Carmine Gatto
L’art. 13 della Costituzione,
sancisce l’inviolabilità della libertà personale, quale
baluardo insormontabile dello Stato Democratico.
Al comma II, vincola la restrizione
di tale libertà alla sussistenza di un atto motivato
dell’autorità giudiziaria, nei soli casi e modi previsti
dalla legge.
In tal modo, il Costituente ha
posto un’eccezione alla inviolabilità di quella che
costituisce la principale libertà di ogni Stato moderno,
ancorandola al tempo stesso a ben precisi presupposti di
fatto e di diritto che, necessariamente, devono
ricorrere affinché la si possa legittimamente
restringere.
Il dettato costituzionale delinea
quindi una riserva di legge ed una riserva di
giurisdizione, che trovano la loro giusta collocazione
rispettivamente agli artt. 272 e 279 c.p.p.
A cagione del grave vulnus recato
alla libera determinazione della persona, il Legislatore
ha fissato precise condizioni in presenza delle quali le
misure cautelari possono trovare applicazione. All’uopo,
si distinguono le condizioni generali di applicabilità
dalle esigenze cautelari che le stesse mirano a
soddisfare.
L’art. 273 c.p.p. individua quale
primo presupposto fondante per la legittima applicazione
delle misure, la presenza di gravi indizi di
colpevolezza. Cristallizzati allo stato degli atti.
Nel caso de quo, la nozione di
indizio è intesa in un’accezione più ampia di quella
fornita dall’art. 192 comma II c.p.p., dovendo
ricondurre ad essa anche le prove rappresentative quali,
ad esempio, la testimonianza.
In tal senso, anche la Suprema
Corte la quale, nella sua composizione più autorevole ha
sancito:“per gravi indizi di colpevolezza ai sensi
dell’art. 273 c.p.p. devono intendersi tutti quegli
elementi a carico, di natura logica o rappresentativa,
che – contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli
elementi strutturali della corrispondente prova – non
valgono di per sé, a provare oltre ogni ragionevole
dubbio la responsabilità dell’indagato e tuttavia
consentono, per la loro consistenza, di prevedere che,
attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi,
saranno idonei a dimostrare tale responsabilità,
fondando nel frattempo una qualificata probabilità di
colpevolezza”[1]
Al comma II, l’art. 273 c.p.p.,
sancisce che la presenza di cause di giustificazione,
ovvero di non punibilità, o ancora una causa di
estinzione del reato nonché della pena, vieta
l’applicazione della misura cautelare.
L’art. 273, deve essere letto in
combinato disposto con l’art. 274 che individua, ed
elenca tassativamente, le esigenze che consentono
l’applicazione delle misure: è bastevole il ricorrere di
almeno una di esse, affinché possa validamente
applicarsi la misura.
Esse sono ravvisate nel pericolo,
concreto ed attuale, di acquisire la prova, ovvero di
evitare che possa compromettersene la genuinità.
Nella circostanza che l’imputato si
sia dato alla fuga, ovvero vi sia concreto pericolo che
possa farlo. E ancora, nel concreto pericolo che
l’imputato possa commettere gravi delitti con uso di
armi, o di altri mezzi di violenza personale, o diretti
contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di
criminalità organizzata o della stessa specie di quello
per cui si procede, purché si tratti di delitti per i
quali è prevista la pena della reclusione non inferiore
nel massimo a quattro anni.
Al ricorrere dei presupposti
legittimanti l’applicazione delle misure, il Legislatore
appresta un elenco tassativo di misure cautelari, tra le
quali il Giudice è tenuto a scegliere, secondo criteri
di adeguatezza e proporzionalità.
Entrambi i principi, fanno
riferimento ad una proporzione da condurre tra un
medesimo termine (la misura da applicare) e,
rispettivamente, l’intensità delle esigenze cautelari
(valutazione di adeguatezza) e la gravità del reato e
della pena inflitta o da infliggere (valutazione di
proporzione).
Si tratta di due parametri di una
funzione di scelta che deve seguire un ordine
prestabilito, secondo cui a parità delle altre
condizioni si deve applicare in ogni caso la misura meno
afflittiva (c.d. principio di gradualità)[2].
L’adeguatezza della misura, è
rapportata necessariamente anche alla personalità
dell’indagato. Sul punto, la Cassazione ha sancito
che:”l’adeguatezza della misura in concreto applicata va
valutata anche con riferimento alla prognosi di
spontaneo adempimento da parte dell’indagato degli
obblighi e delle prescrizioni che a detta misura
cautelare siano eventualmente collegati”[3].
