Magistrato Tar
1. La legge delega del 2009. 2. Le
ragioni sistematiche e sostanziali della esclusione dei
beni culturali. 3. Il decreto delegato del 2010. 4. Lo
speciale federalismo demaniale culturale. 5. Il comma 5
dell’articolo 5: gli accordi di valorizzazione. 5.a.
L’iniziativa, il procedimento e le parti. 5.b. La
facoltatività degli accordi. 5.c. La causa e il
contenuto degli accordi traslativi. 5.d. Gli effetti
degli accordi. 6. L’intermediazione della verifica
dell’interesse culturale. 7. Il rapporto con gli altri
poteri autorizzatori ministeriali in ordine alle
trasformazioni e agli usi del bene culturale. 8. Alcuni
enunciati normativi “spuri” contenuti nel comma 5. 9. Le
novità introdotte dal d.l. n. 70 del 2011. 10. Lo stato
di attuazione del federalismo demaniale culturale. 11.
Conclusioni.
1. La legge delega del 2009.
La norma primaria della legge di
delega n. 42 del 2009 presenta, per quanto riguarda il
regime dei beni culturali, una formulazione letterale
che non appare immediatamente perspicua e che potrebbe
ingenerare dubbi applicativi (peraltro definitivamente
fugati dal testo dell’articolo 5 del decreto legislativo
attuativo n. 85 del 2010, che si esaminerà nel prossimo
paragrafo).
In particolare, l’articolo 19,
comma 1, della legge delega del 2009, introduce, al
punto d) del comma 1, per i decreti legislativi
attuativi, il seguente principio e criterio direttivo:
“individuazione delle tipologie di beni di rilevanza
nazionale che non possono essere trasferiti, ivi
compresi i beni appartenenti al patrimonio culturale
nazionale”. Il decreto delegato n. 85 del 2010 ha inteso
questa disposizione primaria di delega senz’altro nel
senso della esclusione dei beni culturali nel loro
insieme dal meccanismo ordinario di trasferimento (come
configurato dagli articoli 2 e 3 del decreto medesimo),
riservando, per tale categoria di beni, un trattamento
speciale, regolato dall’art. 5, comma 5 (cui in realtà
rinvia il comma 2 dell’art. 5, posto che il rinvio, ivi
contenuto, al comma 7, riguardante i beni della
Presidenza della Repubblica, nonché i beni in uso al
Senato, alla Camera dei deputati, alla Corte
costituzionale, e agli organi di rilevanza
costituzionale, è frutto di un evidente refuso).
Il dubbio è dunque sciolto – in
modo, come si dirà, del tutto condivisibile – dal
decreto delegato attuativo, ma è utile comunque
affrontare approfonditamente l’esame della norma di
delega, anche al fine di chiarire alcuni profili di
ambiguità in essa rintracciabili e, soprattutto, di
eliminare ogni dubbio sulla conformità alla delega
dell’opzione attuata nell’art. 5, commi 2 e 5, del
decreto legislativo n. 85 del 2010.
La proposizione normativa recata
dall’art. 19 della legge n. 42 del 2009, sopra
riportata, sembra presentare un profilo di ambiguità
lessicale circa il senso - distributivo o collettivo -
del riferimento dell’attributo nazionale da essa
predicato: non è chiaro, nel riferimento dell’attributo
nazionale che segue il sostantivo patrimonio
(culturale), se la qualità (nazionale) sia predicata, in
senso distributivo, del singolo bene appartenente al
patrimonio culturale (che, se di rilevanza nazionale, è
escluso singulatim), o sia invece predicata, in senso
collettivo, della classe nel suo insieme (il patrimonio
culturale che, come dice l’art. 9 Cost., è della
Nazione). Guardando la questione da una diversa
angolazione, non è chiaro, nel riferimento della
relazione di appartenenza (ivi compresi) che lega alla
prima la seconda parte del periodo, se i beni
appartenenti al patrimonio culturale nazionale siano
compresi come classe (e, dunque, tutti) nella esclusione
dal trasferimento, in quanto il patrimonio culturale è
ex se di rilevanza nazionale, come termine universale,
oppure siano compresi – come singoli beni, e quindi come
termine particolare – tra le tipologie di beni esclusi,
se ed in quanto (alcuni) di rilevanza nazionale[1].
Detto in parole povere: se il patrimonio culturale è
tutto ex se di rilevanza nazionale (art. 9 Cost.),
allora i beni appartenenti al patrimonio culturale
nazionale sono inclusi nel loro insieme (ossia tutti)
tra quelli esclusi; se il patrimonio culturale nazionale
è costituito dai soli beni culturali di rilevanza
nazionale, allora soltanto questi ultimi saranno inclusi
tra quelli esclusi dal trasferimento.
L’ambiguità – se non superabile sul
piano dell’interpretazione letterale - deve essere
sciolta sulla base degli altri criteri ermeneutici che,
per l’appunto, soccorrono quando il senso fatto palese
dal significato letterale e proprio delle parole (art.
12 preleggi) non è sufficiente e non conduce a un
risultato univoco e certo. Occorre dunque fare
riferimento ai criteri interpretativi logico
sistematico, teleologico-finalistico e
storico-ricostruttivo.
Ma prima ancora di procedere
all’analisi funzionale e sistematica della disposizione
normativa, può tentarsi un’ultima osservazione, che si
pone ancora sul piano dell’interpretazione letterale:
tra le diverse opzioni ermeneutiche di una proposizione
normativa, come è noto, deve preferirsi quella che vale
ad attribuire alla disposizione stessa un autonomo
valore precettivo, piuttosto che quella che ne vanifichi
del tutto ogni portata aggiuntiva rispetto ad altre
disposizioni già contenute nello stesso testo di legge.
Orbene, in base a questo condiviso canone
interpretativo, tra le due soluzioni sopra prospettate –
esclusione dei beni appartenenti al patrimonio culturale
nazionale in senso distributivo (ossia, dei soli beni
che singolarmente presentano rilievo nazionale), oppure
esclusione dei beni appartenenti al patrimonio culturale
nazionale in senso collettivo (ossia di tutti i beni
culturali come classe) - deve senz’altro preferirsi la
seconda lettura, siccome capace di conferire
all’aggiunta ivi compresi etc. un significato autonomo
rispetto a quello già proprio dell’enunciato tipologie
di beni di rilevanza nazionale che non possono essere
trasferiti, rispetto al quale, altrimenti, la
specificazione ivi compresi. . . etc. rimarrebbe del
tutto priva di autonomia semantica e giuridica. Se,
infatti, i beni culturali dovessero essere esclusi solo
in quanto, singolarmente considerati, di rilevanza
nazionale, come possibili occorrenze concrete della
generale previsione di esclusione dei beni di rilevanza
nazionale, allora l’aggiunta ivi compresi . . . etc.
sarebbe del tutto inutile. Essa è, invece, utilissima e
ricca di un autonomo significato normativo se
(correttamente) intesa nel senso che la classe dei beni
appartenenti al patrimonio culturale è interamente di
rilevanza nazionale e dunque è interamente esclusa dal
trasferimento (come vedremo, da quello “di massa”,
ispirato a criteri soprattutto economico-finanziari e
patrimoniali, non da quello selettivo e mirato, ispirato
a criteri di migliore gestione e fruizione pubblica del
bene) [2].
2. Le ragioni sistematiche e
sostanziali della esclusione dei beni culturali.
E venendo agli altri criteri
interpretativi, deve osservarsi, in termini del tutto
convergenti, sul piano sistematico, che la nozione di
“bene culturale di rilevanza nazionale/locale”, già
conosciuta dall’ordinamento giuridico, giusta la
previsione dell’art. 150 del d.lgs. n. 112 del 1998, è
stata non a caso e significativamente espunta dal
sistema con l’espressa abrogazione della citata norma
disposta dall'art. 184 del codice dei beni culturali del
2004. La fallimentare esperienza delle commissioni
paritetiche all’uopo previste dalla citata norma del
1998 ha dimostrato l’impossibilità di introdurre una
sorta di graduatoria dell’interesse del bene culturale
che distinguesse in astratto quelli di interesse (o
rilievo) nazionale da quelli di interesse (o rilievo)
solo locale[3].
Sul piano finalistico e funzionale,
occorre poi considerare che sussiste un’oggettiva
incompatibilità tra la natura fondamentale (l’essenza) e
il modo di esistenza (l’ontologia) dei beni appartenenti
al patrimonio culturale e “le preponderanti finalità di
dismissione e privatizzazione” del patrimonio pubblico
insite nel sistema di federalismo demaniale (ordinario)
disegnato dal decreto attuativo n. 85 del 2010[4].
Esistono due possibili approcci fondamentali alla
gestione e valorizzazione dei beni pubblici: considerare
il bene pubblico come cespite patrimoniale da liquidare,
da monetizzare, e dunque come risorsa economica per il
raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica[5], o
considerare il bene per la sua naturale destinazione
alla fruizione pubblica, in quanto bene di tutti,
rispetto al quale la titolarità pubblica rileva solo
come custodia e non come potere di disposizione[6].
Naturalmente e storicamente, la considerazione dei beni
appartenenti al patrimonio culturale si è sempre
collocata e si colloca sul secondo versante, dove la
questione centrale è come trovare il modo per assicurane
la più proficua tutela e godibilità pubblica dei beni,
piuttosto che trovare il modo di liquidarli in valore
pecuniario (o di appostarli nell’attivo di bilancio per
raddrizzare i conti dissestati degli enti territoriali).
D’altra parte il lungo dibattito
sulla nozione di valorizzazione del patrimonio culturale
ha ormai chiarito che deve prevalere l’elemento
indiretto di fattore di crescita qualitativa del
territorio sull’elemento diretto di fonte immediata di
proventi pecuniari[7]. Il modello della valorizzazione
come dismissione, come vendita frazionata dei beni del
compendio al fine di massimizzare le entrate,
costituisce esattamente l’opposto contrario dell’idea
fondativa del patrimonio culturale, e si pone agli
antipodi, come l’omega sta all’alfa, rispetto alle
ragioni culturali, storiche, sociali e politiche della
funzione di tutela/valorizzazione del patrimonio
culturale. Questa chiarificazione fondamentale spiega il
perché dell’esclusione del patrimonio culturale nel suo
insieme dal meccanismo del federalismo demaniale
ordinario e la previsione di un federalismo demaniale
culturale speciale costruito su singoli progetti di
valorizzazione, nell’interesse della massimizzazione
della pubblica fruizione, da verificare di volta in
volta in una cornice concordata, su specifiche proposte
degli enti territoriali riceventi.
Di questo sistema (culturale, prima
ancora che giuridico), ereditato dalle prime leggi di
tutela degli inizi del XX sec. e ormai stabilizzatosi
(anche nel codice dei beni culturali e del paesaggio del
2004 e nei successivi affinamenti introdotti con i
decreti correttivi e integrativi del 2006 e del 2008),
tiene debitamente conto la legislazione sul federalismo
demaniale, approntando un regime speciale dei beni
culturali che armonicamente in esso si inquadra e con
esso si accorda. La formulazione della norma dell’art.
19 della legge delega sul federalismo esprime dunque
un’idea di fondo ben precisa del trattamento giuridico
dei beni appartenenti al patrimonio culturale,
imperniata sull’esclusione di forme di trasferimento di
massa, in blocco, secondo una logica contabile e di
bilancio, in favore di una logica legata a specifici
progetti di gestione e valorizzazione dei singoli beni,
sulla base di documentate iniziative degli enti
territoriali interessati.
La ratio ispiratrice fondamentale
della norma è dunque quella di rispettare l’interesse
dei proprietari veri del patrimonio culturale, che sono
non già lo Stato, le regioni, i comuni, che sono solo i
custodi incaricati della tutela e della gestione
nell’interesse generale, bensì i cittadini tutti, non
solo quelli di oggi, ma anche quelli di domani, perché
la tutela è fatta non solo nell’interesse di questa
generazione, ma anche e soprattutto delle future
generazioni (patrimonio: patrum munus, in inglese
heritage), nella logica connaturata alla demanialità
immanente ai beni a destinazione naturale pubblica,
quali sono i beni del patrimonio culturale[8].
Chiariti questi concetti
fondamentali di base, viene da sé, come un corollario
logico necessario, la conseguenza per cui ciò che conta,
per i beni culturali, è stabilire qual è il progetto di
gestione migliore, in raccordo con le preminenti
esigenze della tutela, rimanendo del tutto secondario e
marginale stabilire se la titolarità formale del bene
(che è solo funzione doverosa di custodia, non già e non
certo “proprietà”) vada ascritta allo Stato piuttosto
che all’uno o all’altro ente territoriale: poco importa,
dunque, in quest’ottica, se la titolarità del bene sta
nel demanio statale o in quello regionale o in quello
comunale, ciò che veramente conta è stabilire chi è (tra
queste istituzioni) nelle condizioni di gestirlo meglio
(tenendo nel debito conto che le funzioni di tutela sono
e restano di esclusiva competenza statale, di talché
resta del tutto fisiologico che, in molti casi, le
ragioni prioritarie della tutela impongano che la
titolarità del bene rimanga al demanio statale[9]).
