(Antonino Ciavola)
''Nel nostro Paese l’attività
storicamente riservata agli avvocati è quella
giudiziale, non quella di consulenza in generale: siamo
avvocati da citazioni, più che da contratti''
Sommario:
1. Cosa dice il codice
deontologico
2. Quello che il codice
deontologico non dice
3. Quello che il codice
deontologico diceva (ma non dice più)
1. Cosa dice il codice deontologico
L’esistenza di regole di
comportamento e di conseguenze per la loro violazione è
stabilita dalla legge professionale (R.d.l. 27 novembre
1933, n. 1578) che in due sintetici articoli detta il
fondamento delle norme deontologiche.
L’art. 12 impone agli avvocati la
dignità e il decoro, mentre l’art. 38 stabilisce che chi
si renda colpevole di abusi o mancanze, o violi dignità
e decoro, è sottoposto a procedimento disciplinare.
Il padre della deontologia italiana
è certamente il Danovi[i], che scrisse un codice
deontologico non ufficiale addirittura oltre dieci anni
prima che il CNF, nel 1997, ne approvasse il testo con
apposita delibera.
L’Autore, nel corso dei decenni, ha
sostenuto la tesi della giuridicità di tali regole, in
contrapposizione con la tesi opposta che relegava la
deontologia al campo della morale, o addirittura al
territorio della buona educazione.
Una delle più felici intuizioni del
Danovi riguarda la distinzione tra il contenuto delle
norme (che può anche essere etico) e la loro natura, che
in questo caso è giuridica perchè queste norme sono
inserite nell’ordinamento professionale[ii].
Finalmente la Suprema Corte, negli
anni 2000, ha statuito (con orientamento oggi costante)
che le regole contenute nei codici deontologici sono
norme giuridiche obbligatorie che integrano il diritto
oggettivo e che sono sottoposte al principio di
ragionevolezza[iii].
Si sostiene che la codificazione
così operata non introduce una tipizzazione o
tassatività dell’illecito disciplinare, poichè il codice
si limiterebbe a identificare le norme deontologiche
vigenti in base ai ricorrenti casi (sanzionati) di loro
violazione.
Inoltre, come emerge chiaramente
dalla norma di salvaguardia contenuta nell’art. 60,
l’elencazione del codice deontologico non è tassativa,
ben potendo essere sanzionati altri comportamenti che,
pur non essendo espressamente previsti, tuttavia
costituiscano violazione dell’art. 12 della legge
professionale.
Il primo aspetto, relativo
all’assenza di rigida tipizzazione, è certamente da
confermare e sostenere poiché se gli illeciti
disciplinari fossero tipizzati ogni comportamento non
espressamente indicato, anche se riprovevole, non
potrebbe essere sanzionato.
Con il sistema attuale, invece, la
vera fonte della deontologia è la giurisprudenza
disciplinare, i cui casi concreti sono stati lo spunto
per la scrittura del codice e sono ancora la fonte del
suo rinnovamento.
Un’altra fonte che negli ultimi
anni sta invadendo il campo della deontologia, non senza
critiche, è quella legislativa.
Sempre più spesso, infatti, il
legislatore invade il campo e crea illeciti deontologici
utilizzando la legge primaria: è accaduto con il Testo
Unico delle spese di giustizia (D.P.R. 30 maggio 2002,
n. 115, artt. 85 e 128), a proposito del patrocinio a
spese dello Stato, e più recentemente con la previsione
dell’illecito disciplinare derivante dal mancato
aggiornamento professionale (art. 3, Decreto Legge 13
agosto 2011, n. 138, convertito in Legge 14 settembre
2011, n. 148).
Per quanto riguarda invece
l’asserita natura ricognitiva del codice deontologico,
ho già scritto in altra occasione[iv] che, accanto alle
tradizionali norme ricognitive, ne esistono altre
innovative perché non fanno parte del tradizionale
bagaglio etico degli avvocati.
