Con ordinanza n. 17014, la Corte di
Cassazione ha rigettato il ricorso di un correntista
contro la sentenza emessa dal Tribunale di Ferrara che
respingeva l’istanza di risarcimento dei danni non
patrimoniali proposta ex art. 152 D. Lgs. 196/2003 nei
confronti della propria banca. Nel caso di specie, un
dipendente dell’Istituto di Credito aveva messo a
conoscenza della situazione patrimoniale
dell’interessato un soggetto terzo, rilasciando al
medesimo in busta aperta una contabile bancaria con
l´indicazione del saldo di conto corrente, in occasione
di operazione di versamento che il terzo, incaricato dal
ricorrente, aveva fatto sul conto di quest’ultimo.
Nel provvedimento la Cassazione ha
ribadito che non è sufficiente per accoglimento
dell’istanza risarcitoria la violazione del diritto di
riservatezza; il danno non patrimoniale deve essere
“allegato e provato” secondo quanto previsto dall’art.
2043 c.c. dal ricorrente. Pertanto il ricorso di
quest’ultimo non avendo provato “nè la condotta illecita
della Banca, nè l´esistenza di un danno risarcibile”,
adducendo quale motivazione soltanto l’incapacità a
testimoniare dei dipendenti della Banca, non merita di
essere accolto, in ossequio ai principi di diritto
espressi sia dalle Sezioni Unite n. 26972/08 sia da
Cassazione n. 4366/2003.
2. Trattamento illecito dei dati
personali e risarcimento dei danni.
Infatti, come sostenuto anche dalle
Sezioni Unite (sentenza n. 26972/08) “il pregiudizio che
ha natura non patrimoniale, anche quando è determinato
dalla lesione di diritti inviolabili della persona come
per esempio quello alla riservatezza, costituisce un
danno-conseguenza che deve essere allegato e provato”.
Per i pregiudizi non patrimoniali diversi dal danno
biologico (riguarda un bene immateriale) si deve fare
ricorso alla prova testimoniale, documentale e
presuntiva. Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti
gli elementi che, nel caso concreto, sono idonei a
fornire la serie concatenata di fatti noti che
consentano di risalire al fatto ignoto, che nel caso di
specie non viene fatta dal correntista.
Nello specifico, per dato
personale, secondo quanto dispone il Codice della
Privacy (D.lgs. 196/2003), si intende qualunque
informazione relativa a persona fisica, persona
giuridica, ente od associazione, identificati o
identificabili, anche indirettamente, mediante
riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso
un numero di identificazione personale. L’art. 15 del
Codice dispone, in particolare, che i danni cagionati da
un trattamento illecito di dati personali devono essere
ripartiti secondo le modalità prescritte dall’art. 2050
c.c.; è incluso l’obbligo di ristorare la parte
danneggiata anche del danno non patrimoniale. Infatti,
il legislatore ha equiparato l’attività di trattamento
dei dati personali ad un’attività pericolosa con ogni
conseguenza in ordine al’onere della prova. Come noto,
infatti, per le attività pericolose vige il principio
per cui il danneggiato può limitarsi a dimostrare il
fatto storico da cui dipende, a suo dire, il danno;
mentre spetta alla controparte dimostrare di aver
adottato tutte le misure adeguate, richieste dal caso
concreto, per evitare il danno stesso.
Alla luce di tutti gli interventi
legislativi succedutisi, ora culminati nell’adozione del
D.Lgs 196 del 2003 (Codice in materia di protezione dei
dati personali), emerge una graduazione della tutela
della riservatezza a seconda dei dati da proteggere, per
cui dall’alta perforabilità dei dati comuni, e passando
per un livello intermedio in relazione ai dati
sensibili, si arriva ai dati sensibilissimi, idonei a
rivelare stati di salute ed vita sessuale, che invece
raggiungono un livello di intangibilità pressoché
assoluto. Mentre per le prime due categorie di dati, è
il legislatore che ha provveduto al bilanciamento
direttamente con la legge sul procedimento, per i dati
sensibilissimi il contemperamento degli interessi
contrapposti è rimesso alla valutazione dell’interprete,
il quale autorizzerà l’accesso solo quando la situazione
giuridica sottesa al diritto di accesso, relativa ad un
diritto della personalità o altri diritti inviolabili, è
di rango almeno pari al diritto alla riservatezza
afferente alla vita sessuale o alla salute del
controinteressato.