Milita, infine, nella direzione che
si è rappresentata – ossia nella direzione di una
lettura della lettera d) del comma 1 dell’art. 19 della
legge n. 42 del 2009 nel senso della esclusione dal
meccanismo ordinario di trasferimento di tutti i beni
del patrimonio culturale, dovendosi l’attributo
nazionale riferire al sostantivo patrimonio e non ai
singoli beni che vi fanno parte - anche un ultimo
elemento interpretativo, costituito dal dato storico
della ricostruzione della voluntas legislatoris[10].
Orbene, è possibile affermare in proposito che la
suddetta norma di delega è stata frutto di un accordo
raggiunto nell’ambito del Governo (la norma, invero, non
ha subito modifiche in Parlamento, rispetto al testo
proposto dal Governo), finalizzato proprio a definire il
punto di equilibrio sopra esposto. Per conseguenza,
l’esclusione dal trasferimento dei “beni appartenenti al
patrimonio culturale nazionale” non significa, come pure
da taluni ritenuto, che tutti i beni culturali sono
trasferiti ex lege tranne quelli “di interesse
nazionale”, ma significa esattamente il contrario, e
cioè che i beni culturali tutti - che sono tutti parte a
pieno titolo del patrimonio culturale nazionale –
esigono un regime particolare e non possono essere
trattati alla stessa stregua di tutti gli altri beni
demaniali.
3. Il decreto delegato del 2010.
Il decreto legislativo n. 85 del
2010 non fa altro che esplicitare e chiarire meglio il
senso e la ratio della norma della legge delega,
precisando che i beni del patrimonio culturale nazionale
sono trasferibili in base alla normativa già vigente,
che è costituita dal Codice di settore del 2004, che già
offre tutti gli strumenti utili ad attuare i
trasferimenti finalizzati a migliorare il servizio al
pubblico di fruizione e di valorizzazione.
La norma del decreto delegato,
sulla cui formulazione vi è stata peraltro una proficua
interlocuzione collaborativa tra gli Uffici legislativi
dei Ministeri competenti, vuole raggiungere proprio
questo obiettivo: chiarire che tutti i trasferimenti
sono possibili e utili, purché inseriti in progetti
concreti per fare una migliore gestione del bene
culturale e con esclusione di trasferimenti puri e
semplici, finalizzati solo a trasferire competenze, a
soddisfare interessi autoreferenziali delle burocrazie
locali o a consentire all’ente locale di vendere
puramente per ragioni di bilancio.
4. Lo speciale federalismo
demaniale culturale.
Occorre adesso vedere come funziona
questo federalismo demaniale culturale speciale che
deroga a quello generale.
Il meccanismo generale prevede che
appositi dd.P.C.M. attueranno il trasferimento di tutti
i beni del demanio statale marittimo, idrico e
aeroportuale, mentre per gli altri beni demaniali
statali, individuati singolarmente o per gruppi mediante
l'inserimento in appositi elenchi, il trasferimento
avverrà su domanda degli enti territoriali, con
esclusione dei beni inclusi nominatim all’interno di
appositi elenchi redatti dall’Agenzia del demanio (in
base al comma 3 dell’art. 5, in forza del quale le
amministrazioni statali trasmettono all’Agenzia del
demanio gli elenchi motivati dei beni immobili di cui
richiedono l'esclusione e l'Agenzia, dopo un’istruttoria
e previo parere della Conferenza unificata, adotta
l’elenco e lo pubblica sul proprio sito internet).
Per i beni culturali opera invece
il combinato disposto dei commi 2 e 5 dell’art. 5 del
d.lgs. n. 85 del 2010, con esclusione dell’applicabilità
del comma 3, ora riportato. Ne consegue che il Ministero
per i beni e le attività culturali non deve redigere
nessun elenco dei beni del patrimonio culturale da
escludere dal trasferimento, ancorché la formulazione
del comma 3, nella sua ampiezza e genericità, potrebbe
indurre a pensare il contrario. Questa conclusione –
ossia che il Ministero di settore non deve redigere
alcun elenco di beni culturali di rilevanza nazionale da
escludere – trova causa e spiegazione nelle
considerazioni fondamentali di cui ai primi due
paragrafi: se, come si è visto, l’intero patrimonio
culturale è di rilevanza nazionale ed è escluso nella
sua interezza dal meccanismo del federalismo demaniale
ordinario, allora, quale corollario di questa premessa,
consegue che il comma 3 non può operare per il settore
dei beni culturali, per il quale vale solo la norma
speciale del comma 5, che reca la disciplina unica ed
esaustiva del federalismo demaniale culturale.
D’altra parte, un’ulteriore ragione
della specialità di regime dei beni culturali risiede
nell’impossibilità di redigere un elenco generale di
tutti i beni culturali o presunti tali ex artt. 10,
comma 1 e 12, comma 1, del codice di settore: si
tratterebbe, infatti, di un’attività inutile e del tutto
sproporzionata, in quanto estesa a ricomprendere tutti i
beni statali ultracinquantennali (ora
ultrasettantennali) e di autore non più vivente (nonché
dei beni mobili statali ultracinquantennali e di autore
non più vivente in essi eventualmente presenti che ne
costituiscono arredo o che sono posti al loro
servizio)[11], in qualche modo riconducibili alle
tipologie astratte di interesse culturale elencate
all’art. 10, commi 3 ss. del codice dei beni culturali.
Una simile elencazione era già prevista, sia pur in
forme diverse, dalla legge n. 1089 del 1939 e dal d.P.R.
n. 283 del 2000, ma non è mai stato possibile
realizzarla e sarebbe impensabile effettuarla oggi (per
di più entro il limite temporale di un anno dall’entrata
in vigore del decreto legislativo n. 85 del 2010).
La specialità di regime del
federalismo demaniale culturale comporta altresì un
principio di esaustività ed esclusività dell’accordo (ex
artt. 112, comma 4, codice e 5, comma 5, decreto del
2010) ai fini del perfezionamento dell’atto genetico e
della produzione degli effetti del trasferimento, con
esclusione, dunque, della necessità (e della stessa
possibilità) di fare ricorso, per i beni culturali, ai
decreti del Presidente del consiglio dei Ministri
attuativi dei trasferimenti previsti dagli artt. 3,
comma 4, e 7[12] del d.lgs. n. 85 del 2010. Fatti salvi
eventuali atti ricognitivi e puramente esecutivi
dell’Agenzia del demanio, una volta perfezionato
l’accordo – al quale deve del resto partecipare, pro
parte (ossia ai soli fini ed effetti del trasferimento
infrademaniale del bene), l’Agenzia del demanio – non è
né necessario, né consentito fare ricorso, sia pur a
fini soltanto ricognitivi, all’inclusione dei beni
culturali, oggetto degli accordi, nei surrichiamati
dd.P.C.M. iniziali e successivi.
5. Il comma 5 dell’articolo 5: gli
accordi di valorizzazione.
Il comma 5 dell’art. 5 prevede che,
nell'ambito di specifici accordi di valorizzazione e dei
conseguenti programmi e piani strategici di sviluppo
culturale, definiti ai sensi e con i contenuti di cui
all'articolo 112, comma 4, del codice dei beni culturali
e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22
gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni, lo
Stato provvede, entro un anno dalla data di entrata in
vigore del decreto delegato, al trasferimento alle
Regioni e agli altri enti territoriali, ai sensi
dell'articolo 54, comma 3, del citato codice, dei beni e
delle cose indicati nei suddetti accordi di
valorizzazione.
Secondo l’articolo 54, comma 3, del
Codice “I beni e le cose di cui ai commi 1 e 2 possono
essere oggetto di trasferimento tra lo Stato, le regioni
e gli altri enti pubblici territoriali. Qualora si
tratti di beni o cose non in consegna al Ministero, del
trasferimento è data preventiva comunicazione al
Ministero medesimo per le finalità di cui agli articoli
18 e 19”. L’articolo 54 riguarda la circolazione dei
beni in ambito nazionale. Il comma 3 costituisce una
deroga ai divieti di circolazione dei beni del demanio
culturale (inalienabilità di alcune categorie di beni)
sanciti dal comma 1. La disposizione si raccorda con il
procedimento autorizzatorio previsto dall’articolo 55.
L’ultimo periodo del comma 3 è stato aggiunto con il
correttivo di cui al d.lgs. n. 63 del 2008 e (lì dove
richiede che, per i beni di cui il Ministero per i beni
e le attività culturali non abbia la disponibilità,
venga data comunicazione al Ministero) mira a consentire
in ogni caso il controllo ministeriale sull’utilizzo del
bene oggetto di trasferimento infrademaniale, al fine di
non vanificare la prioritarie esigenze di tutela.
In base all’art. 112, comma 4, del
codice dei beni culturali “Lo Stato, le regioni e gli
altri enti pubblici territoriali stipulano accordi per
definire strategie ed obiettivi comuni di
valorizzazione, nonché per elaborare i conseguenti piani
strategici di sviluppo culturale e i programmi,
relativamente ai beni culturali di pertinenza pubblica.
Gli accordi possono essere conclusi su base regionale o
subregionale, in rapporto ad ambiti territoriali
definiti, e promuovono altresì l'integrazione, nel
processo di valorizzazione concordato, delle
infrastrutture e dei settori produttivi collegati. Gli
accordi medesimi possono riguardare anche beni di
proprietà privata, previo consenso degli interessati. Lo
Stato stipula gli accordi per il tramite del Ministero,
che opera direttamente ovvero d'intesa con le altre
amministrazioni statali eventualmente competenti”.
Gli accordi in questione si
collocano, come una figura applicativa speciale,
nell’alveo della previsione dell’art. 15 della legge n.
241 del 1990, in base al quale le amministrazioni
pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per
disciplinare lo svolgimento in collaborazione di
attività di interesse comune e per tali accordi si
osservano le disposizioni previste dall'articolo 11 in
tema di forma scritta ad substantiam e di applicabilità
dei princìpi del codice civile in materia di
obbligazioni e contratti in quanto compatibili.
Ciò premesso, sono essenzialmente
quattro i profili che presentano taluni elementi
problematici e che perciò è utile focalizzare e
chiarire: 1) l’iniziativa (che spetta agli enti
territoriali, sulla base di specifici progetti di
valorizzazione del bene o dei beni di cui si richiede il
trasferimento), il procedimento e la competenza alla
stipula; 2) la natura (naturalmente facoltativa) degli
accordi; 3) la causa e il contenuto degli accordi (che
restano quelli originari di valorizzazione, rispetto ai
quali il trasferimento è un possibile contenuto
aggiuntivo non necessario, ma solo facoltativo); 4) gli
effetti (che sono di trasferimento infrademaniale, da
demanio a demanio, in deroga alla previsione generale
del d.lgs. n. 85 del 2010, che implica di regola il
passaggio dal demanio statale al patrimonio disponibile
dell’ente attributario).
5.a. L’iniziativa, il procedimento
e le parti.
Circa il primo profilo, quello
dell’iniziativa, emerge, per i beni culturali,
un’evidente inversione dell’onere di attivazione del
procedimento: mentre per tutti gli altri beni, anche gli
altri beni esclusi ex comma 2 dell’art. 5, è lo Stato
che deve formare l’elenco dei beni sottratti al
trasferimento e deve motivare in ordine al mancato
trasferimento – che si attuerà, poi, mediante la formale
domanda di assegnazione proveniente dal singolo ente
territoriale interessato (cfr. art. 3, comma 4)[13] -
nel caso dei beni culturali opera la regola opposta:
devono essere le autonomie territoriali ad agire per
chiedere il trasferimento mediante la proposta al
Ministero di uno specifico accordo di valorizzazione. Il
Ministero potrà valutare la proposta di accordo di
valorizzazione e dovrà decidere – con l’unico canone di
giudizio della massimizzazione della cura dell’interesse
pubblico di sua competenza, di tutela e di
valorizzazione del bene culturale – se la migliore
soluzione, da questo punto di vista, per la corretta
tutela e gestione del bene, sia effettivamente
costituita dalla stipula dell’accordo e dalla
prestazione del consenso al trasferimento del bene. Nel
compiere questa valutazione, naturalmente, il Ministero
non potrà non tenere in considerazione anche la
dimensione e la rilevanza dello specifico bene culturale
di cui si tratta, se di interesse meramente locale
oppure se avente significato e rilievo precipui anche a
livello sovralocale e/o nazionale.
