 Cost.),
l’anzidetta società obietta che essa debba ritenersi
pienamente legittima, non trattandosi di norma penale ed
essendo ragionevole l’applicazione del nuovo regime
speciale anche per il passato. Osserva, inoltre, la
parte privata che il sistema del “diritto vivente”
pretesamente vulnerato sarebbe sempre legittimamente
soggetto ad interventi legislativi; che, non avendo la
regola generale di integralità della riparazione
copertura costituzionale, ben potrebbe il legislatore
ritenere equa e conveniente una limitazione al
risarcimento del danno, anche rispetto a posizioni di
diritto soggettivo perfetto, salva l’intangibilità del
giudicato nella specie fatta salva; che, siccome
l’attività del legislatore opera su un piano diverso
dall’interpretazione in senso proprio del giudice, non
la potestas iudicandi sarebbe incisa, ma tutt’al più,
secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, il
«modello di decisione cui l’esercizio della suddetta
potestà deve attenersi» (sentenza n. 229 del 1999). 8. –
Anche nel presente giudizio innanzi alla Corte, con atto
depositato il 7 giugno 2011, è intervenuto il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, ed ha chiesto che
le sollevate questioni di legittimità costituzionale
siano dichiarate non fondate, sviluppando argomenti
sostanzialmente conformi a quelli svolti nell’atto
d’intervento relativo al giudizio introdotto
dall’ordinanza r.o. n. 62 del 2011, sopra sintetizzato,
anche in punto di ragionevolezza della riduzione alla
metà dell’indennità in base al disposto del comma 6
dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010, quale
incentivo per la definizione in sede sindacale del
contenzioso seriale disposto dal legislatore nella sua
insindacabile discrezionalità. 9. – In entrambi i
giudizi, con memorie illustrative depositate il 12-13
settembre 2011, le parti del giudizio principale hanno
ulteriormente precisato le difese già svolte negli atti
di costituzione. Considerato in diritto 1. – Con
separate ordinanze, la Corte di cassazione ed il
Tribunale di Trani hanno sollevato, in riferimento agli
artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117, primo comma,
della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art.
6, primo comma, della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre
2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori
usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di
servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di
apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure
contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di
lavoro pubblico e di controversie di lavoro). 2. – La
sostanziale identità delle questioni proposte rende
opportuna la riunione dei giudizi al fine della loro
decisione con un’unica sentenza. 3. – I giudici
rimettenti dubitano della legittimità costituzionale
delle disposizioni censurate, nella parte in cui
stabiliscono: che, nei casi di conversione del contratto
a tempo determinato, il risarcimento del lavoratore
illegittimamente estromesso alla scadenza del termine
dev’essere ragguagliato ad una indennità onnicomprensiva
da liquidare tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto,
alla stregua dei criteri dettati dall’art. 8 della legge
15 luglio 1966, n. 604 (Nome sui licenziamenti
individuali) (art. 32, comma 5); che il limite massimo
dell’indennità è ridotto alla metà in presenza di
contratti collettivi di qualsiasi livello, purché
stipulati con le organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo
indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto
a termine nell’àmbito di specifiche graduatorie (art.
32, comma 6); che tali disposizioni trovano applicazione
per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla
data di entrata in vigore della predetta legge (art. 32,
comma 7). La nuova normativa è sospettata
d’illegittimità, perché ritenuta irragionevolmente
riduttiva del risarcimento del danno integrale già
conseguibile dal lavoratore sotto il regime previgente,
sino a monetizzare, secondo il Tribunale di Trani,
persino il diritto indisponibile alla regolarizzazione
contributiva. In tal modo, sarebbero lesi gli artt. 3,
4, 24, 101, 102 e 111 Cost., poiché la liquidazione del
danno, eventualmente sproporzionata per difetto rispetto
all’ammontare realmente sofferto dal lavoratore,
indurrebbe il datore di lavoro a persistere
nell’inadempimento tentando di prolungare il giudizio o
addirittura sottraendosi all’esecuzione della sentenza
di condanna, non suscettibile di realizzazione in forma
specifica. Con ciò la normativa in questione
vanificherebbe il diritto del cittadino al lavoro e
minerebbe l’effettività della tutela giurisdizionale, in
tesi frustrata dalla conseguente irrilevanza del tempo
occorrente all’accertamento giudiziale
dell’illegittimità del termine, altresì con effetti
discriminatori nei confronti di una serie di lavoratori
versanti in situazioni comparabili, sino a compromettere
le funzioni costituzionalmente riservate al potere
giudiziario. 3.1. – La società ricorrente nel giudizio
principale ed il Presidente del Consiglio dei ministri
eccepiscono l’inammissibilità delle questioni sollevate
dalla Corte di cassazione per difetto di rilevanza. A
loro avviso, le questioni di legittimità sarebbero state
poste dalla Corte rimettente in via puramente ipotetica,
in relazione a norme destinate a trovare applicazione
solo nell’àmbito del giudizio rescissorio avanti alla
competente Corte d’appello e senza alcun elemento di
raccordo con le peculiarità del caso di specie.