Nel caso in esame siamo di fronte
alla prima categoria di dati, inseriti all’interno di un
contratto di conto corrente bancario previsto dall’art.
1852 c.c. Esso rappresenta infatti un negozio innominato
misto, avente natura complessa, alla cui costituzione e
disciplina concorrono plurimi e distinti schemi
negoziali – sul solco del datato arresto n. 3701 del
1971 v. di recente Cass. N. 18107-2009, i quali si
fondono in ragione dell’unitarietà della causa. Per un
verso assume rilievo preminente nella sua struttura
l’impegno della banca, riconducibile al rapporto di
mandato che è espressamente richiamato dall’art. 1856
c.c. che estende ad essa la responsabilità del
mandatario prevista dall’art. 1703 c.c., in forza del
quale si assume l’obbligo di agire con diligenza
eseguendo pagamenti ovvero riscuotendo crediti su ordine
del cliente, fornendo in sostanza un servizio di cassa
di cui è obbligata nel contempo a compiere fedele e
regolare annotazione sul conto corrente. Per altro
verso, come si sostiene da parte della ricorrente,
consente il deposito del risparmio del correntista, ed
impegna quindi la banca alla restituzione delle somme
ivi confluite. Contiene altresì elementi tipici della
delegazione, ovvero degli altri contratti tipici,
identificabili con riferimento alle singole operazioni
bancarie in esso confluite, le cui norme si applicano
all’occorrenza.
Per quanto attiene al danno
derivante dalla riservatezza, la sentenza in commento
aderisce ai principi espressi dalla Cassazione
4366/2003. Secondo tale ultimo orientamento,
considerando che nell’ambito del nostro ordinamento i
danni risarcibili sono in via esclusiva quelli previsti
dall’art. 2059 del Codice civile, nel caso in cui la
violazione illecita della privacy integri gli estremi di
un reato, la questione diventa ancora più complessa: tra
i diritti della personalità- ad es. al nome,
all’immagine, all’onore e alla reputazione-, il diritto
alla privacy è quello nei cui confronti risulta più
probabile il configurarsi di una lesione che non integri
gli estremi di un reato.
Per tale orientamento, nel momento
in cui la violazione alla riservatezza non sia
affiancabile alla violazione di norme penali né alla
lesione dell’onore o reputazione dell’interessato, il
risarcimento del danno non patrimoniale è, di fatto,
precluso. Altresì, ove non fosse possibile dimostrare la
sussistenza del danno patrimoniale, “il giudice potrebbe
trovarsi ad affermare che il diritto alla riservatezza è
stato violato, senza poter condannare l’autore a
corrispondere alcun risarcimento”.
Sulla base di tali riflessioni
emerge chiaramente che, il legislatore ha voluto
garantire una minima tutela al soggetto leso anche
qualora la violazione della privacy non integri gli
estremi di un reato e non comporti danni di natura
patrimoniale, introducendo l’art. 29, co.9, della legge
675/1996, che sancisce la risarcibilità del danno non
patrimoniale in qualsiasi ipotesi di trattamento dei
dati personali non autorizzato, che deve essere provato
secondo le regole dell´art. 2043 c.c..
In presenza di un illecito civile
infatti, in base al principio del neminem laedere, la
parte danneggiata ha l'onere della prova degli elementi
costitutivi di tale fatto, del nesso di causalità, del
danno ingiusto e della imputabilità soggettiva. Dunque,
nonostante il diritto alla privacy trova un fondamento
normativo anche nell'articolo 2 della Costituzione,
ancora prima che nel dlgs 196/03, la lesione della
riservatezza, tuttavia, non implica automaticamente un
pregiudizio risarcibile, essendo necessaria la
dimostrazione del danno.