Emerge, dunque, come
l’apprezzamento della dimensione “spaziale”
dell’interesse (o la sua rilevanza), nazionale e
sovralocale o meramente localizzata, che non può
ragionevolmente compiersi in astratto e in generale,
dovrà e potrà essere compiuta (più realisticamente e
ragionevolmente) in concreto, caso per caso, guardando
allo stato di conservazione e alle prospettive di
recupero e di riutilizzo del singolo bene esaminato,
alla luce di uno specifico e documentato progetto di
valorizzazione avanzato dall’ente territoriale. La
dimensione – nazionale o locale – non è dunque una
qualità intrinseca del bene culturale, predicabile in
astratto, ma soltanto un carattere accidentale relativo
al modo migliore, qui ed oggi, di garantirne una
gestione in linea con le finalità di tutela e
valorizzazione.
Da questo punto di vista trova
un’ulteriore, coerente esplicitazione il principio,
sopra esaminato, dell’impossibilità di pretendere che il
Ministero, dal centro, possa procedere di sua iniziativa
alla redazione di un elenco dei beni culturali (o
presunti culturali) statali e degli altri enti pubblici
nazionali da trasferire, vigendo, in questo campo, un
criterio di prossimità della prova, un criterio per cui,
in sostanza, l’onere di iniziativa grava sul soggetto
che si trova nelle condizioni migliori per conoscere e
valutare le possibili iniziative di
gestione/valorizzazione del singolo bene. La logica
della norma del comma 5 postula, secondo un principio di
prossimità, che l’iniziativa del trasferimento, ossia la
proposta di accordo di valorizzazione, provenga dal
singolo ente locale interessato, che ha presso di sé,
nel proprio territorio, i beni di interesse, li conosce
ed è più facilmente in grado di farsi parte diligente e
promotore di progetti validi di gestione preordinati
alla definizione dello specifico accordo di
valorizzazione volto (anche) ad attivare il
trasferimento del bene. Non incombe dunque sullo Stato
l’onere di attivarsi al fine di definire siffatti
accordi, dovendo, tale onere, per le ragioni logiche ora
esposte, ritenersi ricadente sugli enti locali
interessati, e ciò anche in considerazione del fatto che
il progetto di valorizzazione spesso comporta dei costi,
di restauro e di gestione, che il singolo ente locale
dovrà attentamente valutare e ponderare prima di
proporre la stipula dell’accordo. L’acquisto del bene
culturale, da parte dell’ente locale, senza un valido
progetto di gestione, rischia infatti di tradursi per
l’ente locale medesimo in un gravoso onere di
manutenzione e di gestione che, anziché giovare al
bilancio, rischia di pregiudicarlo ulteriormente.
All’obiezione secondo cui il Comune
non può prendere iniziative progettuali (ad es. mediante
project financing) in relazione a beni “non suoi”, può
agevolmente replicarsi rilevando che è ben possibile la
stipula di pre-intese o accordi normativi (protocolli
d’intesa), di carattere programmatico, mediante i quali
il Ministero assume l’impegno di trasferire nel caso in
cui la procedura di project financing sortisca esito
positivo con approvazione del progetto del promotore e
successiva aggiudicazione della gara per le ulteriori
fasi di progettazione e realizzazione dei lavori (con
conseguente concessione del bene). Al riguardo deve
rammentarsi che – come sarà chiarito più ampiamente nel
paragrafo 7 – in ogni caso, anche allorquando il bene
sia già in titolarità comunale, qualsiasi progetto di
trasformazione, ma anche solo di recupero e restauro,
nonché di concessione in uso, deve necessariamente
acquisire le autorizzazioni in linea di tutela del
Ministero, di talché il coinvolgimento
dell’amministrazione statale nel progetto di recupero è
comunque necessario ed è necessario che sia attivato sin
dalle prime fasi ideative del progetto medesimo.
In ordine alle parti, oltre al
Ministero per i beni e le attività culturali e all’ente
territoriale (Regione, Provincia o Comune), è necessaria
la partecipazione dell’Agenzia del demanio, in ragione
delle sue funzioni in materia di amministrazione dei
beni immobili dello Stato, ai sensi dell’art. 65 del
d.lgs. n. 300 del 1999 (e ciò indipendentemente dalla
circostanza che il bene oggetto di trasferimento sia in
consegna al Ministero per i beni e le attività culturali
o, come accadrà più frequentemente, di altra
amministrazione statale).
Talune perplessità desta il tema
della competenza interna del Ministero per i beni e le
attività culturali. Da un lato, infatti, potrebbe
ritenersi che il Ministero debba partecipare all’accordo
in persona del Ministro pro tempore, atteso che il
regolamento di riorganizzazione del Ministero (d.P.R. 26
novembre 2007, n. 233, come modificato dal d.P.R. 2
luglio 2009, n. 91) non menziona tale competenza né
nell’art. 17, relativo alle attribuzioni del direttore
regionale (ove, al comma 1, è prevista una generica
funzione di cura dei rapporti del Ministero e delle
strutture periferiche con le regioni, gli enti locali e
le altre istituzioni presenti nella regione medesima),
né nell’art. 7, concernente le competenze della
direzione generale per il paesaggio, le belle arti,
l'architettura e l'arte contemporanee. Sennonché
potrebbe obiettarsi in senso contrario che la stipula
dell’accordo avrebbe consistenza di atto di gestione e
non di indirizzo politico-amministrativo, come tale
spettante alla dirigenza. A questa obiezione potrebbe
tuttavia replicarsi con il rilievo che, comunque,
l’accordo traslativo, come atto di straordinaria
amministrazione, implicante la scelta di dismissione di
un bene demaniale statale, dovrebbe più correttamente
essere riferito alla responsabilità dell’accordo
politico (ferma restando, s’intende, la funzione
istruttoria e preparatoria che sarà svolta, a livello
territoriale, dalla direzione regionale e dalle
soprintendenze competenti). La giurisprudenza[14] ha
peraltro di recente statuito, ancorché con riferimento
all’art. 10 del d.P.R. n. 283 del 2000, ma con un
ragionamento estensibile anche al codice dei beni
culturali, art. 57-bis, e al regolamento di
organizzazione del Ministero, che spetta al direttore
regionale l’autorizzazione all’alienazione e le annesse
prescrizioni anche di misure conservative, mentre spetta
al soprintendente l’autorizzazione all’intervento
edilizio sul bene (ex art. 21 codice).
Di regola l’accordo di
valorizzazione, concernente determinati beni culturali
(spesso non solo statali, ma anche regionali e comunali
e, in taluni casi, anche di privati, secondo una logica
di integrazione a rete del “bacino” culturale di
riferimento), viene preceduto da un protocollo d’intesa,
che si pone come atto programmatorio a valenza più
squisitamente politica, che può riguardare una
pluralità, anche eterogenea, di azioni comuni e
coordinate dei diversi livelli territoriali di governo
(dalla co-pianificazione paesaggistica alla promozione
di attività culturali, oltre che alla gestione in comune
di uno o più beni culturali, anche con la previsione di
appositi soggetti fondazionali di partecipazione misti
deputati alla progettazione del servizio di
valorizzazione culturale, anche a mezzo del conferimento
in uso dì uno o più beni tra quelli riguardati
dall’accordo). Siffatti protocolli d’intesa sono di
regola sottoscritti dagli organi di vertice delle
rispettive amministrazioni (Ministro per i beni e le
attività culturali o Sottosegretario di Stato delegato;
Presidente di giunta o Sindaco, oppure assessore al ramo
per le Regioni, le Province, i Comuni) e, per essi, non
occorre la partecipazione dell’Agenzia del demanio (tali
atti programmatici, infatti, hanno valore, in un certo
senso, se riguardati da un punto di vista civilistico,
di contratti per così dire “normativi”, capaci di
effetti meramente obbligatori, ma privi di efficacia
traslativa dei beni). A valle di tali protocolli
d’intesa si pongono poi i singoli accordi attuativi di
dettaglio, riguardanti le singole azioni o le specifiche
aree di intervento congiunto. In questo caso, per questi
accordi attuativi, allorquando già sia intervenuta “a
monte” la sottoscrizione, da parte del Ministro, di un
protocollo d’intesa programmatico, può sicuramente
ritenersi che, per lo Stato, ferma restando la
partecipazione dell’Agenzia del demanio in caso di
trasferimento di beni, la stipula possa essere affidata
al direttore regionale territorialmente competente. Il
momento genetico del trasferimento deve essere
identificato nell’accordo (titulus adquirendi), ferma
restando la normale necessità di atti
dell’amministrazione del demanio attuativi del
trasferimento (modus adquirendi).
5.b. La facoltatività degli
accordi.
Riguardo alla natura degli accordi
di cui al comma 5, il punto essenziale che deve essere
posto in luce è che essi sono, come è nella natura
stessa degli accordi, volontari, facoltativi, non
obbligatori. Essi possono, ma non devono essere
necessariamente stipulati, poiché sarebbe in contrasto
con i principi e con la logica prevedere un accordo
dovuto e vincolato nell’an (se stipulare) e nel quid
(con quale oggetto dispositivo). La natura dell’accordo
è per definizione volontaria, sia sul se stipulare
l’accordo, sia sul che cosa stipulare. Vige, anche nel
diritto pubblico, in materia di accordi tra pubbliche
amministrazioni, lo stesso principio di consensualità e
di pariteticità che vige nel diritto privato, ragion per
cui ciascuna amministrazione, pur sempre nell’ambito dei
fini ad essa assegnati dalla legge e nel perseguimento
dell’interesse pubblico di propria competenza, è libera
di formare e manifestare il proprio consenso all’interno
di accordi con altre istituzioni, ma non può essere a
ciò tenuta o vincolata. Non c’è dubbio che la norma sul
federalismo demaniale esprima un favor per la
trasferibilità dei beni, ma la conclusione dell’accordo
deve comunque essere di volta in volta decisa e motivata
in concreto su solide ragioni di convenienza e
opportunità per il miglioramento della gestione e
valorizzazione del bene stesso.
5.c. La causa e il contenuto degli
accordi.
Riguardo al terzo profilo, deve
essere sottolineato che la nuova norma del 2010 non ha
in alcun modo snaturato la funzione e la struttura
proprie degli accordi di valorizzazione di cui all’art.
112 del codice, ma ne ha semplicemente previsto un
possibile contenuto aggiuntivo. Un contenuto aggiuntivo
non necessario, ma solo possibile ed eventuale. In altri
termini, il trasferimento dei beni – contemplato dal
comma 5 dell’art. 5 del d.lgs. n. 85 del 2010 –
costituisce non già un contenuto o un effetto naturale e
necessario degli accordi di valorizzazione di cui
all’art. 112 del codice, bensì un possibile contenuto
(ed effetto) ulteriore, da pattuirsi di volta in volta
nei singoli accordi, posto che la norma del 2010 non ha
affatto inteso (né avrebbe mai potuto intendere, in
assenza di delega in tal senso) modificare il contenuto
tipico e naturale degli accordi di valorizzazione di cui
all’art. 112, comma 4, del codice. Il che implica che si
potrà senz’altro continuare a stipulare accordi di
valorizzazione ex art. 112, comma 4, privi di ogni
effetto traslativo, ma finalizzati al solo obiettivo
(ordinario) di definire modalità congiunte e
collaborative, tra Stato ed autonomie territoriali, di
valorizzazione di beni culturali statali, senza alcuna
previsione di alienazione dei beni in essi considerati.
Così come potrà senz’altro accadere che con un medesimo
accordo stipulato tra Stato e Regione o tra Stato e
Comune, riguardante una pluralità di beni culturali
(statali, regionali, comunali), riguardo ai beni statali
potrà convenirsi e pattuirsi, per alcuni, il
trasferimento all’ente territoriale della sola gestione
(con conferimento in uso), mentre per altri anche il
trasferimento della titolarità, ex art. 5, comma 5, del
d.lgs. n. 85 del 2010, e per altri ancora potrà
stabilirsi una qualche forma di gestione comune, oppure
il conferimento in uso ad un soggetto fondazionale
appositamente costituito ex art. 112, comma 4, del
codice di settore: l’unico criterio decisivo resterà,
dunque, la convenienza e opportunità per l’interesse
generale, ossia la scelta della forma migliore di
titolarità e/o gestione più rispondente in concreto
all’interesse pubblico di tutela, pubblica fruibilità e
valorizzazione del bene culturale. Tali accordi
esibiranno, dunque, una doppia, convergente base
giuridica: l’art. 112 del codice di settore e l’art. 5,
comma 5, del decreto sul federalismo demaniale del 2010,
per quanto riguarda la clausola di trasferimento
infrademaniale.
