di
Angelo Marano
Malgrado le molte contrapposizioni, spesso strumentali,
in ambito pensionistico troppo spesso vi è carenza di
analisi circostanziate. In particolare, sull’età di
pensionamento, la considerazione che starebbe a
giustificare in modo incontrovertibile la necessità di
un aumento è che, se aumenta la speranza di vita, deve
allungarsi anche la durata della vita lavorativa;
altrimenti, se la speranza di vita a 65 anni aumenterà
di cinque anni in cinquanta anni, il bilancio pubblico
si dovrà caricare in media di altri cinque anni di
pensione per ciascun pensionato, con conseguente,
insostenibile, aumento della spesa pubblica.
Tale argomentazione è spesso proposta come talmente
evidente da non richiedere ulteriori indagini; ma
risulta inconsistente ad un’analisi più attenta.
1) Innanzitutto, presupporrebbe che si dia conto di
quanto l’età di pensionamento è già aumentata negli anni
recenti. Cosa difficile, un po’ perché la memoria è
corta, un po’ perché i ripetuti interventi legislativi,
succedutisi a partire dagli anni ’90, richiedono di
districarsi in una complessa stratificazione di norme.
In ogni caso, considerando anche l’operare delle
finestre, ovvero di quel meccanismo per cui, una volta
maturati i requisiti per il pensionamento, un lavoratore
deve continuare l’attività per un ulteriore lasso di
tempo (fino a 18 mesi), ancora nel 2000 (si veda la
Figura 1) i dipendenti potevano andare in pensione di
anzianità a 54 anni e 4,5 mesi se pubblici, a 55 anni e
4,5 mesi se privati; la pensione di vecchiaia si
maturava ancor prima dei 60 anni per le donne e dei 65
per gli uomini (fino al 1993 erano 55 e 60 anni,
rispettivamente). Nel 2012 il pensionamento di
anzianità, di nuovo considerando anche le finestre, non
potrà avvenire prima dei 61 anni, così come il
pensionamento di vecchiaia per le dipendenti private,
mentre il pensionamento di vecchiaia per tutti gli altri
richiederà almeno 66 anni. Già a legislazione vigente
(ottobre 2011), considerando le proiezioni Eurostat
sull’aumento della speranza di vita in Italia, nel 2026
il pensionamento di anzianità sarà possibile non prima
dei 63,5 anni e il pensionamento di vecchiaia quattro
anni dopo; nel 2050 il limite di età per il
pensionamento di vecchiaia sarà superiore a 69 anni (4
anni in meno il requisito per l’anzianità). Dunque, in
50 anni il requisito per la pensione di vecchiaia è
destinato ad aumentare di più di 5 anni per gli uomini e
di 10 per le donne, mentre quello per il pensionamento
di anzianità ad aumentare di più di 10 anni; tutto ciò,
a fronte di un aumento della speranza di vita nel
cinquantennio attorno ai 5 anni. Si potrà replicare che
le età di pensionamento di partenza erano troppo basse,
e probabilmente è vero, tuttavia decidere da quale età
partire per aumentare l’età di pensionamento in linea
con la speranza di vita è arbitrario e andrebbe
adeguatamente argomentato.
2) Ancora più rilevante è, a mio parere, un’altra
considerazione. Se pretendere che prolunghino l’attività
i lavoratori più senior può avere senso in piena
occupazione, diventa una strategia problematica quando è
diffusa la disoccupazione, specie se giovanile. E’
evidente che, in questo modo, si stanno lasciando fuori
dal mercato del lavoro – o relegando ai margini – le
coorti più giovani e, tipicamente, preparate, per
continuare ad utilizzare lavoratori di maggiore
esperienza ma avanti con gli anni, spesso demotivati e
poco aggiornati. Si noti, questo è un problema
dell’Italia molto più che degli altri paesi. Perché,
come emerge chiaramente dai dati europei (si veda la
Figura 2), mentre in Germania l’80% dei lavoratori in
ogni classe di età possiede almeno un diploma di scuola
secondaria superiore, non solo il dato italiano è molto
più basso, ma peggiora sostanzialmente nelle coorti di
età più avanzate, cosicché, mentre sui 25-29enni il gap
è di 15 punti (il 90% di diplomati in Germania, il 75%
in Italia), esso è superiore ai 30 punti (89% contro
58%) sui lavoratori 55-59enni. Il caso italiano spicca,
in negativo, anche rispetto a quello di Francia e Regno
Unito e anche se consideriamo, invece dei lavoratori, la
popolazione complessiva (grafico di destra nella Figura
2). Dunque, costringiamo a lavorare di più individui in
gran parte con un basso titolo di studio, laddove
sotto-utilizziamo le generazioni più giovani e
preparate; qui, probabilmente, potrebbe trovarsi uno
degli “intoppi” che contribuiscono all’incapacità
dell’Italia di reggere il passo con gli altri paesi. Si
potrà obiettare che non è possibile, stanti le
condizioni del bilancio pubblico, né prepensionare gli
anziani né assumere i giovani; non si vuole qui
argomentare in favore del dissesto della finanza
pubblica, tuttavia andrebbe riconosciuto che il problema
è rilevante per il futuro del paese; spetterebbe,
invero, ai tecnici individuare percorsi e opportune
soluzioni.