La Cassazione si è uniformata,
pertanto, ai “principi espressi dalla Cass. SU
26972/2008 , quanto alla necessità che il danno non
patrimoniale sia allegato e provato, e da Cass.
4366/2003, quanto al principio secondo cui la lesione
della riservatezza non è per se stessa foriera di un
pregiudizio risarcibile ed il danno lamentato deve
essere provato secondo le regole dell´art. 2043 c.c..
3. Evoluzione del danno non
patrimoniale e onere probatorio.
L’elemento distintivo del danno non
patrimoniale consiste nel peculiare oggetto della
lesione che è caratterizzata da interessi non economici,
la cui precipua natura li rende insuscettibili di
precisa quantificazione pecuniaria.
L’art. 2059 c.c., prevede, invero,
che il danno “non patrimoniale” è risarcibile “solo nei
casi determinati dalla legge” e, quindi, trattandosi di
un danno tipico, è necessaria, per la sua stessa
configurabilità, la combinazione tra l’art. 2059 c.c.
(norma secondaria) ed altra norma di legge (primaria).
Ciò in palese contrasto con la regola dell’atipicità,
confermata dalla storica sentenza delle Sezioni Unite n.
500/1999 con riferimento ai danni patrimoniali ex art.
2043 c.c., che mette in risalto lo sfavore mostrato dal
legislatore del 1942 verso la risarcibilità di
pregiudizi non prettamente economici.
Invero, per molti anni la
giurisprudenza non si discostò dal dato codicistico del
1942 in base al quale l’unica previsione relativa al
danno non patrimoniale ed alla sua risarcibilità era
racchiusa nell’art. 185 del codice penale del 1930.
Dunque, il danno non patrimoniale era risarcibile come
danno morale soggettivo coincidente con la sofferenza
contingente ed il turbamento dell’animo transeunte, solo
in presenza di un reato.
Dalla menzionata ricostruzione
emergeva un inammissibile vuoto di tutela
dell’imprescindibile diritto alla salute, e ciò in
palese violazione del precetto contenuto nell’art. 32
Cost., finalizzato a riconoscere all’individuo un
diritto assoluto alla salute, tutelabile erga omnes (1).
La lacunosa ricostruzione fin qui
delineata ha spinto la giurisprudenza a sollevare la
questione di legittimità costituzionale del combinato
disposto degli artt. 2059 e 2043 c.c., nella parte in
cui non consentivano la protezione del diritto alla
salute di cui all’art. 32 Cost., al di fuori delle
ipotesi di reato.
La questione è stata compiutamente
risolta dal Giudice delle Leggi con la storica sentenza
n. 184/1986 secondo cui il danno alla salute, o danno
biologico, viene scisso dall’art. 2059 c.c. per farlo
transitare nell’alveo dell’art. 2043 c.c., sulla base di
una nozione ampia del concetto di patrimonio, in senso
non solo economico, ma anche personale, comprensiva
altresì di beni fondamentali dell’individuo non
suscettibili di stretta valutazione economica, ma
costituzionalmente tutelati, quali il bene-salute di cui
all’art. 32 Cost. La tecnica esegetica seguita è stata
quella del danno-evento, ossia del danno in re ipsa, che
si ravvisa nella menomazione in sé del bene, a
prescindere dalle eventuali conseguenze dannose,
patrimoniali e non.
Il sistema risarcitorio, dunque,
risultava da un sistema tripolare, composto da un danno
patrimoniale evento, che consiste nella lesione ‘in sé e
per sé considerata’ dei diritti fondamentali della
persona (nella specie, il danno biologico nel quale
andavano a confluire il danno alla vita di relazione e
quello estetico), sempre risarcibile ex art. 2043 c.c.;
un danno-conseguenza di carattere patrimoniale,
risarcibile solo nell’ipotesi in cui si dimostri la
perdita o la diminuzione della capacità lavorativa,
senza possibilità di ricorrere al criterio presuntivo
già individuato nella “capacità lavorativa generica”;
nonché, danno-conseguenza non patrimoniale, il danno
morale soggettivo, risarcibile ai sensi dell’art. 2059
c.c. nei soli casi previsti dalla legge (art. 185 c.p.).