L’eccezione non è fondata, perché la Corte di cassazione
ha ragionevolmente ritenuto che la norma debba
applicarsi a tutti i giudizi, anche se pendenti in grado
di legittimità come quello sottoposto al suo esame.
Posta tale premessa, il giudice a quo ha motivatamente
formulato una prognosi di cassazione della sentenza
impugnata, perché il danno liquidato al lavoratore dalla
sentenza di appello eccederebbe quello massimo
conseguibile in base ai nuovi criteri ora imposti dalla
legge. In effetti, per consentire al giudice di merito –
esercitati i poteri istruttori di cui all’art. 32, comma
7, della legge n. 183 del 2010 – l’esatta commisurazione
dell’indennità tra il minimo ed il massimo previsti dai
commi 5 e 6 del medesimo articolo, è preliminare il
vaglio di legittimità costituzionale della norma. Il
difetto di rilevanza, dunque, non sussiste. 3.2. – Anche
in ordine alle questioni sollevate dal Tribunale di
Trani, la società innanzi ad esso convenuta eccepisce la
loro inammissibilità, perché, dalla motivazione
dell’ordinanza di rimessione, non risulterebbe affatto
se il lavoratore ricorrente illegittimamente assunto a
termine, in carenza della nuova disciplina dettata
dall’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del
2010, avrebbe effettivamente e concretamente potuto
percepire, a titolo di risarcimento del danno, una somma
maggiore di quella che potrebbe essergli riconosciuta in
base ai criteri previsti dalle norme censurate. Neppure
tale eccezione è fondata. Il Tribunale di Trani,
premesso di aver già dichiarato con sentenza parziale la
conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato
in lavoro a tempo indeterminato, ha chiaramente spiegato
di dovere applicare, quindi, ai fini della liquidazione
del risarcimento del danno conseguentemente subìto dal
ricorrente, le nuove disposizioni di cui sospetta la non
conformità alla Costituzione. Ciò è sufficiente a
dimostrare la rilevanza delle questioni proposte dal
giudice a quo, fatta eccezione per il profilo attinente
alla ricostruzione della posizione contributiva del
lavoratore, che rimane estraneo alla fattispecie dedotta
nel giudizio principale perché, dal tenore
dell’ordinanza di rimessione, non consta univocamente
una specifica domanda sul punto. 3.2.1. – La predetta
parte privata eccepisce, inoltre, l’inammissibilità
delle questioni proposte dal Tribunale di Trani in
relazione al denunciato contrasto dei commi 5, 6 e 7
dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 con l’art. 3,
primo comma, Cost. A suo avviso, infatti, il rimettente
pugliese avrebbe contraddittoriamente prospettato, da un
lato, la discriminazione dei lavoratori i quali
ottengano la “conversione” del contratto nei giudizi di
appello o di cassazione, basata sull’applicabilità della
normativa censurata ai giudizi in corso anche nei gradi
successivi al primo, dall’altro, la discriminazione a
scapito dei lavoratori “vittoriosi” in primo grado,
fondata sull’applicabilità della novella ai soli giudizi
pendenti in tribunale. Anche tale eccezione dev’essere
disattesa. Il Tribunale di Trani muove dall’assunto che,
rispetto ai giudizi pendenti, i commi 5 e 6 dell’art. 32
della legge n. 183 del 2010 trovino applicazione
esclusivamente in primo grado. Con il corollario di far
derivare l’asserita disparità di trattamento, in danno
dei lavoratori ricorrenti in tribunale, segnatamente
dalla disposizione di cui al successivo comma 7, che
prevede l’efficacia retroattiva della nuova disciplina.
Pertanto, non v’è alcuna contraddizione di principio con
le ulteriori sperequazioni ipotizzate dallo stesso
giudice a quo in base al grado del giudizio all’esito
del quale la domanda del lavoratore possa essere
eventualmente accolta. E ciò, in quanto siffatte
sperequazioni sono in tesi riferibili, invece, alle
fattispecie regolate, per il futuro, dalla normativa “a
regime” di cui ai commi 5 e 6 del succitato art. 32.
3.3. – Nel merito, le questioni non sono fondate. 3.3.1.
– Il dubbio posto dai giudici rimettenti s’incentra
sulla violazione dell’art. 3, secondo comma, Cost.,
sotto il profilo dell’irragionevolezza del trattamento
indennitario forfetizzato, introdotto dalla riforma in
oggetto, rispetto al più sostanzioso risarcimento che
sarebbe stato assicurato dal “diritto vivente” ricavato
dalla normativa generale di diritto comune. La
disciplina dettata dall’art. 32, commi 5, 6 e 7, della
legge n. 183 del 2010 prende spunto dalle obiettive
incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei
criteri di commisurazione del danno secondo la
legislazione previgente, con l’esito di risarcimenti
ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva.