3) Un ulteriore elemento che andrebbe considerato
riguarda i requisiti di pensionamento nel nuovo regime
pensionistico contributivo, cui sono soggetti coloro che
sono entrati nel mercato del lavoro dal 1995. Nel
sistema contributivo, infatti, l’età di pensionamento
non dovrebbe contare. Se il sistema pensionistico
restituisce semplicemente i contributi dei lavoratori,
suddividendo il risparmio pensionistico (virtuale) sugli
anni di residua vita attesi, allora dovrebbe essere
concessa massima flessibilità nell’età di pensionamento:
a condizione che si maturi un minimo, per non pesare
altrimenti sulle finanze pubbliche, dovrebbe essere a
completa discrezione del lavoratore se chiedere presto
una pensione bassa o evitare di intaccare il proprio
risparmio pensionistico per conseguire una pensione più
elevata. In effetti, la riforma pensionistica del 1995
permetteva di scegliere liberamente il pensionamento in
una finestra di età 57-65 anni. Flessibilità ormai
venuta totalmente meno (salvo una irrilevante deroga
fino al 2016) con l’imposizione ai pensionati
contributivi degli stessi limiti di età che si applicano
agli altri. Invero, il principio contributivo e la
flessibilità nell’età di pensionamento sarebbero
totalmente coerenti con la modellistica dominante delle
scelte individuali, laddove l’imposizione di un’età
minima di pensionamento viene generalmente attribuita
all’operato di un “dittatore benevolente”. Appare in tal
senso strano che nessun economista, fra i tanti che
dell’appartenenza al filone liberale non fanno mistero,
trovi contraddizione alcuna fra tale appartenenza e il
sostenere la necessità di ulteriori aumenti dell’età di
pensionamento anche per i lavoratori rientranti nel
regime contributivo.
Se quanto sopra illustrato ha un senso, perché l’aumento
dell’età di pensionamento è comunque costantemente al
centro dell’agenda politica? Perché serve a far cassa.
Ma dire che l’aumento dell’età di pensionamento serve a
fare cassa individua automaticamente la ragioneria
generale dello stato quale organo di propulsione e
gestione degli interventi; ad essa spetta far quadrare i
conti, conciliando in qualche modo le priorità di
governo e parlamento con il rispetto dei vincoli
costituzionali e comunitari al bilancio. In tal senso,
si fa presto a fare un conto di massima: con pensioni
medie dell’ordine di 15mila euro l’anno, se costringo
100mila lavoratori a rinviare di un anno il
pensionamento ridurrò la spesa pubblica di 1,5 miliardi
di euro (anche se l’effetto sarà in parte riassorbito
col tempo). Dunque, l’aumento dell’età di pensionamento
è uno strumento che offre un sostanzioso e immediato
risparmio, per giunta apparentemente poco doloroso,
giacché costringere qualcuno a lavorare di più è cosa
ben diversa dal privarlo del reddito. Uno strumento
perfettamente coerente con l’approccio proprio della
ragioneria e il cui uso, per altro, può essere reiterato
all’occorrenza. Del tutto coerente con lo stesso
approccio è anche che l’aumento dell’età venga applicata
a tutti indistintamente, anche ai lavoratori soggetti al
contributivo. E coerente è anche che, qualora non vi
siano le condizioni politiche per un esplicito aumento
dell’età, esso venga nascosto nelle pieghe dei
provvedimenti, com’è avvenuto, ad esempio, con
l’introduzione del meccanismo delle finestre nella
riforma del 1995 e con il loro appesantimento negli anni
successivi.
Se quella descritta è la, legittima, logica
ragionieristica, è tuttavia da dimostrare che essa sola
debba definire la politica pensionistica del paese. In
realtà, le pesanti controindicazioni che essa si porta
dietro suggeriscono che sarebbe indispensabile
affiancarle un’adeguata elaborazione di tipo economico.
Perché, ad esempio, la logica ragionieristica non si
occupa degli effetti sulla credibilità dello stato delle
continue modifiche della legislazione e di clausole
vessatorie, come quella delle finestre, che travolgono
la certezza del diritto e la capacità di programmazione
dei cittadini; in effetti, chiunque abbia a che fare con
lavoratori oltre i cinquanta anni può rendersi
immediatamente conto di come il continuo spostare
l’asticella dei requisiti minimi stia non solo generando
incertezze e paure, ma anche minando la fiducia nelle
istituzioni. Perché, ancora, la logica ragionieristica
può non interessarsi all’effetto complessivo, sul
livello di produttività e di crescita del paese, oltre
che sulla coesione sociale, di operazioni che hanno
l’effetto di mantenere al lavoro lavoratori anziani con
bassa scolarità e tenere fuori lavoratori giovani e
qualificati; così come può non interessarsi al se e come
vengano attivati programmi di formazione e aggiornamento
per i lavoratori anziani che verranno forzatamente
trattenuti al lavoro. Tutte cose di cui, invece, sarebbe
utile e opportuno si occupassero gli economisti e
discutesse la società, non per aumentare la spesa e il
debito, bensì per individuare proposte e soluzioni che
possano coniugare tanto gli equilibri di breve del
bilancio che quelli di lungo, alimentando al tempo
stesso le prospettive di sviluppo del paese.
Figura 1 - Età minima di pensionamento (comprese
finestre) per i dipendenti a legislazione vigente
Figura 2 - Livello di istruzione della popolazione e dei
lavoratori per classi di età in Italia e nei maggiori
paesi europei - 2010
* Le considerazioni esposte sono strettamente
personali.
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