In applicazione dei fondamentali
principi espressi dalla Consulta, i giudici sono giunti
fino alla ‘patrimonializzazione’ delle lesioni ad altri
diritti fondamentali della persona, fra cui i c.d. nuovi
diritti, generati dall’interpretazione creativa
dell’art. 2 Cost. (quali, ad esempio, il diritto alla
riservatezza, all’identità personale, all’onore, alla
reputazione, ma anche i più recenti diritti ad una
serena vita familiare, sessuale, lavorativa, alla
vacanza, alla maternità, ecc.) (2).
Da tali premesse prende le mosse la
categoria del danno esistenziale, quale “pregiudizio
areddituale (poiché prescinde dal reddito del
danneggiato), non patrimoniale (in quanto non ha ad
oggetto la lesione di beni od interessi patrimoniali),
avente ad oggetto qualsiasi lesione di attività
esistenziali del danneggiato”, cioè quale danno
patrimoniale ingiusto, scaturente dalla violazione di un
diritto fondamentale della persona da ricostruire sulla
base del modello risarcitorio del danno-evento
“patrimoniale in senso ampio” di cui all’art. 2043 c.c.
in collegamento con l’art. 2 Cost. All’interno della
categoria del danno esistenziale, sono state, in
seguito, ricondotte le più disparate figure di danno
risarcibile, come il danno da overbooking e quello
endofamiliare.
Pertanto, prima del 2003, emergeva
un sistema tripolare nel quale venivano a confluire: un
danno patrimoniale evento di vaste proporzioni (che è il
danno alla persona, nel cui ambito convergono il danno
biologico e il danno esistenziale), nonchè; le due
tradizionali ipotesi di danno-conseguenza, ovvero il
danno patrimoniale e quello morale soggettivo.
Tuttavia, la Corte di Cassazione
muta del tutto l’approccio ermeneutico ormai
consolidatosi in ambito risarcitorio, con cinque
sentenze del maggio 2003 (nn. 7281, 7282 e 7283 del 12
maggio 2003, e nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003),
modificando l’iter interpretativo legato alla
qualificazione giuridica della norma contenuta nel’art.
2059 c.c. (3), la cui legittimità viene in seguito
confermata anche dalla Corte Costituzionale (n. 233
dell’11 luglio 2003).
In sintesi, nella parte motiva
delle citate sentenze la Suprema Corte afferma che il
rinvio alla legge operato dall’art. 2059 c.c. va inteso
in modo ‘costituzionalmente orientato’, e secondo un
modello ben più ampio di quello previsto dall’art. 185
c.p., da cui deriva che, quando siano lesi diritti
inviolabili della persona riconducibili all’art. 2
Cost., l’imperatività della norma costituzionale supera
la mancata menzione di una espressa e testuale
previsione di risarcimento del danno non patrimoniale
(4) .
Quindi vengono superati, con
particolare riguardo ai danni da lesione di diritti
della persona costituzionalmente garantiti, quei limiti
che avevano provocato la fuga dall’art. 2059 c.c., tanto
nel senso della necessaria riserva di legge quanto in
riferimento al limite probatorio interno, relativo alla
necessità di provare l’integrazione di un reato, dal
momento che, se è leso un diritto costituzionale, non
viene affatto in rilievo l’accertamento di un reato, né
il correlato sistema probatorio.
Tutti i danni non patrimoniali
transitano nuovamente dall’art. 2043 c.c. all’art. 2059
c.c., costituzionalmente interpretato, in un assetto
composto, tanto dalla generale categoria dei pregiudizi
non patrimoniali, quanto dalla fattispecie risarcitoria
del danno morale soggettivo.
Alla luce dei nuovi principi di
diritto, si ritorna al sistema dualistico dei
danni-conseguenza, rappresentato da un danno
patrimoniale ex art. 2043 c.c., che riacquista la sua
originaria fisionomia di danno economico stricto sensu,
e un danno non patrimoniale onnicomprensivo, di cui
all’art. 2059 c.c., in cui rientrano tanto il danno
morale soggettivo quanto i danni da lesione dei diritti
della persona costituzionalmente tutelati.