In ogni caso, il codice
deontologico è ormai noto, almeno nelle sue linee
generali, a tutti gli avvocati; ed è sempre più studiato
e approfondito grazie agli incontri formativi tematici.
2. Quello che il codice
deontologico non dice
Negli ultimi anni i deontologi
hanno diffusamente affrontato il tema della
responsabilità sociale dell’avvocato[v], anche con
riferimento alla tutela dei diritti umani.
Questo aspetto è evidenziato nel
preambolo al codice deontologico, dove si afferma che
l’avvocato assicura la conoscenza delle leggi e vigila
sulla loro conformità ai principi generali.
Altre norme di responsabilità
sociale contenute nel codice evidenziano il dovere
dell’avvocato di svolgere la propria funzione
rispettando il principio del neminem laedere: così gli
articoli 9 e seguenti, sui doveri di segretezza, di
indipendenza, di competenza e di aggiornamento
professionale; così ancora l’art. 15, sul dovere di
adempimento previdenziale e fiscale.
Oltre alla responsabilità nei
confronti degli assistiti e della collettività in
genere, il codice dedica ampio spazio ai rapporti con i
colleghi, sottolineando la necessità di non approfittare
di situazioni di forza economica.
E’ il caso degli articoli 25 e 26
che dettano regole di comportamento idilliache nei
confronti dei propri collaboratori e dei praticanti:
regole che però risultano di difficile controllo e
sistematicamente violate.
Si tratta di aspetti che
meriterebbero maggiore attenzione e approfondimento,
poichè l’attuale situazione di crisi economica vede
numerosi avvocati in posizione di parasubordinazione
rispetto al titolare dello studio, senza alcuna
garanzia.
Altro aspetto importante che il
codice non tratta compiutamente è quello dell’art. 33
sulla sostituzione del collega nell’attività di difesa.
L’ipotesi di conflitto tra avvocato
revocato e subentrante in corso di causa è qui regolata
prevedendo la necessità di un contatto tra i due
avvocati e una leale cooperazione del nuovo avvocato
affinché siano pagate le prestazioni svolte dal
precedente difensore.
La giurisprudenza disciplinare ha
visto in questi ultimi anni un mutamento di indirizzo;
in precedenza era considerato obbligatorio, prima di
accettare l’incarico, un contatto con il collega per
conoscere se vi fossero motivi contrari all’assunzione
del mandato[vi].
Anzi, dobbiamo qui rilevare che
probabilmente la regola deontologica insita nella
coscienza degli avvocati è diversa da quella oggi
dettata dall’art. 33, poichè fino a qualche anno fa si
riteneva obbligatorio non solo contattare il precedente
difensore, ma anche assicurarsi che egli fosse stato
saldato.
Il pagamento dei compensi al
precedente difensore era quindi una condizione per
assumere l’incarico, mentre oggi esso può essere assunto
immediatamente e l’avvocato subentrante, secondo l’art.
33, deve soltanto adoperarsi affinché siano soddisfatte
le legittime richieste del collega.
In passato il CNF ha sanzionato chi
ha accettato l’incarico senza il consenso del
collega[vii]; chi lo ha accettato prima che il cliente
saldasse la parcella dell’avvocato sostituito[viii]; in
altre ipotesi, invece, è stato ritenuto sufficiente
l’invito rivolto al cliente a definire la pendenza[ix]
con il predecessore.
L’evoluzione del Codice
Deontologico e della giurisprudenza disciplinare è
confermata anche dal Codice Deontologico Europeo, che
fino al dicembre 2002 prevedeva l’obbligo per l’avvocato
che subentrasse nel mandato di assicurarsi dell’avvenuto
pagamento del predecessore o quantomeno che quest’ultimo
avesse accettato un regolamento delle spese e degli
onorari a lui dovuti.
L’articolo in questione è stato
però abrogato dal C.C.B.E. nella data sopra indicata[x].
Allora, è legittimo il
comportamento di un avvocato che subentri nella difesa
di un altro, che è costretto a restituire i documenti
senza indugio, mentre il subentrante ha soltanto un
generico e indefinibile dovere di “adoperarsi” per le
spettanze del suo predecessore?