Deve dunque concludersi sul punto
nel senso che l’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 112 del
2010 non ha creato un nuovo tipo di accordo
interistituzionale, ma ha solo “allargato” il possibile
oggetto e i possibili effetti di quelli già previsti
dall’art. 112 del codice di settore. Del resto, non a
caso, la disposizione normativa del 2010 adopera la
locuzione nell’ambito di specifici accordi di
valorizzazione. . . definiti ai sensi e con i contenuti
di cui all'articolo 112 del codice dei beni culturali
del 2004. L’accento va posto sull’attributo specifici
che qualifica il sostantivo accordi di valorizzazione,
il che dimostra inequivocabilmente che gli accordi de
quibus costituiscono una forma speciale del modello
generale di cui all’art. 112 del codice, la cui
peculiarità consiste proprio nell’ampliamento possibile
dell’oggetto dell’in idem placitum consensus stipulato
tra le parti, fino a ricomprendere anche l’ulteriore
effetto di trasferimento di taluni beni
Da queste premesse deriva un’altra
conclusione: gli accordi di valorizzazione ex art. 112,
comma 4, del codice, richiamati dalla norma in esame, di
cui al comma 5 dell’art. 5 del decreto sul federalismo
demaniale, costituiscono la condizione necessaria, ma
non sufficiente per il trasferimento. Non basta un
accordo di valorizzazione quale che sia, riguardante uno
o più beni culturali statali, perché questi beni siano
ipso facto trasferiti all’ente territoriale. Occorre,
invece, un’apposita, inequivoca ed esplicita
manifestazione congiunta di volontà delle parti sullo
specifico effetto di trasferimento, che costituisce un
di più, un effetto ulteriore, solo eventuale e non
naturale dell’accordo di valorizzazione, che in tanto si
concreta in quanto su di esso si sia formata una chiara
e distinta volontà congiunta (consenso) delle parti
paciscenti. Solo un’apposita ed esplicita stipulazione
tra le parti, in conclusione, può autorizzare ad
attribuire all’accordo di valorizzazione ex art. 112,
comma 4, del codice, anche l’effetto ulteriore,
consentito dal comma 5 dell’art. 5 del d.lgs. n. 58 del
2010, di trasferimento di (alcuni o tutti) i beni in
esso considerati dal demanio o dal patrimonio
indisponibile statale a quello dell’autonomia
territoriale.
5.d. Gli effetti degli accordi
traslativi.
Sul piano effettuale, il tratto
distintivo e speciale che differenzia il regime del
federalismo demaniale culturale dal federalismo
demaniale ordinario e comune alle altre tipologie di
beni si rinviene nel fatto che il federalismo demaniale
culturale opera un passaggio da demanio a demanio, e non
– come per le altre tipologie di beni – da demanio a
patrimonio disponibile[15]. Il bene culturale trasferito
in base allo specifico accordo di valorizzazione è
dunque iscritto non già – come avviene per gli altri
trasferimenti – nel patrimonio disponibile dell’ente
territoriale destinatario, bensì nel demanio culturale
(trattandosi di beni immobili) dell’ente medesimo.
Ciò è stabilito positivamente dal
richiamo all’art. 54, comma 3, del codice dei beni
culturali e del paesaggio, contenuto nell’art. 5, comma
5 in esame. L’art. 54, comma 3, sopra citato, come si è
potuto vedere, riguarda per l’appunto il passaggio da
demanio statale a demanio dell’ente territoriale
destinatario del trasferimento.
Questa inequivoca disposizione
normativa trova fondamento nella più volte richiamata
naturale destinazione del bene culturale alla pubblica
fruizione e, quindi, nella sua naturale demanialità,
intesa come appartenenza diretta all’uso generale, salve
eccezioni motivate in ragione di preminenti esigenze di
tutela o di particolare convenienza a fini di
valorizzazione[16].
6. L’intermediazione della verifica
dell’interesse culturale.
Si è già ricordato che, in forza
del combinato disposto degli artt. 10, comma 1 e 12,
comma 1, del codice di settore, le cose immobili e
mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri
enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed
istituto pubblico e a persone giuridiche private senza
fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici
civilmente riconosciuti, che presentano interesse
artistico, storico, archeologico o etnoantropologico,
che siano opera di autore non più vivente e la cui
esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni,
se mobili, o ad oltre settanta
anni, se immobili sono sottoposte alle disposizioni di
tutela fino a quando non sia stata effettuata la
verifica dell’interesse culturale[17].
L’esito della verifica è sempre
molto chiaro: in caso di esito positivo, il bene è
vincolato a tutti gli effetti (la presunzione di
culturalità si attualizza e si stabilizza); se la
verifica è negativa il bene – se non vincolato ad altri
fini istituzionali - è sdemanializzato e restituito al
patrimonio disponibile dell’ente, libero e franco da
vincoli di sorta (torna, dunque, in comune commercio e
uso).
Si è altresì ricordato come la
verifica sia stata introdotta per ovviare all’incertezza
giuridica legata al vecchio modello degli elenchi (mai
realizzati)[18].
Il primo passo da compiere, dunque,
nella procedura volta all’eventuale trasferimento,
consiste nella richiesta di verifica dell’interesse
culturale (se non già eseguita con esito positivo), che
l’ente territoriale interessato dovrà proporre al
Ministero[19]. Il termine massimo di durata del
procedimento è di centoventi giorni. Se la verifica dà
esito positivo, il bene è “certificato” culturale a
tutti gli effetti e trova applicazione il comma 5
dell’art. 5 del d.lgs. n. 85 del 2010. Se la verifica è
negativa, il bene non è un bene culturale e ricade nel
meccanismo di federalismo demaniale ordinario (art. 3
del decreto legislativo del 2010).
Naturalmente, anche per accelerare
i tempi, sarà sempre possibile procedere con atti e
procedimenti contestuali o paralleli, nel senso che,
sulla base di uno specifico e documentato progetto di
valorizzazione presentato dall’ente territoriale, il
Ministero, previa verifica dell’interesse culturale e in
caso di esito positivo di tale verifica, potrà
senz’altro addivenire all’approvazione del progetto di
intervento, ai sensi della norma di tutela contenuta
negli artt. 20 ss. del codice di settore, nonché, per
quanto concerne il tipo di utilizzo prefigurato del
bene, ai sensi dell’art. 57-bis del medesimo codice, e
alla manifestazione del proprio consenso alla stipula
dell’accordo di valorizzazione, anche con effetti
traslativi. Questo atto – che si porrebbe, in un certo
senso, rispetto al negozio traslativo, in termini di
delibera a contrattare - darebbe il via al procedimento
istruttorio partecipato e condiviso – svolto dalla
locale soprintendenza con l’ausilio e il coordinamento
della direzione regionale ministeriale – diretto alla
predisposizione della bozza di accordo che, infine,
tramite la direzione centrale e il segretariato
generale, nonché, ove del caso, previo parere del
competente comitato tecnico-scientifico di settore,
potrà essere sottoposto alla valutazione del Ministro ai
fini della successiva sottoscrizione (sempre che non si
ricada in una ipotesi di competenza del solo direttore
regionale).
7. Il rapporto con gli altri poteri
autorizzatori ministeriali in ordine alle trasformazioni
e agli usi del bene culturale.
Quanto al rapporto con gli altri
poteri autorizzatori ministeriali in ordine alle
trasformazioni e agli usi del bene culturale, occorre
muovere da una prima considerazione fondamentale: anche
in caso di accordo di valorizzazione traslativo,
attuativo del federalismo demaniale culturale, il bene
trasferito all’ente locale (che passa, se bene immobile,
al demanio dell’ente acquirente) resta sottoposto a
tutta la disciplina di tutela del codice di settore del
2004. Il che significa che la sua eventuale
trasferibilità a terzi – anche privati – dovrà
soggiacere alle condizioni e alle limitazioni derivanti
dalle norme della parte II, capo IV (Circolazione in
àmbito nazionale), sezione I (Alienazione e altri modi
di trasmissione), artt. 53 ss., del codice dei beni
culturali e del paesaggio, mentre ogni intervento
modificativo dovrà essere sottoposto a preventiva
autorizzazione del soprintendente (ai sensi delle
disposizioni del medesimo codice, parte II, capo III -
Protezione e conservazione - sezione I - Misure di
protezione, artt. 20 ss.).
La gestione del bene culturale è
condizionata dal principio di priorità della tutela
(art. 6, comma 2, del codice, per cui La valorizzazione
è attuata in forme compatibili con la tutela e tali da
non pregiudicarne le esigenze). Il che vuol dire che
l’intera fase progettuale (e anche quella esecutiva)
dell’intervento di recupero devono passare al vaglio del
controllo preventivo della soprintendenza (art. 21 del
codice). Al controllo sul progetto e sull’esecuzione dei
lavori, segue (o si affianca) quello sull’uso del bene
stesso (gli artt. 57-bis e 106 del codice, ancor più
nella versione successiva alla seconda novella, di cui
al d.lgs. n. 62 del 2008, che ha in sostanza ripreso
l’impostazione del vecchio d.P.R. n. 283 del 2000,
impongono un rigoroso regime di controllo sull’uso dei
beni culturali pubblici dati in concessione e
alienandi)[20].
Sussiste, dunque, un doppio regime
autorizzatorio, espressione della stessa funzione di
tutela, incidente sul medesimo progetto realizzativo,
sia pur sotto due punti di vista parzialmente
differenti: da un lato il controllo sui lavori da
eseguire, sotto il profilo della conservazione e
protezione della consistenza materiale identificativa
del bene e del suo valore culturale (controllo volto,
cioè, a impedire manomissioni e alterazioni
pregiudizievoli dei caratteri distintivi del bene);
dall’altro, il controllo sull’uso del bene, sulla
finalizzazione, dunque, del recupero, sotto il profilo
della prevenzione di ogni pregiudizio per la sua
conservazione e per il decoro della sua immagine che
possano derivare da utilizzi impropri del bene stesso.
E’ altamente auspicabile, dunque,
che il progetto di valorizzazione, in base al quale
l’ente locale può avviare la procedura volta all’accordo
di trasferimento del bene, sia sin dall’inizio
debitamente concertato con la soprintendenza, sia sotto
il profilo della finale destinatarietà dell’attribuzione
(eventuale ipotesi di ulteriore trasferimento a terzi),
sia sotto il profilo del tipo di impiego e dei lavori
necessari per l’eventuale adattamento e restauro del
bene medesimo.
8. Alcuni enunciati normativi
“spuri” contenuti nel comma 5.
Deve infine osservarsi, per
completezza di esame del testo del decreto delegato del
2010, che talune locuzioni, forse non appropriate,
presenti nel testo finale della norma dell’art. 5, comma
5, devono naturalmente essere lette in accordo logico
con il senso complessivo delle disposizioni in esame. Ci
si deve in particolare interrogare sul senso della
previsione, contenuta nel comma 5, del trasferimento dei
beni culturali in sede di prima applicazione del
presente decreto legislativo, trasferimento cui lo Stato
dovrebbe provvedere, entro un anno dalla data di entrata
in vigore del presente decreto.
Il riferimento alla sede di prima
applicazione del decreto legislativo appare inutile,
poiché, in realtà, il meccanismo imperniato sugli
accordi specifici di valorizzazione, come sopra
illustrato, può senz’altro ritenersi a tutti gli effetti
il regime ordinario esaustivo e definitivo di
applicazione ai beni culturali del federalismo
demaniale.
Quanto poi all’ultimo periodo del
comma 5, ove si prevede che lo Stato dovrebbe provvedere
al trasferimento entro un anno dalla data di entrata in
vigore del decreto, è evidente che trattasi di un
termine solo sollecitatorio (e non perentorio):
diversamente si avrebbe la conseguenza assurda
dell’impossibilità di trasferimento in una data
successiva. Il significato dell’espressione provvede al
trasferimento deve poi essere chiarito e precisato nel
senso che con essa il legislatore delegato non ha inteso
introdurre e prevedere atti traslativi “a valle” degli
accordi, ma ha solo inteso riferirsi alla fase attuativa
degli accordi, che riguarda esclusivamente il momento
esecutivo di adempimento dell’accordo raggiunto. In ogni
caso il termine non è riferibile alla stipula degli
accordi, ossia degli atti genetici del trasferimento
che, in quanto accordi volontari, sono incoercibili e
sfuggono alla logica di un termine perentorio di
conclusione, atteso che la stipula è rimessa alla libera
determinazione del mutuo consenso tra le parti (Stato ed
ente locale) che deve convergere sulla specifica volontà
di trasferire la titolarità del bene[21].