Il danno alla persona risarcibile
non coincide più con la lesione in sé di un valore
costituzionalmente protetto (danno-evento), ma viene, al
contrario, riconosciuto nel pregiudizio consequenziale a
tale lesione sul piano economico (danno patrimoniale),
della salute (danno biologico) o esistenziale (Cass. n.
8827/2003).
Per quanto attiene alla struttura
dell’onere probatorio, la giurisprudenza di legittimità
ha precisato che il danno da lesione di un valore
costituzionale della persona, rinvenendo il suo
presupposto genetico nelle norme costituzionali, e non
nell’art. 185 c.p., non postula l’accertamento di un
reato, da cui scaturisce che ai fini dell’onere
probatorio possono essere utilizzate anche le norme
speciali del codice civile che disciplinano presunzioni
di colpa (art. 2054 c.c.) ovvero presunzioni di
responsabilità (di natura oggettiva), quali l’art. 2054,
comma 4, c.c. o, in ossequio all’orientamento
giurisprudenziale oggi prevalente, gli artt. 2050, 2051,
2052 c.c.
Qualora invece si versi nelle
ipotesi in cui ad essere leso sia un diritto non
annoverabile fra quelli costituzionalmente protetti,
difettando una copertura di matrice costituzionale, la
risarcibilità del c.d. danno morale puro deve soggiacere
ai limiti di cui agli artt. 2059 c.c. e 185 c.p. (Cass.,
27 ottobre 2004, n. 20814) e, di conseguenza, sarà
doveroso accertare il reato in tutti i suoi elementi
strutturali (oggettivo e soggettivo).
A tale proposito è necessario
rilevare come, il nuovo codice di procedura penale ha
affermato la piena autonomia dei giudizi civile e
penale, tanto in senso processuale quanto sostanziale
rispetto all’applicazione delle regole probatorie
proprie del sistema di pertinenza. Tuttavia, permangono
due insuperabili limiti che si evidenziano
nell’incomunicabilità fra l’art. 185 c.p. e le regole
civilistiche di imputazione della responsabilità
oggettiva, per loro stessa natura incompatibili con la
necessità di provare l’elemento soggettivo del reato,
nonché nel meccanismo presuntivo della colpa che è
concepibile solo per i reati colposi e non dolosi (come
ad es. l’ingiuria), salvo che non si tratti di lesione
di un bene costituzionalmente garantito (es. l’onore o
la reputazione) la cui tutela risarcitoria è svincolata
dal reato (in tal senso Corte Cost. n. 233/2003).
Pertanto la previsione di una
responsabilità di natura oggettiva, così come
disciplinato dal quarto comma dell’art. 2054 c.c., è
incompatibile con l’accertamento dell’elemento
soggettivo del reato e, di conseguenza, il danneggiato
non potrà, in tale peculiare ipotesi, valersi di tale
norma dovendo, quindi, provare la colpa, utilizzando i
mezzi probatori inerenti al rito civile, ivi comprese le
presunzioni.
La decisiva conferma a tale
revirement, che postula il riconoscimento della
risarcibilità del danno morale “pure nel caso in cui la
responsabilità sia ritenuta su basi presuntive”, giunge
tanto dall’ordinanza (di remissione) della Terza Sezione
della Suprema Corte del febbraio del 2008, quanto dalla
risolutiva sentenza delle Sezioni Unite del novembre
dello stesso anno.
Asserita la bipartizione della
responsabilità aquiliana, prevista dal codice vigente,
tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non
patrimoniale (art. 2059 c.c.), è stato opportunamente
enucleato che, pur restando immutata la tipicità
prevista da quest’ultima norma, il danno non
patrimoniale debba essere risarcito tanto nelle ipotesi
specifiche previste dalla legge ordinaria, quanto nelle
eventualità di lesione di valori inerenti la persona
umana, costituzionalmente protetti ai quali va comunque
riconosciuta almeno la tutela minima, che è quella
risarcitoria. A tal proposito è emersa la questione
dell’opportunità di mantenere inalterata la categoria
dogmatica del danno esistenziale.