Tra le variabili più evidenti registratesi nella prassi,
tutte pienamente consentite dal regime pregresso, basta
citare l’identificazione del dies a quo del diritto al
risarcimento del danno, a volte desunto da elementi
formali od espliciti, ma più spesso ricavato da
comportamenti concludenti, e la determinazione dell’aliunde
perceptum da porre in detrazione dal pregiudizio
concretamente risarcibile, talora esteso al percipiendum,
ossia al guadagno che sarebbe lecito attendersi dal
lavoratore diligentemente attivatosi nella ricerca di un
nuovo posto di lavoro, con diversificate forme di
utilizzazione, al riguardo, del ragionamento presuntivo.
È in tale contesto, quindi, che deve inserirsi la
novella in esame, diretta ad introdurre un criterio di
liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea
applicazione. Così ricostruita la ratio legis, la
normativa di riforma sfugge alle proposte censure di non
ragionevolezza. In termini generali, la norma scrutinata
non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno
dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine,
ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo
l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato. Difatti, l’indennità prevista dall’art.
32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 va
chiaramente ad integrare la garanzia della conversione
del contratto di lavoro a termine in un contratto di
lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del
rapporto è la protezione più intensa che possa essere
riconosciuta ad un lavoratore precario. Non a caso,
dall’esame dei lavori preparatori si desume che la
disposizione di cui all’art. 32, comma 5, dell’anzidetta
legge dev’essere correttamente letta come riferita alla
conversione del contratto a tempo determinato in
contratto a tempo indeterminato e che, conseguentemente,
la previsione della condanna al risarcimento del danno
in favore del lavoratore dev’essere intesa «come
aggiuntiva e non sostitutiva della suddetta conversione»
(ordine del giorno G/1167-B/7/1-11 accolto al Senato
della Repubblica innanzi alle commissioni I e XI riunite
nella seduta del 2 marzo 2010). D’altro canto, ancorché
nell’ipotesi di licenziamento ingiustificatamente
intimato in regime di tutela obbligatoria, il rimedio
indennitario apprestato dall’art. 8 della legge n. 604
del 1966, anche in mancanza della riassunzione, ha più
volte passato indenne il vaglio di questa Corte
(sentenze n. 46 del 2000, n. 44 del 1996 e n. 194 del
1970). Quanto poi alla denunziata insufficienza del
trattamento forfetario previsto dalle disposizioni
censurate, la Corte di cassazione rimettente ritiene che
l’indennità onnicomprensiva prevista dall’art. 32, commi
5 e 6, della legge citata, non ipotizzabile come
aggiuntiva al risarcimento dovuto secondo le regole di
diritto comune, assorba l’intero pregiudizio subìto dal
lavoratore a causa dell’illegittima apposizione del
termine al contratto di lavoro, dal giorno
dell’interruzione del rapporto fino al momento
dell’effettiva riammissione in servizio. Donde l’effetto
a suo avviso perverso di indurre il datore a persistere
nell’inadempimento, anche sottraendosi all’esecuzione
della condanna, non suscettibile di esecuzione in forma
specifica, con indefinita dilatazione del danno ed
abnorme sproporzione dell’indennità rispetto ad esso.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata della
novella, però, induce a ritenere che il danno
forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il
periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre
dalla scadenza del termine fino alla sentenza che
accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del
rapporto. A partire dalla sentenza con cui il giudice,
rilevato il vizio della pattuizione del termine,
converte il contratto di lavoro che prevedeva una
scadenza in un contratto di lavoro a tempo
indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia
indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il
lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le
retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata
riammissione effettiva. Diversamente opinando, la tutela
fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a
tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata. Se,
infatti, il datore di lavoro, anche dopo l’accertamento
giudiziale del rapporto a tempo indeterminato, potesse
limitarsi al versamento di una somma compresa tra 2,5 e
12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun
deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore
a lavorare con sé. E lo stesso riconoscimento della
durata indeterminata del rapporto da parte del giudice
sarebbe posto nel nulla. Così intesa la norma censurata,
cade l’ipotesi di paventata sproporzione dell’indennità
di cui all’art. 32, commi 5 e 6, della legge citata,
rispetto alla denunziata esigenza di ristoro di un danno
destinato a crescere con il decorso del tempo, sino ad
attingere valori non esattamente prevedibili. E ciò, in
primo luogo, perché il legislatore ha pure introdotto
sub art. 32, commi 1 e 3, della legge n. 183 del 2010 un
termine di complessivi trecentotrenta giorni per
l’esercizio, a pena di decadenza, dell’azione di
accertamento della nullità della clausola appositiva del
termine al contratto di lavoro, fissandone la decorrenza
dalla data di scadenza del medesimo. Con l’effetto di
approssimare l’indennità in discorso al danno
potenzialmente sofferto a decorrere dalla messa in mora
del datore di lavoro sino alla sentenza, avuto, altresì,
riguardo ai princìpi informatori del processo del lavoro
intesi ad accelerarne la definizione. In secondo luogo,
perché il nuovo regime risarcitorio non ammette la
detrazione dell’aliunde perceptum. Sicché, l’indennità
onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria.
Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza
di danno, per avere il lavoratore prontamente reperito
un’altra occupazione. Con la conseguenza che la
disciplina in esame, confrontata con quella previgente,
risulta, sotto tale profilo, certamente più favorevole
al lavoratore. Peraltro, questa Corte ha affermato a più
riprese che «la regola generale di integralità della
riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio
cagionato al danneggiato non ha copertura
costituzionale» (sentenza n. 148 del 1999), purché sia
garantita l’adeguatezza del risarcimento (sentenze n.
199 del 2005 e n. 420 del 1991). Tale condizione nella
specie ricorre, tanto più ove si consideri che, nella
specie, non v’è stata medio tempore alcuna prestazione
lavorativa. In definitiva, la normativa impugnata
risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un
equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al
lavoratore garantisce la conversione del contratto di
lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo
indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è
dovuta sempre e comunque, senza necessità né
dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di
sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la
predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per
il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del
rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del
diritto del lavoratore al riconoscimento della durata
indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la
vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di
un rapporto di lavoro sine die. 3.3.2. – Con specifico
riferimento alla riduzione della metà del limite
superiore dell’indennità ai sensi dell’art. 32, comma 6,
la ragionevolezza della previsione trae alimento dal
favor del legislatore per i percorsi di assorbimento del
personale precario disciplinati dall’autonomia
collettiva. 3.3.3. – Non è condivisibile neppure il
rilievo della indebita omologazione, da parte del
modello indennitario delineato dalla normativa in esame,
di situazioni diverse. Come, ad esempio, la situazione
del lavoratore il quale ottenga una sentenza favorevole
in tempi brevi, possibilmente in primo grado, rispetto a
quella di chi risulti vittorioso solo a notevole
distanza di tempo (magari nei gradi successivi di
giudizio). Ovvero del datore di lavoro il quale
spontaneamente riammetta in servizio il prestatore nelle
more del processo, pagandogli, intanto, il
corrispettivo, rispetto ad altro datore che abbia invece
“resistito” ad oltranza, evitando di riprendere con sé
il lavoratore. È evidente che si tratta di inconvenienti
solo eventuali e di mero fatto, che non dipendono da una
sperequazione voluta dalla legge, ma da situazioni
occasionali e talora patologiche (come l’eccessiva
durata dei processi in alcuni uffici giudiziari).
Siffatti inconvenienti – secondo la consolidata
giurisprudenza di questa Corte – non rilevano ai fini
del giudizio di legittimità costituzionale (sentenze n.
298 del 2009, n. 86 del 2008, n. 282 del 2007 e n. 354
del 2006; ordinanze n. 102 del 2011, n. 109 del 2010 e
n. 125 del 2008). Sicché, non è certo dalle disposizioni
legislative censurate che possono farsi discendere, in
via diretta ed immediata, le discriminazioni ipotizzate.
Peraltro, presunte disparità di trattamento
ricollegabili al momento del riconoscimento in giudizio
del diritto del lavoratore illegittimamente assunto a
termine devono essere escluse anche per la ragione che
il processo è neutro rispetto alla tutela offerta,
mentre l’ordinamento predispone particolari rimedi, come
quello cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del
giudizio vada a scapito delle ragioni del lavoratore
(sentenza n. 144 del 1998), nonché gli specifici
meccanismi riparatori contro la durata irragionevole
delle controversie di cui alla legge 24 marzo 2001, n.
89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione
del termine ragionevole del processo e modifica
dell’art. 375 del codice di procedura civile). Inoltre,
la garanzia economica in questione non è né rigida, né
uniforme. Piuttosto, la normativa in esame, anche
attraverso il ricorso ai criteri indicati dall’art. 8
della legge n. 604 del 1966, consente di calibrare
l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle
peculiarità delle singole vicende, come la durata del
contratto a tempo determinato (evocata dal criterio
dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione
e la tempestività della reazione del lavoratore (sussumibili
sotto l’indicatore del comportamento delle parti), lo
sfruttamento di occasioni di lavoro (e di guadagno)
altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del
rapporto (riconducibile al parametro delle condizioni
delle parti), nonché le stesse dimensioni dell’impresa
(immediatamente misurabili attraverso il numero dei
dipendenti). Quanto alle ulteriori disparità di
trattamento segnalate dal Tribunale di Trani, esse
risentono dell’obiettiva eterogeneità delle situazioni.
Ed infatti, il contratto di lavoro subordinato con una
clausola viziata (quella, appunto, appositiva del
termine) non può essere assimilato ad altre figure
illecite come quella, obiettivamente più grave,
dell’utilizzazione fraudolenta della collaborazione
continuativa e coordinata. Difforme è, altresì, la
situazione cui dà luogo la cessione illegittima del
rapporto di lavoro, laddove, nelle more del giudizio
volto ad accertarla, il rapporto corre con il
cessionario e la garanzia retributiva rimane assicurata.