Ai sensi dell’art. 275 c.p.p. nel
selezionare la misura, il Giudice valuta l’idoneità
della stessa in rapporto all’esigenza cautelare che, nel
caso di specie occorre fronteggiare.
L’individuazione della misura, deve
pur sempre rapportarsi al principio di stretta
necessità, secondo cui la custodia in carcere
costituisce l’extrema ratio, potendo disporsi solo
quando ogni altra misura risulti inadeguata, ex art. 275
comma III c.p.p.
Il principio di proporzionalità di
cui al comma II individua la misura da applicare, in
rapporto all’entità, rectius gravità, del fatto ed alla
sanzione che sia stata ovvero possa essere irrogata.
Benché i due principi si pongano in
rapporto di stretta complementarità, l’enunciazione
prioritaria del principio di adeguatezza che emerge dal
dato letterale della norma, è senz’altro indice della
priorità che deve riservarsi alla natura ed al grado
delle esigenze cautelari, dovendo porsi in subordine
logico, circa la scelta del Giudice, l’entità del fatto
concreto: le misure cautelari sono volte innanzitutto a
salvaguardare le esigenze di tutela della
collettività.
Invero, tale opzione ermeneutica,
libera il campo da ogni valutazione circa la presunta
natura anticipatoria della pena della custodia cautelare
in conformità della presunzione di non colpevolezza di
cui all’art. 27 comma II Cost. nonché art. 6 comma II
Cedu.
Il principio di adeguatezza e
proporzionalità, subisce un’eccezione al comma III
dell’art. 275 c.p.p.: in alcune ipotesi tassativamente
indicate, la custodia cautelare in carcere è reputata,
secondo un giudizio di presunzione assoluta di
adeguatezza, l’unica misura in grado di soddisfare le
esigenze cautelari, salva l’acquisizione di elementi da
cui emerga l’insussistenza delle stesse.
Il novero dei reati contemplati
dalla norma, originariamente circoscritta ai soli
delitti di mafia, si è poco alla volta ampliato, fino a
farvi rientrare fattispecie tra loro eterogenee.
Dall’associazione per delinquere finalizzata alla
riduzione in schiavitù, alla violenza sessuale, ai
delitti con finalità di terrorismo.
Per tutti i reati elencati nel
comma III, il legislatore ha ritenuto quale unica misura
adeguata a soddisfare le esigenze cautelari, la sola
custodia in carcere, eliminando a priori qualsiasi
valutazione di adeguatezza e proporzionalità.
Invero, sollevata la questione di
legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3,
13 comma I e 27 comma II Cost. con riferimento ai
delitti di criminalità organizzata, la Consulta ha
osservato che: “la delimitazione della norma all’area
dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso,
rende manifesta la non irragionevolezza dell’esercizio
della discrezionalità legislativa, atteso il
coefficiente di pericolosità per le condizioni di base
della convivenza e della sicurezza collettiva che agli
illeciti di quel tipo è connaturato”[4].
La presunzione per i delitti di cui
agli artt. 600 bis I comma (prostituzione minorile), 609
bis (violenza sessuale) 609 quater (atti sessuali con
minorenne) è stata introdotta con D.L. 23 febbraio 2009,
n. 11, convertito con modificazioni, nella L. 23 aprile
2009 n. 38.
A ben vedere, la risposta del
Legislatore sembra potersi ricondurre nella scia del
cosiddetto diritto penale mediatico, che risente
dell’influenza e degli umori della massa, recependo i
furori repressivi e forcaioli del momento, legiferando
al solo fine di acquietare, temporaneamente e senza
soluzione definitiva, le richieste del quivis de populo.
Con riferimento ai delitti a sfondo
sessuale, è stata sollevata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 275 comma III c.p.p.
Invero, nelle ordinanze di
remissione, si è sostenuto che in relazione ai reati
sessuali cui il legislatore del 2009 ha esteso la
presunzione assoluta di adeguatezza, pur nella loro
gravità ed odiosità, essi presentano una meno spiccata
caratterizzazione pubblicistica, essendo offensivi di un
bene giuridico prettamente individuale, quale la libertà
sessuale. In tal modo, la norma sarebbe in contrasto con
l’art. 3 Cost. applicando ingiustamente, ai reati in
questione, un trattamento analogo a quelli già previsti
dall’art. 275 comma III, nonché riservando agli stessi
una disciplina più severa rispetto ad altri reati non
contemplati dall’articolo[5].
Si è sostenuto altresì che l’art.