In particolare, la problematica si
spinge nella prospettiva di evitare, mediante
l’individuazione di molteplici voci di danno non
patrimoniale (biologico, esistenziale e morale), il
rischio di duplicazioni risarcitorie.
In seguito si sono succeduti
antitetici indirizzi giurisprudenziali, il cui contratso
è stato composto dalla Suprema Corte di Cassazione con
la pronuncia a Sezioni Unite dell’11 novembre 2008, n.
26972.
Il fondamento dell’iter
motivazionale su cui ha poggiato la pronuncia in
commento ricalca la lettura, costituzionalmente
orientata, offerta dalle sentenze n. 8827 e n. 8828 del
2003 all’art. 2059 c.c. da cui discende la necessità di
fornire la tutela minima, cioè quella risarcitoria, a
qualsivoglia pregiudizio agli interessi inerenti la
persona e coperti di garanzia costituzionale, anche al
di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge.
Il passaggio successivo si è
concentrato sul ritorno al sistema bipolare dei
danni-conseguenza a cui logicamente hanno fatto seguito
le esigenze probatorie enucleabili negli elementi
costitutivi dell’illecito civile extracontrattuale,
definito dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali
quelle che prevedono ipotesi di responsabilità
oggettiva), al fine del riconoscimento di una adeguata e
piena tutela risarcitoria.
In concreto, è emersa la necessità
di accertare l’esistenza dei presupposti della condotta,
del nesso causale tra condotta ed evento di danno, nel
senso del pregiudizio cagionato dall’ingiustificata
lesione di interessi meritevoli di tutela, e delle
relative conseguenze dannose (danno-conseguenza, secondo
opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994;
S.u. n. 576, 581, 582, 584/2008).
Gli ambiti della responsabilità
extracontrattuale di natura patrimoniale e non
patrimoniale si differenziano, invero, proprio nella
struttura dell’illecito che ne costituisce la fonte,
poiché le due ipotesi risarcitorie si distinguono in
punto di evento dannoso, con precipuo riguardo alla
lesione dell’interesse protetto.
Laddove per il risarcimento del
danno patrimoniale da fatto illecito, ex art. 2043 c.c.,
il presupposto si rinviene nel concetto di atipicità,
che implica la lesione di qualsiasi interesse
giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), quello
relativo al danno non patrimoniale è connotato, invece,
da tipicità, poiché tale pregiudizio è risarcibile nei
soli casi individuati dalla legge.
Di conseguenza, si evince come il
discrimine per riconoscere la risarcibilità del danno
non patrimoniale si fonda sull’ingiustizia del danno,
che risulta l’unico parametro utile per ‘contenere e
circoscrivere’ l’area del danno non patrimoniale
risarcibile alla luce dell’attenta selezione degli
interessi ‘meritevoli di tutela’ dalla cui offesa
consegue il danno. La valutazione di meritevolezza degli
interessi che postulano il diritto al risarcimento del
danno in caso di pregiudizio, nella cornice dell’art.
2059 c.c., non è rimessa caso per caso al giudice, bensì
è contemplata già a livello normativo, con la previsione
degli specifici casi determinati dalla legge, ovvero, da
parte del giudice che, di volta in volta, deve
verificare, in ossequio ai principi espressi dalla
Costituzione, la sussistenza di specifici diritti
intangibili della persona garantiti dalla tutela minima,
cioè quella risarcitoria.
In particolare, la categoria del
danno morale, tradizionalmente caratterizzata
dall’inscindibile legame fra il fatto illecito e la
sussistenza, anche se solo in astratto, di un reato,
conformemente alle conclusioni raggiunte dalle Sezioni
Unite va definitivamente superata. Invero, né l’art.