La questione è di particolare
rilevanza nell’ipotesi in cui il predecessore abbia
condotto brillantemente un giudizio, ottenendo una
sentenza esecutiva, ed il cliente si rivolga a un altro
avvocato per l’esecuzione del titolo senza pagare chi,
con il proprio lavoro, ha reso possibile tale
esecuzione.
Su questo punto, il codice tace;
eppure è ipotizzabile che il comportamento del
subentrante concretizzi un atto di concorrenza
sleale[xi].
Ancora, merita di essere
approfondito e divulgato il contenuto dell’art. 47
(rinuncia al mandato).
La giurisprudenza deontologica ha
chiarito[xii] che a seguito della rinuncia al mandato il
professionista non è costretto a proseguire la propria
attività fino a quando non avvenga la sostituzione;
questo aspetto è precisato dal citato art. 47 che
afferma che l’avvocato non è responsabile per la mancata
successiva assistenza.
Quello che il codice non dice è che
l’avvocato che abbia rinunciato al mandato, o che sia
stato revocato, non solo non è obbligato a prestare
assistenza in un momento successivo, ma addirittura non
deve farlo poichè, cessato l’incarico professionale,
viene meno ogni suo potere sulla gestione della causa e
del fascicolo processuale (in campo civile l’art. 76
disp. att. cod. proc. civ. stabilisce che gli atti e i
documenti inseriti nei fascicoli possono essere
esaminati dalle parti o dai loro difensori muniti di
procura).
Altro aspetto che il codice
deontologico non tratta espressamente è quello della
differenza tra regole di condotta, la cui violazione
costituisce illecito disciplinare, e regole di eleganza
o di buona educazione.
Spesso, nel corso delle
interminabili sedute del consiglio dell’Ordine, capita
di discutere di comportamenti (in particolare tra
colleghi) e di avere difficoltà nell’individuazione
dell’una o dell’altra ipotesi, posto che il codice
deontologico (art. 22) afferma genericamente che
l’avvocato deve mantenere nei confronti dei colleghi un
comportamento ispirato a correttezza e lealtà.
Lo spunto per la valutazione che ci
occupa nasce da una recentissima opera scritta dal
prestigioso avvocato Elio Di Rella[xiii].
L’Autore ci ricorda che i
dattiloscritti vanno intestati con illustrissimo,
pregiatissimo o, per le avvocate, gentile; il nome e il
cognome scritti in calce non devono essere preceduti da
avv., nè è elegante cancellare avv. dopo averlo fatto
scrivere.
Intuitivamente si tratta di regole
che restano confinate nel campo della buona educazione;
tuttavia un esempio pratico ci dimostrerà che non è
sempre così.
Se un avvocato scrivesse una
lettera a un collega omettendo qualunque titolo per il
destinatario oppure indicandolo come dott., il suo
intento sarebbe evidentemente quello di screditare
l’interlocutore negandogli il titolo che gli spetta;
questo comportamento potrebbe costituire un intenzionale
dileggio nei confronti del collega e come tale rientrare
nel divieto dell’art. 22.
Del resto, anche la puntualità agli
appuntamenti è comunemente vista come segno di buona
educazione, ma l’art. 23 canone I ne fa una regola
deontologica sia per le udienze che in ogni altra
occasione di incontro con i colleghi.
Altro argomento sul quale il codice
deontologico tace, ma che è sempre foriero di animate
discussioni, riguarda l’invio di una raccomandata con
ricevuta di ritorno da un avvocato a un altro.
L’Autore citato evidenzia che ciò
presuppone sfiducia nel destinatario, che potrebbe
negare l’avvenuta ricezione di una semplice lettera.
Eppure, l’art. 22 canone II
pretende che l’avvocato, prima di promuovere un giudizio
contro un collega, gli dia comunicazione per iscritto,
lasciando intendere che, in caso di contestazione
disciplinare, di tale invio occorrerà fornire prova.