La nota di doverosità insita nelle
sopra trascritte locuzioni normative si risolve, dunque,
esclusivamente nella necessità di leale cooperazione che
il Ministero deve prestare nel valutare, insieme alle
autonomie territoriali che lo richiedano e alla stessa
Agenzia del demanio, di volta in volta, nell’ambito di
specifici accordi di valorizzazione, la trasferibilità
dei beni richiesti. La previsione secondo cui lo Stato
provvede entro un anno dalla data di entrata in vigore
del presente decreto appare dunque essere piuttosto un
residuo improprio di una logica acceleratoria che
pervade l’intero decreto legislativo n. 85 del 2010, che
non il frutto di una ponderata e razionale scelta
coerente del legislatore delegato. Trattasi, in altri
termini, di una previsione di carattere ottativo, con la
quale la norma intende imprimere una spinta
sollecitatoria alla conclusione degli accordi, ma che
non cambia la sostanza del regime giuridico di questi
istituti, per come sopra ricostruita; una disposizione,
inoltre, che, soprattutto, non ha carattere perentorio
(gli accordi e i trasferimenti potranno validamente
farsi anche dopo il decorso dell’anno) e non “sposta”
l’onere di proposta, che grava interamente sulle
autonomie territoriali interessate.
9. Le novità introdotte dal d.l. n.
70 del 2011.
L’art. 4, comma 16, del decreto
legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo - Prime
disposizioni urgenti per l'economia), convertito, con
modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, ha
elevato a settanta anni il requisito minimo di
storicizzazione per la presunzione di culturalità
(recte: per la sottoposizione interinale a tutela fino a
verifica) delle cose immobili indicate al comma 1
dell’art. 10 (pubbliche e “parapubbliche”) e ciò proprio
al fine di “riconoscere massima attuazione al
Federalismo Demaniale”.
La norma costituisce una risposta
alla critica, da più parti formulata, secondo cui il
Ministero di settore avrebbe rallentato il meccanismo
attuativo del federalismo demaniale pretendendo di
sottoporre alle laboriose e lunghe procedure di verifica
preventiva dell’interesse culturale migliaia di immobili
– asseritamente di nessun valore culturale –
dell’edilizia economica e popolare degli anni ’50 del
secolo scorso (che ha ormai maturato i 50 anni).
E’ stato di contro lamentato il
fatto che la nuova norma avrebbe comportato il rischio
di sottrazione alla tutela di importanti edifici degli
anni ’50 e ’60 del secolo scorso, frutto di importanti e
significative creazioni dell’architettura moderna.
Al riguardo, per taluni, limitati
casi, sulla base di una motivazione particolarmente
attenta ed esaustiva, potrebbe anche esperirsi la via
della dichiarazione di interesse così detto
“relazione-esterno” dell’immobile (art. 10, lettera d),
del codice, che non richiede il presupposto di
storicizzazione), come testimonianza di un momento
storico e/o di un movimento culturale particolarmente
importante nell’architettura moderna, con la doverosa
avvertenza, peraltro, sul piano della legittimità, della
agevole contestabilità di siffatti provvedimenti di
dichiarazione sotto il profilo della così detta “causa
falsa” (eccesso di potere per sviamento), potendosi essi
risolvere in dichiarazioni di interesse culturale
intrinseco sotto le mentite spoglie di dichiarazioni di
interesse relazionale, posto che l’opera di architettura
moderna, che sia espressione di un determinato movimento
culturale e scientifico, incorpora in se tali
caratteristiche di valore culturale, di talché dovrebbe
comunque essere dichiarata sotto la categoria
concettuale di cui alla lettera a) dell’art. 10 e non,
surrettiziamente, sotto quella di cui alla lettera d),
fermo restando che la forma di tutela per gli immobili
privi del requisito generale di anzianità è costituita
(d’altronde) dal riconoscimento del particolare valore
artistico ai sensi dell’art. della legge sul diritto
d’autore n. 633 del 1941 (artt. 11, comma 1, lettera e)
e 37, comma 4, del codice).
Sempre riguardo a questa norma si è
da taluni sostenuto che essa avrebbe impedito il
controllo e la tutela di beni mobili custoditi
all’interno di immobili ormai non più sottoposti a
tutela presunta o interinale, ad esempio, gli arredi
sacri (beni culturali mobili) custoditi in chiese o
edifici del culto risalenti ad oltre 50 anni, ma non
aventi i 70 anni oggi richiesti dalla nuova norma. La
contestazione è errata, posto che il soprintendente può
esercitare il potere di accesso e di visita previsto dal
codice (art. 19) a prescindere dal fatto che l’immobile
in cui sono custoditi i beni culturali mobili sia a sua
volta sottoposto a tutela.
Altri profili di possibile
incidenza sul tema del federalismo demaniale culturale
sono contenuti nei nuovi commi 5-bis e 5-ter aggiunti
nell’art. 5 del d.lgs. n. 85 del 2010 dall'art. 4, commi
17, lett. b), e 18 del decreto legge n. 70 del 2011.
Al riguardo mette conto di
evidenziare che queste nuove norme non riguardano né
esclusivamente, né prioritariamente il regime dei beni
culturali, di cui al comma 5, che resta, anzi, in tutto
confermato, atteso che nel comma 5-bis, ove si ammette
il potere dell’ente territoriale, che avesse già
sottoscritto accordi di trasferimento anteriormente
all’entrata in vigore del decreto n. 85 del 2010, di
“optare” per il regime più favorevole (gratuità) proprio
del federalismo demaniale, è espressamente apposta la
clausola “salvo che, ai sensi degli articoli 3 e 5, [i
beni] risultino esclusi dal trasferimento ovvero
altrimenti disciplinati”.
In ordine alla “retroattività” del
comma 5-bis, si ritiene che essa sia consustanziale alla
ragion pratica che costituisce la causa di questa norma,
diretta, come è noto, a evitare che i Comuni che avevano
stipulato accordi a titolo oneroso per l’acquisto di
beni del demanio statale prima dell’entrata in vigore
del federalismo demaniale (ossia prima del d.lgs. n. 85
del 2010) si vedessero costretti a “onorare” l’accordo
oneroso senza poter più beneficiare della gratuità del
titolo propria del (sopravvenuto) federalismo demaniale.
E’ dunque del tutto evidente – ed è reso peraltro chiaro
dalla tecnica di novellazione e dalla locuzione
adoperata dal legislatore del 2011 (accordi o intese . .
. già sottoscritti alla data di entrata in vigore del
presente decreto legislativo) – che la data del presente
decreto (legislativo) è e non può che essere quella
dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 85 del
2010 (e non già quella del decreto legge n. 70 del
2011).
Appare utile, peraltro, a proposito
di titolo oneroso o gratuito dell’acquisto, introdurre
qui un chiarimento: anche i trasferimenti del demanio
cultuale ex comma 5 dell’art. 5 sopra detto, sono a
tutti gli effetti acquisti a titolo gratuito, nel senso
tecnico-giuridico del termine, ossia della non
corrispettività del negozio traslativo. Al riguardo
occorre non confondere la nozione di onerosità in senso
economico – per cui la successiva gestione del bene e la
sua valorizzazione comportano di regola degli oneri,
anche rilevanti, per il Comune acquirente – con la
nozione di onerosità in senso giuridico. Gli accordi di
valorizzazione – che sono stipulati ai sensi e per gli
effetti dell’art. 112, comma 4, del codice dei beni
culturali, possono, peraltro, avere normalmente un
contenuto anche più ampio del solo trasferimento del
bene e perciò contenere clausole onerose (ad es., il
Comune si impegna a fornire la guardiania o il servizio
di pulizia di un altro bene culturale statale diverso da
quello oggetto di trasferimento), ma questo non esclude
che il negozio traslativo avente ad oggetto lo specifico
bene culturale trasferito ex art. 5, comma 5, abbia e
mantenga un titolo gratuito, senza alcun corrispettivo
per il Comune acquirente: il fatto che in alcuni casi
l’accordo di valorizzazione possa riguardare e
comprendere una pluralità di azioni comuni e/o di beni
culturali, in un quadro di bacino culturale
territoriale, con una pluralità di previsioni anche
onerose, non significa che debba essere corrisposto un
“prezzo” anche per il bene culturale demaniale oggetto
di trasferimento a titolo di federalismo demaniale:
sotto questo profilo, ossia sotto il profilo del titolo
gratuito, gli accordi di valorizzazione, che
costituiscono lo strumento giuridico attuativo del
federalismo demaniale culturale, ex art. 5, comma 5, in
nulla si discostano da tutti gli altri trasferimenti di
federalismo demaniale.
Consegue da quanto sopra esposto
che gli accordi di cui al comma 5-bis sono diversi
rispetto a quelli di cui al comma 5, stante il
disallineamento cronologico tra le due ipotesi,
riguardando il comma 5-bis necessariamente ed
esclusivamente “accordi o intese tra lo Stato e gli enti
territoriali per la razionalizzazione o la
valorizzazione dei rispettivi patrimoni immobiliari, già
sottoscritti alla data di entrata in vigore del presente
decreto legislativo”: gli accordi del comma 5-bis sono
pertanto quelli stipulati prima del 2010 (prima
dell’entrata in vigore del federalismo demaniale) e sono
perciò necessariamente diversi da quelli stipulati dopo,
in attuazione del federalismo demaniale.
10. Lo stato di attuazione del
federalismo demaniale culturale.
Alla luce dell’analisi sin qui
svolta, appare particolarmente interessante considerare
lo stato di attuazione dell’art. 5, comma 5, del d.lgs.
n. 85 del 2010.
Al riguardo, il Segretariato
generale del Ministero per i beni e le attività
culturali e l’Agenzia del Demanio hanno stipulato il 9
febbraio 2011 un protocollo d’intesa volto a “definire a
livello nazionale le procedure operative a cui gli
organi periferici dovranno attenersi nell’attuazione
delle previsioni di cui all’articolo 5, comma 5, del
decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85 (...)”.
Tale protocollo prevede, tra
l’altro, all’art. 6, la costituzione di una cabina di
regia presieduta dal Segretario generale del Ministero
per i beni e le attività culturali e composta da
rappresentanti dell’Agenzia del Demanio e del Ministero
medesimo. Ad essa sono demandati sia compiti di
indirizzo, coordinamento e vigilanza sul’applicazione
corretta e uniforme del protocollo, che di monitoraggio
dello stato di attuazione e di soluzione degli eventuali
profili problematici.
In adempimento di tali compiti, la
cabina di regia ha elaborato una serie di documenti,
finalizzati ad assicurare l’uniforme applicazione delle
disposizioni normative e del protocollo stesso sul
territorio nazionale, divulgati con la circolare del
Segretariato generale del Ministero per i beni e le
attività culturali n. 18 del 18 maggio 2011, prot. n.
4691. Si tratta, in particolare, del documento
concernente la definizione dell’iter procedurale di
massima da seguire (allegato A della circolare n. 18 del
2011), dello schema di decreto di costituzione dei
tavoli tecnici operativi da costituirsi in ciascuna
regione in base all’art. 4 del protocollo d’intesa
(allegato B della circolare), delle linee guida per
l’elaborazione del programma di valorizzazione (allegato
C della circolare) e dello schema di accordo di
valorizzazione (allegato D della circolare).
Passando all’analisi dei contenuti
del protocollo d’intesa tra il Ministero e l’Agenzia del
Demanio del 9 febbraio 2011, occorre anzitutto segnalare
che l’accordo correttamente rimette agli enti
territoriali interessati, in linea con le considerazioni
svolte nel presente contributo, l’iniziativa in merito
al trasferimento di beni culturali appartenenti allo
Stato (art. 2, comma 1). Tale indicazione è resa ancora
più esplicita dal citato documento recante la
definizione dell’iter procedurale (allegato A della
circolare n. 18 del 2011), ove si chiarisce altresì che
la richiesta dovrà contenere non solo l’individuazione
dei beni interessati, ma anche “l’illustrazione delle
finalità e delle linee strategiche generali che si
intende perseguire con l’acquisizione del bene”.
Il comma 2 dell’art. 2 del
protocollo stabilisce che la richiesta dell’Ente
territoriale non possa avere ad oggetto alcune tipologie
di beni. In particolare, chiarisce l’esclusione dal
federalismo demaniale culturale degli immobili in uso
per comprovate ed effettive finalità istituzionali alle
amministrazioni dello Stato, ad enti pubblici o ad
agenzie fiscali (art. 2, comma 2, lett. b) e degli
immobili già oggetto di accordi o intese con gli enti
territoriali per la razionalizzazione e/o la
valorizzazione dei rispettivi patrimoni immobiliari
sottoscritti alla data di entrata in vigore del d.lgs.
n. 85 del 2010 (art. 2, comma 2, lett. c). Quest’ultimo
profilo, tuttavia, risulta superato dalla sopravvenuta
novità normativa introdotta dall’art. 4, comma 17,
lettera a) del d.l. n. 70 del 2011, sopra illustrata
(par. 9), che ha per l’appunto abrogato la precedente
disposizione che escludeva dal meccanismo del
federalismo demaniale gli accordi precedentemente
stipulati.