2059 c.c. né l’art. 185 c.p. menzionano esplicitamente
il danno morale, ed ancora, la qualificazione che
tradizionalmente viene riservata al danno morale
evidenzia la sua inidoneità ai fini della tutela, posto
che la sofferenza morale derivante dal reato non è
necessariamente transeunte, potendo, al contrario, le
conseguenze pregiudizievoli protrarsi anche per lungo
tempo.
Il “danno morale” non integra una
autonoma sottocategoria di danno, ma si limita a
rappresentare una peculiare tipologia di pregiudizio
insito nella sofferenza soggettiva cagionata dal reato
in sé considerata: “sofferenza la cui intensità e durata
nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza
del danno, ma solo della quantificazione del
risarcimento”.
I diritti meritevoli di tutela
possono essere, nondimeno, individuati dal giudice,
anche al di fuori dei casi predeterminati dalla legge
ordinaria, riconoscendo la tutela risarcitoria non
patrimoniale anche nei casi di lesione ad interessi
inerenti la persona, pur se non espressamente
identificati come diritti inviolabili dalla Costituzione
(Corte cost. n. 87/1979).
Quindi, la tutela risarcitoria del
danno non patrimoniale, fuori dai casi determinati dalla
legge, presuppone la lesione di un diritto inviolabile
della persona, nonché “la sussistenza di una ingiustizia
costituzionalmente qualificata”. A ciò si aggiunge
l’interpretazione elastica dell’art. 2 Cost., da tempo
al centro di un processo evolutivo, che permette, oggi,
all’interprete di fare assurgere al rango di interessi
meritevoli di tutela i c.d. nuovi diritti, nati da
esigenze sociali e che, pur non autonomamente rilevanti
per l’ordinamento, sono, nondimeno, degni di adeguata
protezione riguardando direttamente la sfera inviolabile
della persona.
La ricostruzione accolta dalle
Sezioni unite si mostra decisamente aderente alla tesi
anti-esistenzialista con l’intenzione di scongiurare il
rischio di ingiustificate duplicazioni risarcitorie. Ad
avviso dei Giudici di legittimità, quindi, il danno non
patrimoniale è categoria unitaria non suscettibile di
suddivisione in distinte sottocategorie variamente
etichettate. Le categorie del danno biologico, morale ed
esistenziale, pertanto, non rappresentano singole voci
autonomamente risarcibili del danno non patrimoniale,
ma, in realtà, costituiscono mere sintesi terminologiche
di particolari manifestazioni dell’unico danno non
patrimoniale in concreto sofferto.
Concludendo, quindi, la
tripartizione del danno non patrimoniale adottata dalle
sentenze gemelle del 2003, e recepita dalla sentenza, n.
233/2003 della Corte costituzionale, in tanto ha ragione
di esistere, in quanto il suo ambito di applicazione
resti circoscritto all’interno di una funzione meramente
descrittiva.
Posto che non può (e non deve) più
farsi riferimento ad una generica sottocategoria
denominata “danno esistenziale”, restano fermi i
presupposti sui quali si fonda la ricostruzione del
danno non patrimoniale.
Con particolare riferimento al tipo
di pregiudizio in concreto sofferto, cioè al
danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè
all’evento dannoso, è necessario, ribadiscono i Giudici
di Legittimità, non confondere i piani del pregiudizio
da riparare e quello dell’ingiustizia da dimostrare.
Invero, ancorare la risarcibilità del danno non
patrimoniale al solo danno-conseguenza si risolverebbe
sostanzialmente nell’abrogazione surrettizia dell’art.
2059 c.c. nella sua lettura costituzionalmente
orientata, eliminando la necessaria limitazione della
tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati
dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale
sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile
della persona, e cioè in presenza di un’ingiustizia
costituzionalmente qualificata dell’evento dannoso.
Coerentemente, le Sezioni Unite
ribadiscono l’inammissibilità della tesi incentrata
sull’affermazione secondo cui il danno esistenziale non
deve coincidere con la lesione di un bene
costituzionalmente garantito, ma può derivare dalla
lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante, ciò
in aperto contrasto, peraltro, con l’affermato principio
della tipicità del danno non patrimoniale.