La narrazione dell’Autore citato è
ricca di altri episodi interessanti ed illuminanti; mi
limiterò a chiudere questo punto facendo riferimento
alla telefonata tra colleghi, che dovrebbe essere sempre
fatta personalmente e non tramite la segretaria poiché
quest’ultimo comportamento è considerato come una
mancanza di riguardo e di rispetto.
3. Quello che il codice
deontologico diceva (ma non dice più)
Come detto, l’art. 22 del codice
deontologico prevede oggi, al canone II, l’obbligo per
l’avvocato che promuova un giudizio contro un collega
per fatti attinenti alla professione di dargli una
preventiva comunicazione scritta.
Ben più chiaro era il testo
precedente, oggi non più vigente, secondo il quale
l’avvocato, salvo particolari ragioni, non può rifutare
il mandato ad agire nei confronti di un collega, quando
ritenga fondata la richiesta della parte o infondata la
pretesa del collega.
Era una chiara norma di
responsabilità sociale: anticorporativa nella parte in
cui impediva all’avvocato di proteggere il collega, e
ben specifica sul punto della richiesta fondata e della
pretesa infondata.
L’ultimo aspetto indicato è quello
del classico decreto ingiuntivo ottenuto dall’avvocato
contro il cliente che ritenga esagerata la pretesa del
professionista.
Il vecchio testo era chiarissimo:
il nuovo avvocato aveva un dovere di verifica e di
controllo, e doveva accettare l’incarico solo in caso di
pretese non rispondenti alla prestazione svolta.
Tutto questo è stato cancellato e
sostituito da un asettico l’avvocato che intenda
promuovere... decisamente meno penetrante rispetto al
testo anteriore.
L’art. 16 del codice deontologico,
canone I, prevedeva che l’avvocato non deve porre in
essere attività commerciale o di mediazione.
Nei mesi scorsi il Consiglio
Nazionale Forense ha diffuso un’ipotesi di modifica del
codice deontologico finalizzata a dettare le regole di
comportamento per gli avvocati che svolgano le funzioni
di mediatore.
Il Consiglio dell’Ordine di
Catania, del quale faccio parte, ha offerto le proprie
osservazioni con un documento, evidenziando che l’art. 3
della legge professionale forense fissa
l’incompatibilità tra l’iscrizione nell’albo degli
avvocati e l’attività di mediatore.
L’art. 16 del codice deontologico
non era altro che l’esplicitazione della norma contenuta
nella fonte primaria.
Nel documento si evidenziava
altresì che il divieto di mediazione per gli iscritti
all’albo degli avvocati non poteva essere interpretato
in senso diverso rispetto a quello proprio delle parole
e non poteva essere superato in via regolamentare.
Con la modifica del 15 luglio 2011
il CNF ha riscritto il canone I dell’art. 16 in questi
termini: l’avvocato non deve porre in essere attività
commerciale o comunque attività incompatibile con i
doveri di indipendenza e di decoro della professione
forense.
Ha poi aggiunto al codice
deontologico l’art. 55 bis, relativo appunto alle regole
di comportamento dell’avvocato mediatore.
Ferma restando la dubbia questione
della compatibilità della riforma con il chiaro testo
della legge professionale, sembra comunque che la
novella non colga gli elementi essenziali della
mediazione finalizzata alla conciliazione.
La sfortunata collocazione
successiva all’art. 55, che parla dell’arbitrato, e cioè
di quei casi nei quali l’avvocato svolge la funzione di
giudice, ne è chiaro segno.
Altro segno è quello del canone I,
che prevede il divieto di assumere la funzione di
mediatore per l’avvocato che non abbia adeguata
competenza.
Sembra quasi che il mediatore
dell’art. 55 bis, così come l’arbitro del precedente
articolo, debba conoscere la materia in modo da poter
meglio guidare e orientare le parti nella ricerca della
soluzione amichevole.