Più delicata si presenta, invece,
l’esegesi dell’ipotesi contemplata all’art. 2, comma 2,
lett. a), del protocollo d’intesa, ove si esclude la
possibilità di presentazione di richieste di
trasferimento con riferimento ai “beni immobili
appartenenti al patrimonio culturale nazionale”. Al
riguardo, si richiama quanto sopra esposto (e, in
particolare, le considerazioni svolte al precedente
paragrafo 5.a) circa la valutazione in merito alla
dimensione dell’interesse coinvolto. Tale apprezzamento,
come anticipato, non attiene a una caratteristica
intrinseca del bene culturale predicabile in astratto e
una volta per tutte, ma deve essere svolto in concreto e
in relazione allo stato di conservazione del bene, alle
relative esigenze di tutela e alle potenzialità di
valorizzazione hic et nunc che il medesimo presenta.
L’esclusione in argomento non sarà, pertanto, da
intendere in assoluto, nel senso di precludere agli Enti
territoriali di proporre istanze di trasferimento della
proprietà di determinati beni culturali statali di cui
possa astrattamente predicarsi un asserito valore o
rilievo “nazionale”, in opposizione ad altri beni di
interesse solo “locale”, bensì nel senso di rimettere al
competente tavolo tecnico operativo il compito di
verificare, come previsto dal successivo art. 4, comma
3, lett. b), del protocollo d’intesa, “sulla base dei
criteri di territorialità, sussidiarietà, adeguatezza,
semplificazione, capacità finanziaria, correlazione con
competenze e funzioni, valorizzazione ambientale fissati
dalla L. n. 42/2009 e dal D.lgs. n. 85/2010, se
ricorrano le condizioni per il trasferimento dei beni
individuati dall’Ente territoriale richiedente, tenuto
altresì conto delle esigenze statali connesse alla
predisposizione di idonei piani di razionalizzazione
degli usi governativi”.
L’art. 3 del protocollo d’intesa
chiarisce che gli accordi di valorizzazione stipulati al
fine del trasferimento dei beni provvedono a definire
gli obiettivi di valorizzazione, condivisi tra lo Stato
e gli Enti interessati, indicando altresì espressamente
le “prescrizioni necessarie a garantire tutela,
conservazione e fruizione pubblica dei beni”.
Al riguardo, occorre segnalare che
il citato art. 3 del protocollo d’intesa fa chiaramente
riferimento ad un modello procedimentale in cui
all’accordo di valorizzazione non sono attribuiti
immediati effetti traslativi, bensì solo obbligatori.
Gli accordi sono, infatti, indicati quali atti
“propedeutici” al trasferimento dei beni. Ciò è
confermato dal successivo art. 5, ove si demanda
all’Agenzia del Demanio, anche per il tramite delle
competenti Filiali territoriali, il compimento delle
procedure finalizzate a dare seguito agli accordi
stipulati mediante i trasferimenti di titolarità dei
beni ivi previsti. Ancor più chiaramente, il paragrafo 7
del richiamato documento recante la definizione
dell’iter procedurale di massima (allegato A alla
circolare n. 18 del 2011) prevede, al fine di operare il
trasferimento di titolarità dei beni demaniali
preordinato dagli accordi di valorizzazione, “la
predisposizione e la stipula di specifici atti pubblici”
(sul punto cfr. sub par. 5.a, ad finem).
La valutazione delle richieste di
trasferimento presentate dagli Enti territoriali è
rimessa, come si è detto, gli appositi tavoli tecnici
operativi costituiti a livello regionale con decreto del
Direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici
del Ministero per i beni e le attività culturali, da
redigersi in conformità al modello approntato dalla
cabina di regia e divulgato con l’allegato B alla più
volte citata circolare n. 18 del 2011. Il coordinamento
di ciascun tavolo tecnico è demandato al Direttore
regionale per i beni culturali e paesaggistici del
Ministero o, su sua delega, al Soprintendente
territorialmente competente. Al tavolo tecnico
partecipano i rappresentanti degli organi periferici del
Ministero competenti per la materia trattata, nonché i
rappresentanti dell’Agenzia del Demanio. Sono, inoltre,
invitati a partecipare gli enti territoriali richiedenti
il trasferimento dei beni (art. 4, comma 1, del
protocollo). Possono, infine, partecipare al tavolo
tecnico anche gli eventuali ulteriori soggetti
istituzionali interessati all’attuazione degli accordi
di valorizzazione (art. 4, comma 5, del protocollo).
Il documento recante la definizione
dell’iter procedurale di massima (allegato A alla
circolare n. 18 del 2011) prevede, al paragrafo 2, che
il provvedimento di costituzione del tavolo tecnico sia
pubblicato sul sito istituzionale dell’Agenzia del
Demanio e su quello della Direzione regionale per i beni
culturali e paesaggistici, nonché trasmesso alla Regione
e alle Province perché ne assicurino la divulgazione
presso i Comuni. La prima riunione del tavolo tecnico
sarà inoltre dedicata, in base al paragrafo 3 del
medesimo documento, all’informazione degli Enti
territoriali potenzialmente interessati circa le
procedure operative e le concrete modalità attuative
dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 85 del 2010.
Compito dei tavoli tecnici è
anzitutto quello di acquisire l’indispensabile quadro
conoscitivo della situazione di ciascun bene, di cui
dovranno essere accertati non solo gli aspetti inerenti
le caratteristiche fisiche e storico artistiche, ma
anche la relativa situazione giuridica, allo scopo di
“verificarne la suscettività a rientrare negli accordi
di valorizzazione (...)” (art. 4, comma 3, lett. a, del
protocollo). Verrà inoltre compiuta, come sopra
anticipato, la valutazione concernente l’opportunità del
trasferimento richiesto, alla luce dell’apprezzamento in
merito al livello di governo da ritenere maggiormente
idoneo ad assicurare la valorizzazione del bene (art. 4,
comma 3, lett. b). Infine, compito dei tavoli tecnici
sarà anche quello di definire i contenuti specifici
dell’accordo di valorizzazione “con indicazione delle
strategie e degli obiettivi comuni di valorizzazione e
dei conseguenti programmi e piani di sviluppo culturale
che garantiscano la massima valorizzazione culturale,
tenendo conto delle caratteristiche fisiche,
morfologiche, ambientali, paesaggistiche, culturali e
sociali dei beni individuati e dei vincoli posti a
tutela degli stessi ai sensi del D.lgs. n. 42/2004 e
promuovendone l’integrazione con le infrastrutture e i
settori produttivi collegati” (art. 4, comma 3, lett.
b).
Più in dettaglio, il paragrafo 4
del documento recante la definizione dell’iter
procedurale di massima (allegato A alla circolare n. 18
del 2011) affida ai tavoli tecnici operativi il compito
di procedere anzitutto a stabilire quali richieste
presentate dagli Enti territoriali siano da ritenere
manifestamente inammissibili perché concernenti beni
esclusi dal trasferimento “ai sensi di quanto prescritto
dal D.Lgs. n. 85/2010 e richiamato espressamente
nell’art. 2, comma 2, del Protocollo d’intesa”[22].
Solo con riferimento alle richieste
che abbiano superato tale preliminare vaglio di non
manifesta inammissibilità verranno attivate le “sessioni
operative” del tavolo tecnico. Alle sedute del tavolo
tecnico saranno convocati anche gli Enti territoriali
interessati, allo scopo di assicurare la condivisione e
l’approfondimento di tutti gli aspetti conoscitivi
concernenti i beni interessati e l’effettiva possibilità
dei beni stessi di rientrare nelle procedure di
trasferimento. Sembra potersi dedurre che, a seguito di
tale approfondimento, ulteriori beni potranno essere
esclusi dal trasferimento, con conclusione anticipata
del relativo iter procedimentale, sulla base di un
ponderato apprezzamento discrezionale che muova dalla
situazione fattuale e giuridica del bene e dalle sue
potenzialità di fruizione e valorizzazione, ancorché
l’istanza di trasferimento non fosse stata ritenuta
manifestamente inammissibile.
Solo per i beni per i quali tale
verifica dia esito positivo, l’iter proseguirà – secondo
quanto indicato al paragrafo 5 del documento in allegato
A alla citata circolare n. 18 del 2011 – con lo sviluppo
e la presentazione, ad opera degli Enti territoriali
interessati, del programma di valorizzazione, da
predisporsi sulla base delle apposite linee guida
predisposte dalla cabina di regia e divulgate con
l’allegato C alla più volte richiamata circolare n. 18
del 2011[23].
Il paragrafo 6 del documento in
allegato A alla circolare n. 18 del 2011 prevede, poi,
un’apposita seduta del tavolo tecnico per l’analisi e
valutazione dei programmi, previa istruttoria della
competente Direzione regionale per i beni culturali e
paesaggistici, nonché per addivenire alla condivisione
degli stessi da parte del Ministero e dell’Agenzia del
Demanio, con redazione di apposito verbale.
Successivamente al compimento delle
predette valutazioni ad opera del tavolo tecnico
operativo e sulla base dei programmi di valorizzazione
condivisi, potrà procedersi, ove ne ricorrano le
condizioni, alla predisposizione e alla sottoscrizione
dei relativi accordi di valorizzazione, da redigersi in
conformità allo schema proposto dalla Cabina di regia
nazionale e divulgato mediante l’allegato D alla citata
circolare n. 18 del 2011.
Tali accordi – ai quali
parteciperanno la competente Direzione regionale per i
beni culturali e paesaggistici, la competente Filiale
territoriale dell’Agenzia del Demanio e l’Ente
territoriale richiedente – saranno costituiti da una
parte dedicata alle premesse e da un articolato da
redigersi facendo riferimento alle sezioni tematiche
indicate nel citato allegato D alla circolare[24]. Tra
le disposizioni da inserire nei futuri accordi,
particolarmente significative appaiono quelle relative
agli obblighi conservativi e alle prescrizioni di
tutela, la cui determinazione spetterà ai competenti
organi del Ministero. Tali prescrizioni formeranno
oggetto di apposita clausola risolutiva espressa ai
sensi dell’art. 1456 del codice civile.
Significativo, infine, il paragrafo
8 del documento, recante l’iter di massima in allegato A
alla medesima circolare, il quale utilmente ribadisce
che “Una volta trasferiti in proprietà agli Enti
territoriali, i beni conservano la natura di demanio
pubblico – ramo storico, archeologico e artistico – e
restano integralmente assoggettati alla disciplina di
tutela e salvaguardia di cui al D.lgs. n. 42/2004”.
Il compito di verificare il
rispetto delle prescrizioni e condizioni contenute negli
accordi di valorizzazione è demandato al Soprintendente
territorialmente competente, il quale, in caso di
riscontrate inosservanze, provvede alle necessarie
comunicazioni alla competente Direzione regionale per i
beni culturali e paesaggistici e alla Filiale
territoriale dell’Agenzia del Demanio ai fini della
risoluzione dell’atto di trasferimento.
11. Conclusioni.
Il decreto del 2010 attuativo del
federalismo demaniale riconosce ai beni culturali uno
statuto speciale. Li sottrae al trasferimento di massa –
ispirato a logiche giuscontabilistiche di smembramento e
liquidazione (iscrizione al patrimonio disponibile e
favor per la dismissione-alienazione) – e introduce, per
essi, uno speciale federalismo demaniale culturale,
ispirato a logiche di migliore gestione nell’interesse
degli stakeholders, i proprietari veri, che sono tutti i
cittadini, nel rispetto della demanialità naturale di
tali beni (passaggio infrademaniale, ex art. 54, comma
3, del codice).
Il legislatore delegato del 2010 –
correttamente applicando la legge di delega del 2009 –
si è reso interprete accorto e saggio della
consapevolezza, che appare sempre più diffusa e
consolidata nella società italiana, a tutti i livelli,
del fondamentale rilievo identitario del nostro
straordinario patrimonio culturale, che funge da
cemento, da vero e proprio collante costitutivo della
nostra stessa identità di popolo e di nazione, pur nel
riconoscimento delle diversità locali e territoriali.
Questo essenziale valore trova espressione nell’articolo
9 della Costituzione (La Repubblica tutela il paesaggio
e il patrimonio storico e artistico della Nazione) e,
più di recente, anche nell’articolo 2 del codice dei
beni culturali e del paesaggio del 2004.
Si è affermata la consapevolezza
del fatto che ciò che conta non è l’intestazione formale
del singolo bene all’uno o all’altro Ente pubblico, ma
la qualità della gestione a servizio dei cittadini,
qualità della gestione che non può raggiungersi se non
attraverso una leale cooperazione e una proficua
sinergia tra i diversi livelli di governo territoriale,
che vada al di là della logica puramente burocratica del
riparto delle competenze.