Altro ancora, infine, è la somministrazione irregolare
di manodopera, quando un imprenditore fornisce personale
ad un altro al di fuori delle ipotesi consentite dalla
legge. Da ultimo, il Tribunale rimettente denuncia una
discriminazione in danno dei lavoratori litiganti in
primo grado rispetto a quelli con una causa già pendente
in appello o in cassazione, perché – stando alla lettera
del comma 7 dell’art. 32 della legge citata – le
disposizioni di cui ai commi precedenti sarebbero, a suo
avviso, applicabili solamente ai giudizi pendenti in
tribunale. La questione è priva di fondamento, altresì,
sotto tale profilo, perché – come persuasivamente
argomentato nell’ordinanza di rimessione della Corte di
cassazione – non v’è alcuna ragione di differenziare il
regime risarcitorio di situazioni lavorative sostanziali
tutte egualmente sub iudice. Talché, la novella dev’essere
ritenuta applicabile a tutti i giudizi in corso, tanto
nel merito, quanto in sede di legittimità. 3.3.4. – Gli
artt. 4, 24 e 111 Cost., menzionati dalla Corte di
cassazione a latere dell’art. 3, secondo comma, Cost.,
sembrano evocati più a corredo del vizio denunciato in
via principale che a fondamento di autonome censure. È,
infatti, dall’asserita irragionevolezza delle
disposizioni legislative censurate che, secondo la
prospettazione del collegio rimettente, discenderebbero
sia la vanificazione del diritto del cittadino al
lavoro, in tesi resa manifesta anche dalla non aderenza
di esse alla giurisprudenza comunitaria, sia il
pregiudizio all’effettività della tutela
giurisdizionale. Le questioni di legittimità della
normativa in esame, comunque, sono parimenti non fondate
in relazione a tutti i suddetti parametri
costituzionali. Quanto all’art. 4 Cost., perché questa
Corte ha reiteratamente affermato che «resta affidata
alla discrezionalità del legislatore la scelta dei tempi
e dei modi di attuazione della garanzia del diritto al
lavoro» (tra le altre, sentenza n. 419 del 2000). E in
questo caso, oltre tutto, la garanzia in questione è
stata realizzata mediante la sancita “conversione” del
contratto di lavoro. Non sussiste alcuna lesione del
diritto al lavoro neppure sul versante della presunta
contravvenzione all’accordo quadro sul lavoro a tempo
determinato, concluso il 18 marzo 1999 ed allegato alla
direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (direttiva del
Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP
sul lavoro a tempo determinato), come interpretato dalla
giurisprudenza comunitaria. Premesso che nell’ordinanza
di rimessione della Corte di cassazione tali fonti
sovranazionali sono invocate esclusivamente a supporto
della denunciata violazione dell’art. 4 Cost.,
l’esigenza di misure di contrasto dell’abusivo ricorso
al termine nei contratti di lavoro, non solo
proporzionate, ma anche sufficientemente effettive e
dissuasive – quale si ricava dalla succitata normativa
europea nella ricostruzione operatane dalla Corte di
giustizia dell’Unione – risulta nella specie soddisfatta
dalla sanzione più incisiva che l’ordinamento possa
predisporre a tutela del posto di lavoro. Vale a dire
dalla trasformazione del rapporto lavorativo da tempo
determinato a tempo indeterminato, corroborata da
un’indennità di ammontare certo. Quanto al parametro
tratto dall’art. 24 Cost., con cui nella impostazione
della Corte rimettente fa corpo l’art. 111, secondo
comma, Cost., nell’ipotesi in oggetto viene in rilievo
la disciplina sostanziale delle conseguenze
dell’illegittima apposizione di un termine al contratto
di lavoro in tema di risarcimento del danno sofferto del
lavoratore. Invece, secondo la giurisprudenza
consolidata di questa Corte, il presidio costituzionale
sopra richiamato attiene al diritto alla tutela
giurisdizionale (sentenza n. 419 del 2000) ovvero
«attribuisce diritti processuali che presuppongono la
posizione sostanziale alla cui soddisfazione essi sono
finalizzati, con la conseguenza che la disciplina
sostanziale non attiene alla garanzia del parametro
suddetto» (sentenza n. 401 del 2008). 3.3.5. – Neppure
le questioni di legittimità dell’art. 32, commi 5, 6, e
7, della legge n. 183 del 2010 poste dal Tribunale di
Trani in relazione agli artt. 24, 101 e 102 Cost. sono
fondate. Circa la violazione dell’art. 24 Cost.
specificamente denunciata dal giudice rimettente, essa
non sussiste. In realtà, come già si è osservato, la
normativa di riforma – nel dettare una disciplina con
effetti retroattivi – ha certamente inciso soltanto sul
profilo sostanziale delle regole del risarcimento del
danno prodotto dall’illegittima apposizione di una
scadenza al contratto di lavoro, preservando, del resto,
il nucleo della tutela richiesta dal ricorrente con le
proposte domande di caducazione del termine e di ristoro
del pregiudizio economico sofferto a cagione
dell’interruzione del rapporto. Quanto poi alla
denunciata lesione dell’integrità delle attribuzioni
costituzionali dell’autorità giudiziaria, questa Corte
ha precisato, in più occasioni, che la sfera riservata
al potere giurisdizionale non è violata quando il
legislatore ordinario non tocca la potestà di giudicare,
ma opera sul piano generale ed astratto delle fonti,
costruendo il modello normativo cui la decisione del
giudice deve riferirsi (sentenze n. 170 del 2008 e n.