Lo spirito della mediazione è
invece ben diverso: il mediatore non deve favorire una
soluzione tecnica, bensì aiutare le parti a ricercare le
vere ragioni del conflitto, spesso estranee
all’apparente oggetto della contesa, e superarle
affrontando la questione in un’ottica di collaborazione.
Al mediatore sono richieste doti
psicologiche e abilità comunicative, mentre non sono
richieste specifiche competenze, nemmeno giuridiche.
Altro ruolo è quello dell’avvocato,
che può favorire la ricerca di un punto d’incontro tra
le parti, utilizzando la propria conoscenza della legge:
ma questa non si chiama mediazione, bensì transazione.
Analogo errore, del resto, è
contenuto nell’art. 3 del D.M. 6 luglio 2011, n. 145,
alla lettera e) che stabilisce la necessità di assegnare
gli incarichi di mediatore secondo criteri rispettosi
delle specifiche competenze professionali, desunte anche
dalla laurea posseduta.
Sembra che ci si riferisca non alle
competenze in termini di abilità nel mediare, ma a
quelle riguardanti lo specifico oggetto della contesa.
Si tratta di errori comuni, come è
stato acutamente osservato[xiv], a chi pensa che “là
dove troviamo un codice, una costituzione, una legge
scritta che formula una regola identica a quella di un
altro paese, questa regola finisca necessariamente
coll’essere interpretata e applicata allo stesso modo
nelle due realtà ..”. mentre invece sulla regola
operativa incidono “una pluralità di fattori ... fra i
quali vale la pena di richiamare l’esistenza e
l’influenza di ceti giuridici professionali, di
controlli istituzionali efficaci...”.
Nel nostro Paese l’attività
storicamente riservata agli avvocati è quella
giudiziale, non quella di consulenza in generale: siamo
avvocati da citazioni, più che da contratti.
A parere di chi scrive, l’attività
di mediatore è quindi incompatibile con la professione
di avvocato sia per il chiaro disposto di legge, sia per
una profonda diversità di ruoli.
Ma questo, il codice deontologico
non lo dice: anzi dice l’esatto contrario.
(Altalex, 8 novembre 2011. Articolo
di Antonino Ciavola)
______________
Relazione tenuta durante l’incontro
formativo Essere avvocato, fare l’avvocato, Fondazione
Forense Perugia, 21 ottobre 2011; con Antonietta
Confalonieri, Mauro Carboni, Titta Madia, Antonella
Succi, M. Luisa Mammoli, Annarosa Sindico.
[i] Tra le tante opere cfr. R.
DANOVI, Il Codice Deontologico Forense, Giuffrè Editore.
[ii] Cfr. R. DANOVI, op. cit., pag.
9.
[iii] Per una ricostruzione più
completa vedi U. PERFETTI, Codice deontologico forense e
natura delle norme deontologiche, in Rass. Forense n.
2/2006, 931.
[iv] A. CIAVOLA, Regole
deontologiche e coscienza degli avvocati, in Rass.
Forense n. 2/2009, 255
[v] G. ALPA, L’avvocatura italiana
al servizio dei cittadini, Relazione al XXX Congresso
Nazionale Forense, § 2.
[vi] CNF 2 dicembre 1991 n. 116;
CNF 13 luglio 2001 n. 149.
[vii] CNF 23 maggio 1985.
[viii] CNF 11 febbraio 1987 n. 13;
parere Consiglio dell’Ordine di Milano, 1980, in R.
DANOVI, op. cit.
[ix] CNF 28 ottobre 1999 n. 186.
[x] cfr. R. DANOVI, op. cit., 492.
[xi] per un maggiore
approfondimento sul punto, rinvio al mio testo Avvocati,
Notai e carrozzieri: la ritenzione, in
www.deontologiaforense.it.
[xii] CNF, 30 dicembre 2009 n. 250,
in Rass. Forense n. 2/2010, 343.
[xiii] E. DI RELLA, Storia
dell’avvocatura genovese dall’Unità d’Italia, 88 e segg.
[xiv] M. BUSANI, Il diritto
dell’occidente, Einaudi, pag. 24. |