E’ convinzione del pari comunemente
accettata, alla luce della non facile esperienza
amministrativa degli ultimi decenni, che è impossibile
stilare una graduatoria dell’importanza dei beni
culturali, secondo il criterio della loro rilevanza
territoriale, locale, regionale, nazionale o universale.
La gran parte dei beni culturali esprimono, infatti, un
valore che presenta una dimensione ideale non
suscettibile di una specifica delimitazione
territoriale. La dimensione – nazionale o locale – del
bene culturale rileva non in astratto, come attributo
intrinseco del bene, ma in concreto, come criterio che
orienta la scelta delle modalità più proficue di
gestione.
La logica nuova nella quale si sono
utilmente mossi negli ultimi dieci anni sia il
legislatore, sia la pratica amministrativa è quella
della leale cooperazione e della definizione di intese e
accordi tra tutti i soggetti pubblici competenti per una
gestione e una valorizzazione condivise dei beni
culturali, sia a livello di programmazione e di
pianificazione, sia a livello di realizzazione delle
opportune ed efficaci forme di gestione, aperte alla
sussidiarietà orizzontale. In questa direzione già
numerosi accordi sono stati definiti negli ultimi anni
tra Stato, Regioni e altre autonomie territoriali, in
tema di gestione in comune dei beni culturali,
indipendentemente dalla loro formale appartenenza,
secondo una logica di integrazione “a rete” dei percorsi
del turismo culturale, anche al fine di indurre processi
virtuosi di crescita durevole e sostenibile dei
territori, che possono trovare nel patrimonio culturale
quel valore aggiunto, insostituibile e inimitabile, che
non solo fa da volano, ma imprime un senso di civiltà e
di qualità allo sviluppo.
Paolo Carpentieri
· Relazione tenuta al convegno
“Beni e attività culturali: federalismo e
valorizzazione”, svoltosi presso il Ministero per i beni
e le attività culturali, Complesso Monumentale di S.
Michele a Ripa, in Roma, il 13 ottobre 2011.
[1] Si tratta di un’ambiguità che
potrebbe dar luogo a un caso di “fallacia di
composizione” o di “divisione” del relativo argomento,
derivante dalla mancata esplicitazione del
quantificatore (tutti, ogni, oppure alcuni; I. Copi,
Introduzione alla logica, Bologna, 1961, 98 ss., nonché,
sulla distribuzione nelle proposizioni categoriche, 162
ss.).
[2] Non si condivide, pertanto, la
tesi, pur elegante, di V. M. Sessa, Il federalismo
demaniale e i suoi effetti sul patrimonio culturale, in
Aedon, Rivista di arti e diritto on line, al sito
http://www.aedon.mulino.it, n. 1/2011, pagg. 2 e 3 del
documento, secondo la quale con la dicitura “patrimonio
culturale nazionale” (del tutto escluso dal federalismo
demaniale) si intenderebbero i beni di “importanza
nazionale”, e ciò in linea con la distinzione del codice
di settore – art. 54, comma 1 – tra inalienabilità
assoluta (immobili ed aree di interesse archeologico,
immobili dichiarati monumenti nazionali, raccolte di
musei, pinacoteche, gallerie e biblioteche etc.) e
inalienabilità relativa (ossia alienabilità previa
autorizzazione, ex art. 55 stesso codice). La tesi cozza
con la stessa lettera dell’art. 5, comma 5, che richiama
proprio l’art. 54, comma 3, del codice dei beni
culturali, ossia l’unica eccezione al divieto assoluto
di alienazione dei beni dell’art. 54, commi 1 e 2, vale
a dire, per l’appunto, il trasferimento da demanio a
demanio (“infrademaniale”). Non si può, dunque,
sostenere che i beni “assolutamente inalienabili” di cui
all’art. 54 sarebbero fuori dal federalismo demaniale
culturale. La tesi, inoltre, è circolare, poiché le due
posizioni sostenute nel contributo - la suesposta
interpretazione dell’ambito applicativo dell’art. 5,
comma 5, e la destinazione a patrimonio disponile (e,
quindi, ad alienazione) dei beni culturali trasferiti
per effetto del federalismo demaniale – si sorreggono
l’un l’altra, ma restano prive di autonomo fondamento:
la riferita identificazione dell’ambito applicativo
dell’art. 5, comma 5, con la categoria dei beni
culturali alienabili previa autorizzazione (art. 55 del
codice, onde l’esclusione dal federalismo demaniale dei
beni, assolutamente inalienabili, di cui all’art. 54,
comma 1, che sarebbero, quindi, quelli di importanza
nazionale) è, infatti, argomentata esclusivamente sulla
base della tesi secondo cui i beni culturali
trasferibili agli enti territoriali per effetto del
federalismo demaniale sarebbero destinati a patrimonio
disponibile in funzione della loro (naturale) successiva
alienazione; tesi, quest’ultima, che, a sua volta, si
basa esclusivamente sulla prima. In realtà entrambe le
posizioni non sono condivisibili: la prima (ambito
applicativo) per le ampie argomentazione svolte nel
presente e nel precedente paragrafo; la seconda per
quanto si dirà nel par. 5.d. A tutto ciò si aggiunga
l’ulteriore rilievo critico per cui, a seguire questa
tesi, in definitiva, la specialità di regime dei beni
culturali – prevista dal comma 5 dell’art. 5 – non
avrebbe più una sua comprensibile ragion d’essere: se
fosse vero che i beni culturali assolutamente
inalienabili sono esclusi dal federalismo demaniale,
perché di importanza nazionale, mentre quelli
relativamente alienabili sono sottoposti al suo regime
ordinario (passaggio al patrimonio disponibile e
successiva libera alienazione), allora non avrebbe
alcuna utilità la subordinazione del passaggio a
specifici accordi di valorizzazione.
[3] Nonostante la “timidezza” sul
punto della parte I del codice del 2004 (il comma 2
dell’art. 1 si limita a prevede che la tutela e la
valorizzazione concorrono a preservare la memoria della
comunità nazionale e del suo territorio), resta, chiaro
e forte, l’enunciato fondamentale del secondo comma
dell’art. 9 ella Costituzione, in base al quale La
Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e
artistico della Nazione. E non v’è dubbio che il
Costituente ha inteso riferirsi non già a una sola parte
del patrimonio culturale, a una sorta di “serie A” dei
beni culturali, a una indefinibile categoria di beni di
importanza nazionale, bensì a tutto il patrimonio
culturale, ossia a tutto l’ambito applicativo della
allora vigente legge n. 1089 del 1939 (sul tema è qui
sufficiente il rinvio a G. Severini, sub artt. 1-2, in
M.A. Sandulli (a cura di), Commentario al codice dei
beni culturali e del paesaggio, Milano, 2006, 16 ss., ed
ivi esaustivi richiami di dottrina; sul concetto
giuspubblicistico e costituzionale di Nazione, nella sua
declinazione culturale, legata ai fattori culturali e di
comune origine e storia, cfr. V. Crisafulli, D. Nocella,
voce Nazione in Enc. Dir., XXVII, Milano, 1977, 40 ss.).
[4] A. Police, Il federalismo
demaniale: valorizzazione nei territori o dismissioni
locali?, in Giorn. dir. amm., n. 12/2010, 1233, dove si
osserva condivisibilmente come il principio di
semplificazione, enunciato nell’art. 2, si traduce
operativamente soprattutto in una forte facilitazione
della facoltà di dismissione, legata, del resto, alla
normale attribuzione degli stessi beni demaniali statali
al patrimonio disponibile dell’ente territoriale
attriibutario, ad eccezione di quelli provenienti dal
demanio marittimo, idrico e aeroportuale.
[5] A. Police, op. cit., 1236 (ove
si richiamano, sul piano più generale, M. Renna, La
regolazione amministrativa dei beni a destinazione
pubblica, Milano, 2004, Id., Beni pubblici, in
Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese,
Milano, 2006, nonché I beni pubblici: tutela,
valorizzazione e gestione, Atti del Convegno svoltosi in
Roma, novembre 2008, a cura di A. Police, Milano, 2008;
G. Napolitano, I beni pubblici e “le tragedie
dell’interesse comune”, in Annuario Aipda 2006, Milano,
2007, 125).
[6] G. Palma, Beni di interesse
pubblico e contenuto della proprietà, Napoli, 1971; S.
Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, 130
ss., nonché Id., Gestione e alienazione dei beni
culturali, in Annuario Aipda 2003, Milano, 2004, 154 ss.
Su tali tematiche cfr. G. Severini, sub artt. 112 e ss,
in M.A. Sandulli (a cura di), Commentario al codice dei
beni culturali e del paesaggio, cit., 723 ss.; D.
Vaiano, sub art. 111, in Commento al Codice dei beni
culturali e del paesaggio, a cura di G. Trotta, G. Caia
e N. Aicardi, in Le Nuove Leggi Civili Commentate,
Padova, n. 1 del 2006, 66 ss.; sia consentito poi anche
il rinvio a P. Carpentieri, sub art. 102, in AA.VV., Il
Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, commento
coordinato da R. Tamiozzo, Giuffré, Milano, 2005, 449
ss., nonché Id., sub art. 112, ivi 490 e sub artt. 115,
116 e 117, ivi 506 ss.
[7] Sulla nozione di valorizzazione
dei beni culturali, oltre ai contributi citati nella
nota precedente, cfr. L. Casini, La valorizzazione dei
beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 698
ss., nonché Id., Valorizzazione e fruizione dei beni
culturali, in Giorn. dir. amm., n. 5 del 2004, 483.
[8] Osserva efficacemente G.
Severini, sub artt. 1-2, in M.A. Sandulli (a cura di),
Commentario al codice dei beni culturali e del
paesaggio, cit., 14, che “Patrimonio” (lat. patrimonium,
lascito o consegna dei padri, ingl. heritage) è
espressione di significazione valorialmente orientata,
aggregativa e conservatrice”. Esattamente l’opposto,
dunque, dell’idea di una valorizzazione del patrimonio
pubblico imperniata sulla politica delle dismissioni,
ossia dello smembramento del patrimonio e della sua
vendita frazionata per finalità puramente economiche..
[9] La deprecata divaricazione tra
tutela e valorizzazione – introdotta dal nuovo titolo V
della Costituzione, nei commi secondo e terzo dell’art.
117, riprendendo l’impostazione del d.lgs. n. 112 del
1998, al solo fine di spartizione di competenze tra enti
pubblici e a discapito della realtà delle cose e della
logica – va ricondotta in qualche modo a razionalità e
non può condurre a esiti aberranti, in danno
dell’interesse pubblico: sotto questo profilo,
indubbiamente, la preminenza logica e giuridica della
tutela sulla valorizzazione (art. 6, comma 2, del codice
dei beni culturali: se non si conserva il bene, viene
meno lo stesso presupposto oggettivo per fare una sua
valorizzazione) sembra costituire un caso paradigmatico
di possibile allocazione statale della competenza
amministrativa, sia in forza dello strumento della
chiamata in sussidiarietà della competenza statale
(Corte cost., n. 303 del 2003 e, da ultimo, 22 luglio
2010, n. 278), sia in base al criterio di prevalenza
(sentenze n. 50 del 2005 e n. 370 del 2003). Sulla
dialettica tutela/valorizzazione sia consentito, per
sintesi, il rinvio a P. Carpentieri, Tutela e
valorizzazione dei beni culturali, nota di commento a
Corte costituzionale 28 marzo 2003, n. 94, in Urb. e
App., n. 9/2003, 1017 ss.
[10] Ricostruibile per chi scrive
dall’osservatorio privilegiato dell’Ufficio legislativo
del Ministero per i beni e le attività culturali.
[11] In proposito si segnala che il
comma 5 dell’art. 5 del d.lgs. n. 85 del 2010 riferisce
l’istituto del c.d. “federalismo demaniale culturale”
genericamente ai beni e alle cose indicati negli
appositi accordi di valorizzazione. Tali beni e cose
dovranno, peraltro, essere necessariamente omogenei a
quelli presi in considerazione dalla disciplina generale
sul federalismo demaniale, la quale, in base all’art. 5,
comma 1, del decreto legislativo ha ad oggetto, come
riportato nel testo, “I beni immobili statali e i beni
mobili statali in essi eventualmente presenti che ne
costituiscono arredo o che sono posti al loro
servizio”.
[12] L’art. 7 prevede i decreti
biennali di attribuzione con i quali possono essere
attribuiti ulteriori beni eventualmente resisi
disponibili per ulteriori trasferimenti, sulla base di
istanze degli enti territoriali interessati, che possono
individuare e richiedere ulteriori beni non inseriti in
precedenti decreti né in precedenti provvedimenti del
direttore dell'Agenzia del demanio.