275 comma III nella sua nuova formulazione, viola gli
artt. 3, 13, 27 e 117 I comma Cost., nella parte in cui
non consente di applicare arresti domiciliati o comunque
misure meno afflittive della custodia in carcere in
relazione ai delitti previsti dagli artt. 600 bis e 609
bis c.p.[6]
L’art. 275 comma III, è stato
vagliato anche dal Giudice per le indagini preliminari
del Tribunale di Venezia[7], nella parte in cui
relativamente al delitto di cui all’art. 609 quater
comma I n. 1) c.p., non consentiva di sostituire la
custodia in carcere con gli arresti domiciliari, pur
essendo quest’ultima misura, idonea a soddisfare
adeguatamente le esigenze cautelari a seguito di
un’evoluzione migliorativa.
Investita della decisione, la
Consulta ha ritenuto fondata la questione, in
riferimento agli artt. 3, 13 comma I e 27 comma II
Cost.. Essa, ha ritenuto sussistere effettivamente la
lesione del principio del “minore sacrificio possibile”.
In una precedente decisione, la
stessa Corte aveva sancito che: “le presunzioni
assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale
della persona, violano il principio di eguaglianza, se
sono arbitrarie ed irrazionali, cioè se non rispondono a
dati di esperienza generalizzati, riassunti nella
formula dell’id quod plerumque accidit”. In particolare,
l’irragionevolezza della presunzione assoluta, si coglie
tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di
accadimenti contrari alla generalizzazione posta a base
della presunzione stessa.[8]
Per tali ragioni, continua ancora
la Consulta, non è possibile estendere ai delitti de
quo, la ratio giustificatrice della deroga alla
disciplina ordinaria con riferimento ai procedimenti
relativi a delitti di mafia. In tali ipotesi, è la
struttura stessa della fattispecie, caratterizzata
dall’adesione permanente ad un sodalizio criminoso
radicato sul territorio e dotato di forza intimidatrice
ad indurre a ritenere, secondo una regola di comune
esperienza, l’adeguatezza della sola custodia in
carcere.
Non è dato pervenire ad analoga
conclusione con riferimento ai delitti in materia
sessuale, i quali presentano esigenze cautelari
suscettibili di essere soddisfatte anche con diverse
misure. Per quanto odiosi, essi presentano spesso natura
prettamente individuale, e provocano un’emergenza in
grado di poter essere scongiurata anche in modo diverso.
La scelta del legislatore appare
irragionevole anche con riferimento alla misura edittale
della pena, atteso che reati puniti con pena massima più
elevata, sono rimessi alla discrezionalità del Giudice
circa la scelta della misura. Si pensi alla strage, ex
art. 422 c.p.
Il totale sacrificio del principio
di adeguatezza, in carenza di una valida ratio
giustificatrice, modifica la natura stessa della
custodia cautelare, attribuendole gli stessi scopi e
finalità, riservate alla sanzione penale inflitta
all’esito di un giudizio definitivo di responsabilità.
La Corte, ritiene dunque che la
norma impugnata violi l’art. 3 Cost. per
l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi
ai delitti in questione a quelli concernenti i delitti
di mafia. Sarebbe altresì in contrasto con l’art. 13
comma I Cost. quale referente per il regime ordinario
delle misure cautelari personali, infine per violazione
dell’art. 27 Cost. poiché attribuisce alla coercizione
processuale tratti tipici della pena.
La Corte conclude quindi per
l’illegittimità dell’art. 275 comma III, secondo e terzo
periodo, nella parte in cui non prevede la possibilità
che, in ordine ai reati di cui agli artt. 600 bis, 609
bis, 609 quater, le esigenze cautelari possano essere
soddisfatte anche con altre misure diverse dalla
custodia in carcere.
La decisione della Consulta, appare
sicuramente condivisibile.
Tuttavia, essa omette di
considerare che anche per altri reati contemplati dalla
norma, le esigenze cautelari potrebbero ben essere
soddisfatte adeguatamente facendo ricorso ad altra
misura.
[1] Cass. S.U. 21 aprile 1995 – 1
agosto 1995, n. 11, Costantino, GP 96, III, 321
[2] A. Bassi e T. E. Epidendio
“Guida alle impugnazioni dinanzi il Tribunale del
Riesame” III edizione Giuffrè 2008, pag. 441
[3] Cass. sez. II, 27 marzo 1998 –
14 gennaio 1999, n. 2170, CP 00, 129
[4] C. cost., 24
ottobre 1995, n. 450, CP 96, 449, 2835 nt. Negri.
[5] Ordinanze del G.i.p. del
Tribunale di Belluno, n. 310 e 311 del 2009
[6] Ordinanza del Tribunale di
Torino, sezione per il Riesame, n. 14 del 2010
[7] Ordinanza n. 66 del 2010
[8] Corte Costituzionale, sent. n.
139 del 2010 |