432 del 1997; ordinanza n. 263 del 2002).
Conseguentemente, con le disposizioni censurate, il
legislatore non ha vulnerato le attribuzioni del potere
giudiziario, perché, forfetizzando il risarcimento
spettante al lavoratore invalidamente assunto a termine,
si è mosso legittimamente sul piano delle fonti, senza
ingerirsi nella specifica risoluzione delle concrete
fattispecie in contenzioso. 4. – La Corte di cassazione
ed il Tribunale di Trani sollevano, inoltre, questioni
di legittimità dell’art. 32, commi da 5 a 7, della legge
n. 183 del 2010 in relazione all’art. 117, primo comma,
Cost., con l’interposizione dell’art. 6, primo comma,
della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 5 agosto
1955, n. 848. Ad avviso dei giudici a quibus, in
contrasto con il parametro costituzionale integrato
dall’art. 6 CEDU (cui il rimettente pugliese affianca
quelli tratti dagli artt. 11 e 111 Cost.), le
disposizioni censurate segnerebbero un’ingiustificata
intromissione del potere legislativo
nell’amministrazione della giustizia, tale da influire
sulla decisione di singole controversie o su un gruppo
di esse. Con ciò, i lavoratori già precariamente assunti
sarebbero privati di una parte dei diritti già
riconosciuti in loro favore dalla normativa previgente,
in difetto di “ragioni imperative di interesse generale”
che possano eccezionalmente autorizzare, secondo la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo, un intervento del legislatore volto ad
incidere sui processi in corso. 4.1. – Con riferimento
alle questioni poste in proposito dalla Corte di
cassazione, la società ricorrente nel giudizio
principale e il Presidente del Consiglio dei ministri
eccepiscono la loro inammissibilità, perché la Corte
rimettente non avrebbe censurato specificamente il comma
7 dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 – ossia la
disposizione che sancisce la riferibilità della novella
a tutti i giudizi anche pendenti e, dunque, l’efficacia
retroattiva della norma –, ma i soli commi 5 e 6. Ciò
risulterebbe sia dal dispositivo dell’ordinanza, sia
dall’illustrazione delle questioni offerta nella parte
motiva del provvedimento. Con la conseguenza che le
censure mosse ad una presunta intromissione del potere
legislativo nell’amministrazione della giustizia
sarebbero prive di oggetto. L’eccezione non è fondata. È
vero, infatti, che il giudice a quo si sofferma
lungamente sul comma 7 del citato art. 32 per
accreditarne l’applicabilità – secondo
un’interpretazione a suo dire costituzionalmente
orientata – a tutti i giudizi, compreso il proprio. Ma è
altrettanto certo che, in tal modo, anche detto comma
finisce per essere ineluttabilmente attratto
nell’oggetto delle censure. 4.2. – Nel merito, neppure
tali questioni sono fondate. Sui rapporti tra l’art.
117, primo comma, Cost. e le norme della CEDU, nella
ricostruzione ermeneutica della Corte europea dei
diritti dell’uomo, questa Corte ha più volte ribadito i
princìpi fissati con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007,
che devono intendersi in questa sede richiamati. Alla
stregua di tali prìncipi, qualora il contrasto tra la
disciplina censurata e le norme della CEDU non possa
essere risolto in via interpretativa, questa Corte deve
accertare se le disposizioni interne in questione siano
compatibili con quelle della CEDU, come interpretate
dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti
integratrici dell’indicato parametro costituzionale e,
nel contempo, verificare se le norme convenzionali
interposte, sempre nell’interpretazione fornita dalla
medesima Corte europea, non si pongano in conflitto con
altre norme conferenti dell’ordinamento costituzionale
italiano. Ma se questa Corte non può prescindere
dall’interpretazione della Corte di Strasburgo di una
disposizione della CEDU, essa può, nondimeno,
interpretarla a sua volta, beninteso nel rispetto
sostanziale della giurisprudenza europea formatasi al
riguardo, ma «con un margine di apprezzamento e di
adeguamento che le consenta di tener conto delle
peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma
convenzionale è destinata a inserirsi (sentenza n. 311
del 2009)» (sentenza n. 236 del 2011). Questa Corte,
insomma, intende qui ribadire che essa ha il potere di
«verificare se la norma della CEDU, nell’interpretazione
data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con
altre norme conferenti della nostra Costituzione»
(sentenza n. 311 del 2009), «ipotesi nella quale dovrà
essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a
integrare il parametro considerato» (sentenza n. 113 del
2011). Ovvero di «valutare come ed in qual misura il
prodotto dell’interpretazione della Corte europea si
inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La
norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo
comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango
nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in
termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le
ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in
tutti i giudizi di sua competenza» (sentenza n. 317 del
2009). Orbene, con specifico riguardo all’art. 6 CEDU,
la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ripetutamente
riconosciuto che «se, in linea di principio, nulla vieta
al potere legislativo di regolamentare in materia
civile, con nuove disposizioni dalla portata
retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, il
principio della preminenza del diritto e il concetto di
processo equo sanciti dall’art. 6 ostano, salvo che per
imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza
del potere legislativo nell’amministrazione della
giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di
una controversia (sentenze Raffinerie greche Stran e
Stratis Andreadis, § 49, serie A n. 301-B; Zielinski e
Pradal & Gonzalez ed altri, § 57). […] inoltre […]
l’esigenza della parità delle armi implica l’obbligo di
offrire a ciascuna parte una ragionevole possibilità di
presentare la propria causa senza trovarsi in una
situazione di netto svantaggio rispetto alla controparte
(si vedano in particolare le sentenze Dombo Beheer B.V.