[13] Si riporta il testo del comma
4 dell’art. 3 citato: “Sulla base dei decreti del
Presidente del Consiglio dei Ministri di cui al comma 3,
le Regioni e gli enti locali che intendono acquisire i
beni contenuti negli elenchi di cui al comma 3
presentano, entro il termine perentorio di sessanta
giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale dei citati decreti, un'apposita domanda di
attribuzione all'Agenzia del demanio. Le specifiche
finalità e modalità di utilizzazione del bene, la
relativa tempistica ed economicità nonché la
destinazione del bene medesimo sono contenute in una
relazione allegata alla domanda, sottoscritta dal
rappresentante legale dell'ente. Per i beni che negli
elenchi di cui al comma 3 sono individuati in gruppi, la
domanda di attribuzione deve riferirsi a tutti i beni
compresi in ciascun gruppo e la relazione deve indicare
le finalità e le modalità prevalenti di utilizzazione.
Sulla base delle richieste di assegnazione pervenute è
adottato, entro i successivi sessanta giorni, su
proposta del Ministro dell'economia e delle finanze,
sentite le Regioni e gli enti locali interessati, un
ulteriore decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri, riguardante l'attribuzione dei beni, che
produce effetti dalla data di pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale e che costituisce titolo per la
trascrizione e per la voltura catastale dei beni a
favore di ciascuna Regione o ciascun ente locale”.
[14] Cons. Stato, sez. VI, 16
luglio 2010, n. 4602 (reperibile, come tutte le altre
sentenze del giudice amministrativo successive all’anno
2000, citate in questo contributo, al sito
http://www.giustizia-amministrativa.it).
[15] Conclusioni di segno diverso
sono esposte in V. M. Sessa, Il federalismo demaniale e
i suoi effetti sul patrimonio culturale, cit., pagg. 3 e
6 del documento, ma tale posizione deriva
esclusivamente, senza uno specifico approfondimento,
dalla tesi della medesima A., di cui si è già detto
supra, par. 2, nota 2, della applicabilità del
federalismo demaniale ai soli beni “relativamente
inalienabili”, secondo la distinzione desumibile dagli
artt. 54, comma 1, e 55 del codice di settore. La tesi
del passaggio a patrimonio disponibile condurrebbe
all’esito paradossale per cui di due palazzi “gemelli”,
poniamo del XVI sec. (immaginiamo quelli di Michelangelo
del Campidoglio, in Roma), se l’uno fosse del demanio
culturale statale e l’altro di quello comunale, per
effetto del federalismo demaniale il primo, una volta
trasferito al Comune, passerebbe al patrimonio
disponibile comunale e sarebbe tuot court alienabile,
mentre il secondo, già ab initio comunale, resterebbe
del demanio culturale comunale: il che pare
inaccettabile. Si aggiunga che, correttamente, la
circolare ministeriale n. 18 del 18 maggio 2011, prot.
n. 4691, qui illustrata nel successivo par. 10, precisa,
nell’allegato A, che “Una volta trasferiti in proprietà
agli Enti territoriali, i beni conservano la natura di
demanio pubblico – ramo storico, archeologico e
artistico – e restano integralmente assoggettati alla
disciplina di tutela e salvaguardia di cui al D.lgs. n.
42/2004”.
[16] Il che non significa che non
siano possibili progetti di recupero/valorizzazione di
beni culturali imperniati su interventi finalizzati al
parziale utilizzo del bene per fini commerciali e di
servizi (alberghi, ristoranti, negozi, strutture
sanitarie, scuole etc.) solo indirettamente aperti al
pubblico, ossia accessibili non per la generalità
indifferenziata del pubblico, ma solo per un pubblico
variamente selezionato in base a titoli speciali di
ingresso. Su queste tematiche sia consentito il rinvio a
P. Carpentieri, La gestione dei beni culturali e la
finanza di progetto, in G. F. Cartei, M. Ricchi (a cura
di), Finanza di progetto, temi e prospettive, Napoli,
2010, 345 ss. Le soluzioni ivi esposte hanno ricevuto un
recente, ulteriore approfondimento, con soluzioni che
paiono del tutto condivisibili, nella sentenza del Cons.
Stato, sez. VI, 22 febbraio 2010, n. 1011, che ha
espresso il principio secondo cui la fruibilità
pubblica, cui deve essere comunque destinato l’immobile,
ancorché di ente morale privato e non pubblico, non
postula l’uso pubblico diretto totalitario del bene, ma
è soddisfatta anche da usi privati aperti al pubblico.
[17] Per la recente modifica della
soglia di “culturalità” delle cose appartenenti a
soggetti pubblici o a persone giuridiche private senza
fine di lucro si fa rinvio a quanto sinteticamente
esposto al paragrafo 9.
[18] In mancanza degli elenchi –
impossibili da redigere – nella prassi applicativa,
prima del codice di settore del 2004, che ha
razionalizzato la materia introducendo l’istituto della
verifica dell’interesse culturale, regnava la più grande
incertezza sul regime e sullo stato giuridico dei beni
pubblici astrattamente di interesse culturale e presunti
tali. La giurisprudenza stessa non aveva saputo fornire
soluzioni chiare e condivise, poiché in alcuni casi
aveva preteso un “provvedimento esplicito di
riconoscimento dell’interesse storico artistico”,
ancorché atipico e innominato (Cons. Stato, sez. VI, 8
gennaio 2003 n. 20; Id., 2 novembre 1998 n. 1479 e 8
febbraio 2000 n. 678), in altri un previo atto
ricognitivo, benché anche informale (Cons. Stato, sez.
VI, 5 ottobre 2004, n. 6483; 19 marzo 2007, n. 1288; 23
marzo 2007, n. 1413), in altri casi ancora aveva
affermato la non necessità di un “accertamento
costitutivo”, ma solo di un’attività “di mera
ricognizione” (Cons. St., sez. VI, 22 marzo 2005, n.
1160). In altri casi, infine, la non “culturalità” di un
immobile pubblico ultracinquantennale era stata desunta
in via indiretta da una pronuncia (atipica) resa dalla
Soprintendenza su richiesta del Comune (Cons. Stato,
sez. IV, 9 novembre 2004, n. 7245). Cons. Stato, sez.
VI, 22 giugno 2007, n. 3450 richiedeva, invece, “uno
specifico atto costitutivo, impositivo del vincolo”. Di
diverso avviso la Cassazione (Cass., sez. I, 24 aprile
2003, n. 6522), secondo cui l’inclusione nel demanio
pubblico e l’assoluta inalienabilità dei beni immobili
di interesse storico artistico dello Stato non postulava
formali e specifici provvedimenti valutativi della p.a.,
ed era riscontrabile sulla scorta delle intrinseche
qualità e caratteristiche del bene, evincibili anche
dagli atti e comportamenti posti in essere dall’autorità
amministrativa nella gestione dello stesso”.
[19] In proposito si ricorda che
sono stati stipulati accordi con l’Agenzia del demanio e
con le autonomie territoriali riversati nei decreti
dirigenziali interministeriali del 6 febbraio 2004 e del
28 dicembre 2005, concernenti la “verifica
dell’interesse culturale dei beni immobili di utilità
pubblica”, nonché nel decreto del Capo dipartimento del
25 gennaio 2005 recante i “Criteri e modalità per la
verifica dell’interesse culturale dei beni immobili di
proprietà delle persone giuridiche private senza fine di
lucro”. E’ stato altresì emanato il decreto 27 settembre
2006, che definisce i criteri e le modalità per la
verifica dell’interesse culturale dei beni mobili
appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti
pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed
istituto pubblico e a persone giuridiche private senza
fine di lucro, nonché il decreto 22 febbraio 2007, di
concerto con l'Agenzia del demanio, che definisce le
modalità per la verifica dell’interesse culturale degli
immobili in uso al Ministero della difesa. Al sito
http://www.benitutelati.it è a disposizione degli enti
un percorso informatico guidato per la compilazione on
line delle schede e per l’avvio delle procedure di
verifica. Fonti ministeriali (aggiornate al mese di
ottobre 2010) riferiscono che, dall’entrata in vigore
della norma di cui all’articolo 12 del codice dei beni
culturali e del paesaggio, il Ministero per i beni e le
attività culturali ha ricevuto circa 25.000 elenchi da
parte degli enti ed ha avviato circa 24.500
procedimenti, di cui oltre 16.500 già conclusi. Di
questi beni oltre 10.000 sono stati riconosciuti di
interesse culturale, mentre oltre 21.000 sono stati
riconosciuti privi di interesse culturale (il numero
totale dei beni esaminati è maggiore degli elenchi
perché gli elenchi inviati dagli enti comprendono più
beni). Solo in 681 casi sono stati superati i 120 giorni
di durata del procedimento, previsti dall’art. 12, in
sospensione dei termini.
[20] Si è posto nella pratica
applicativa un problema di rapporto tra gli artt. 106 e
57-bis del codice. In proposito l’Ufficio legislativo
del Ministero per i beni e le attività culturali, con
recenti pareri (prot. n. 0013862 del 30 giugno 2009 e n.
13014 del 16 giugno 2009), ha chiarito che la
concessione di cui all’art. 57-bis si caratterizza per
la finalità prevalentemente economica e per una durata
più ampia rispetto a quella normalmente propria della
concessione in uso individuale di cui all’art. 106 del
codice.
[21] La questione della natura solo
ordinatoria – e non perentoria – del termine e gli altri
profili interpretativi trattati nel paragrafo sono
chiariti nei pareri dell’Ufficio legislativo del
Ministero per i beni e le attività culturali prot. n.
21915 del 7 dicembre 2010 e n. 14875 del 29 luglio 2011.
[22] Al riguardo, è significativo
rilevare come il documento citato indichi quali
richieste manifestamente inammissibili solo quelle
“aventi ad oggetto immobili inseriti in altri iter
procedurali o comunque esclusi dal ‘federalismo
demaniale’ poiché in uso alle Amministrazioni dello
Stato per comprovate ed effettive finalità istituzionali
[o già oggetto di accordi e intese tra Stato ed Enti
territoriali per la razionalizzazione e/o valorizzazione
degli stessi] – fattispecie, quest’ultima, come detto,
superata dal d.l. n. 70 del 201 -, cioè soltanto le
ipotesi di esclusione menzionate alle lettere b e c
dell’art. 2, comma 2, del Protocollo d’intesa. Non
viene, invece, fatta menzione dell’esclusione delle
richieste aventi ad oggetto “beni immobili appartenenti
al patrimonio culturale nazionale”, prevista dalla già
richiamata lett. a dell’art. 2, comma 2, del Protocollo.
E ciò proprio perché, come si è detto più volte, tale
espressione non può essere intesa come riferita ad una
qualità intrinseca del bene apprezzabile in base ad una
valutazione in astratto ed ex ante di ammissibilità
dell’istanza di trasferimento; viceversa, si tratta di
un apprezzamento che il tavolo tecnico potrà svolgere
solo in concreto, sulla base delle risultanze di quelle
che il documento di definizione dell’iter procedurale di
massima qualifica come “sessioni operative”.
[23] Le “Linee guida per la
elaborazione del programma di valorizzazione” di cui
all’allegato C alla circolare del Segretariato generale
del Ministero per i beni e le attività culturali n. 18
del 2011 individuano l’articolazione dei futuri
programmi di valorizzazione in una serie di punti: 1.
Descrizione e interesse culturale del bene; 2. Programma
di valorizzazione del bene; 3. Analisi e approfondimento
conoscitivo del bene; 4. Contesto territoriale di
riferimento; 5. Specifiche di attuazione del programma
di valorizzazione; 6. Sostenibilità
economico-finanziaria e tempi di attuazione del
programma di valorizzazione. Le premesse alle suddette
linee guida chiariscono che i punti ivi articolati
costituiscono un mero riferimento volto a facilitare il
compito delle Direzioni regionali per i beni culturali e
paesaggistici con l’indicazione degli aspetti che
dovranno essere presi in considerazione. Rimane fermo,
peraltro, che le medesime Direzioni regionali potranno
individuare, in base alle specifiche situazioni, le
modalità di trattazione e approfondimento dei diversi
aspetti ritenute più idonee, anche stabilendo di non
affrontare nel dettaglio tutti gli aspetti indicati
nello schema fornito. In ogni caso, però, tutti i
programmi di valorizzazione dovranno sviluppare almeno i
punti 1 e 2 delle linee guida.
[24] L’Allegato D alla circolare
indica, in particolare, le seguenti Sezioni: I –
individuazione del/dei bene/beni oggetto dell’Accordo di
valorizzazione; II – programma di valorizzazione e
conseguenti impegni dell’Ente territoriale firmatario
dell’Accordo di valorizzazione; III – obblighi
conservativi e prescrizioni; IV – modalità e tempi per
il trasferimento del/dei bene/beni; V – |