c. Paesi Bassi del 27 ottobre 1993, § 33, serie A n.
274, e Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis,
succitata, § 46)» (Agrati c. Italia, 7 giugno 2011, §
58; v., altresì, Maggio e altri c. Italia, 31 maggio
2011, § 43, nonché, per una ricognizione dei casi sino
ad allora trattati, sentenza di questa Corte n. 311 del
2009). L’esame della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo evidenzia che il veto al legislatore
d’interferire nell’amministrazione della giustizia è
inteso ad evitare ogni influenza sulla soluzione
giudiziaria di una controversia (o di un gruppo di
controversie) di cui sia parte lo Stato, salvo che per
imperative ragioni d’interesse generale. In effetti,
pressoché in tutti i casi sopra richiamati, la
violazione dei diritti sanciti dall’art. 6, paragrafo 1,
CEDU è stata ravvisata nel fatto che lo Stato fosse
intervenuto in modo decisivo al fine di garantirsi
l’esito favorevole di processi nei quali era parte. Alla
luce dei princìpi enunciati dalla giurisprudenza
europea, il contrasto denunciato dalla Corte di
cassazione e dal Tribunale di Trani non sussiste.
Ricorrono, infatti, tutte le condizioni in presenza
delle quali la Corte di Strasburgo ritiene compatibili
con l’art. 6 CEDU nuove disposizioni dalla portata
retroattiva volte a regolare, in materia civile, diritti
già risultanti da leggi in vigore. In primo luogo, la
innovativa disciplina in questione è di carattere
generale. Sicché, essa non favorisce selettivamente lo
Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica), perché
le controversie su cui essa è destinata ad incidere non
hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro
precario alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti
i rapporti di lavoro subordinato a termine. Anzi, a ben
vedere, lo Stato-datore di lavoro pubblico a termine,
cui la regola della conversione del contratto a termine
non si applica ai sensi dell’art. 36, comma 5, del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche), non figura neppure tra
i destinatari delle disposizioni censurate. Inoltre
sussistono in ogni caso, con riferimento alla
giurisprudenza della CEDU, motivi per giustificare un
intervento del legislatore con efficacia retroattiva.
Questa Corte ritiene a tal proposito di dover ribadire
che la salvezza dei “motivi imperativi d’interesse
generale”, in questa sede rilevanti, lascia ai singoli
Stati contraenti il compito e l’onere di identificarli.
Ciò, in quanto essi si trovano nella posizione migliore
per enucleare gli interessi che stanno alla base
dell’esercizio del potere legislativo. Si conferma,
così, l’avviso che «le decisioni in questo campo
implicano […] una valutazione sistematica di profili
costituzionali, politici, economici, amministrativi e
sociali che la Convenzione europea lascia alla
competenza degli Stati contraenti, come è stato
riconosciuto, ad esempio, con la formula del margine di
apprezzamento, nel caso di elaborazione di politiche in
materia fiscale, salva la ragionevolezza delle soluzioni
normative adottate (come nella sentenza National &
Provincial Building Society, Leeds Permanent Building
Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito, del
23 ottobre 1997)» (sentenza n. 311 del 2009). Orbene,
alla luce dei rilievi in precedenza svolti, le ragioni
di utilità generale possono essere nella specie
ricondotte all’avvertita esigenza di una tutela
economica dei lavoratori a tempo determinato più
adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici
tra tutte le parti coinvolte nei processi produttivi,
anche al fine di superare le inevitabili divergenze
applicative cui aveva dato luogo il sistema previgente.
Il legislatore nazionale vi ha dato risposta con una
scelta di forfetizzazione indennitaria del risarcimento
del danno spettante al lavoratore illegittimamente
assunto a tempo determinato, in sé proporzionata, nonché
complementare e funzionale al riaffermato primato della
garanzia del posto di lavoro. Non è, dunque, sostenibile
che la retroattività degli effetti dell’art. 32, commi 5
e 6, della legge n. 183 del 2010 – come disposta dal
successivo comma 7 – abbia prodotto un’ingerenza
illecita del legislatore nell’amministrazione della
giustizia, onde alterare la soluzione di una o più
controversie a beneficio di una parte. Invero, la
normativa de qua, escluso ogni vantaggio mirato per lo
Stato od altro soggetto pubblico, impone non
irragionevolmente anche per il passato, con il limite
invalicabile della cosa giudicata, un meccanismo
semplificato di liquidazione del danno. Del resto,
l’applicabilità della nuova disciplina a tutti i giudizi
pendenti è coerente con quanto affermato da questa Corte
nella sentenza n. 214 del 2009, con cui essa ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.
4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368
(Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa
all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato
concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), introdotto
dall’art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge
6 agosto 2008, n. 133. La norma succitata – che, in caso
di violazione della normativa sui contratti a termine,
prevedeva un’indennità economica, ma,
significativamente, non anche la conversione del
contratto a termine – è stata espunta dall’ordinamento
proprio perché differenziava irragionevolmente il
trattamento «di un gruppo di fattispecie selezionate in
base alla circostanza, del tutto accidentale, della
pendenza di una lite giudiziaria tra le parti del
rapporto di lavoro», ad una data, quella di entrata in
vigore della novella (22 agosto 2008), come se non
bastasse «anch’essa sganciata da qualsiasi ragione
giustificatrice». Donde l’esigenza – stavolta pienamente
realizzata seguendo un criterio più equilibrato di
omogeneità di disciplina – di parificare situazioni di
fatto identiche, a prescindere dalla data d’introduzione
del giudizio. 4.2.1. – Parimenti non sussiste la
violazione, meramente asserita, dell’art. 111 Cost.,
poiché, come già si è osservato, il legislatore non ha
inteso privilegiare una parte, tanto meno pubblica,
interessata alla soluzione di una specifica categoria di
controversie, ma si è limitato a razionalizzare con un
intervento di carattere generale – ponderatamente esteso
ai rapporti ancora sub iudice – il regime risarcitorio
del danno conseguente alla violazione della normativa
vincolistica in materia di contratti di lavoro a
termine. 4.2.2. – Residua la supposta lesione dell’art.
11 Cost., adombrata dal Tribunale di Trani con il
richiamo all’adesione dell’Unione europea alla CEDU e
all’inclusione dei diritti fondamentali di fonte
convenzionale nel diritto dell’Unione con il rango di
princìpi generali. A tale riguardo, in primo luogo, non
ha pregio l’argomento tratto dalla prevista adesione
dell’Unione europea alla CEDU, per l’assorbente ragione
che l’adesione non è ancora avvenuta, rendendo allo
stato improduttiva di effetti la statuizione del
paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione
europea, come modificato dal Trattato di Lisbona del 13
dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2
agosto 2008, n. 130 (sentenza n. 80 del 2011). Inoltre,
questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, in linea
di principio, dalla qualificazione dei diritti
fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come
princìpi generali del diritto comunitario non può farsi
discendere la riferibilità alla CEDU del parametro di
cui all’art. 11 Cost., né, correlativamente, la
spettanza al giudice comune del potere-dovere di non
applicare le norme interne contrastanti con la predetta
Convenzione (sentenza n. 349 del 2007). La validità di
tale assunto è stata confermata anche dopo l’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona nelle materie regolate
dalla sola normativa nazionale, fermo restando tuttora
che «i princìpi in questione rilevano unicamente in
rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario
(oggi, il diritto dell’Unione) è applicabile, […]»
(sentenza n. 80 del 2011). Ed è questa l’ipotesi che
ricorre in questa sede, poiché il giudizio a quo ha ad
oggetto una fattispecie, come quella del lavoro a tempo
determinato, contemplata dal diritto comunitario (oggi
dell’Unione). Tuttavia, le suesposte ragioni della
conformità delle disposizioni in esame all’art. 6 CEDU
consentono di escludere, allo stesso modo, la violazione
del diritto fondamentale da esso garantito, ancorché
integrato nel diritto dell’Unione come principio
generale. Conseguentemente, anche sotto tale profilo, la
censura in esame è priva di fondamento. per questi
motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge
4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia
di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di
congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori
sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi
all’occupazione, di apprendistato, di occupazione
femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e
disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro), sollevate, con riferimento agli
artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117, primo comma,
della Costituzione, dalla Corte di cassazione e dal
Tribunale di Trani con le ordinanze indicate in
epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 novembre
2011. F.to: Alfonso QUARANTA, Presidente Luigi MAZZELLA,
Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in
Cancelleria l'11 novembre 2011. Il Direttore della
Cancelleria F.to: MELATTI |