La Suprema Corte ha tracciato,
altresì, i limiti entro cui è ammissibile il
risarcimento di pretesi danni esistenziali sovente
richiesto ai giudici di pace e che ha portato
all’incremento delle cd. liti bagatellari.
I presupposti per addivenire
all’accertamento del danno non patrimoniale consistono,
dunque, nella lesione dell’interesse in termini di
ingiustizia costituzionalmente qualificata, unica
ipotesi in cui è legittimamente invocabili l’art. 2059
c.c. Ne discende un giudizio di non meritevolezza della
tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno
esistenziale, nelle ipotesi di pregiudizi consistenti in
disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo
di frustrazione concernente gli aspetti più disparati
delle abitudini di vita quotidiana che ciascuno
percepisce nel contesto sociale, come il diritto alla
qualità della vita, allo stato di benessere, alla
serenità: in definitiva, il diritto ad essere felici, ai
quali ha offerto, invece, tutela una considerevole parte
della giustizia di prossimità.
Un altro presupposto
imprescindibile per l’ammissione al risarcimento
riguarda la gravità dell’offesa e la serietà del danno.
Il giudizio di gravità è parametrato alla c.d. soglia
minima di offensività, sulla cui base viene accertata la
‘serietà’ del pregiudizio, cioè l’attitudine della
lesione a superare il livello minimo di normale
tolleranza (non è ‘serio’, ad esempio, il pregiudizio
conseguente ad un graffio superficiale dell’epidermide,
un mal di testa per una sola mattinata conseguente ai
fumi emessi da una fabbrica ecc.).
Gli enunciati limiti alla
risarcibilità del danno non patrimoniale devono essere
vagliati dal giudice di pace secondo il parametro
costituito dalla coscienza sociale in un determinato
momento storico, ed inoltre, anche nelle cause in cui
decide secondo equità (di valore non superiore a 1.100
euro), poiché costituiscono “principi informatori della
materia in tema di risarcimento del danno non
patrimoniale”, all’osservanza dei quali il giudice di
pace è vincolato anche nelle questioni da decidere
secondo equità (Corte cost. n. 206/2004).
Un ulteriore problema sorto
all’indomani dell’arresto giurisprudenziale del 2008
riguarda il metodo da seguire per la liquidazione del
danno esistenziale, e, in particolare, l’opportunità o
meno di fare riferimento alle tabelle predisposte per il
danno biologico ovvero predisporne altre specificamente
rivolte a colmare eventuali lacune createsi a seguito
del riconoscimento di un danno non patrimoniale
onnicomprensivo. Invero la decisione in tale
prospettiva spetterebbe al legislatore, ma allo stato
attuale non vi è alcuna norma di riferimento, atteso che
il conditor iuris si è preoccupato di delineare
metodologie liquidative unicamente rivolte al danno
biologico. La S.C., di contro, ha ritenuto comunque
possibile, per il giudice, liquidare il danno biologico
prescindendo dalle tabelle di elaborazione giudiziale,
purché motivi adeguatamente (5).
La Suprema Corte a Sezioni Unite,
invero, non ha fornito risposte certe rispetto alla
questione della liquidazione del danno non patrimoniale,
permane quindi la necessità di ricercare un plausibile
metodo liquidativo del danno non patrimoniale nella sua
nuova visione unitaria.
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(1) NAVARRETTA, Diritti inviolabili
e risarcimento del danno, Torino, 1996, 416; della
stessa autrice, Bilanciamento di interessi
costituzionali e regole civilistiche, in Riv. crit. dir.
priv., 1999, 625; BUSNELLI, Interessi della persona e
risarcimento del danno, in Riv. dir. proc. civ., 1996, 4
ss.
(2) MONATERI, Verso una teoria del
danno esistenziale, in CENDON e ZIVIZ (a cura di), Il
danno esistenziale. Una nuova categoria della
responsabilità civile, cit., 723, ove l'Autore prosegue:
"Non mi vedo, insomma, un medico legale chiamato a
valutare l'esistenzialità delle persone. Danno biologico
di natura fisica e danno psichico sono separati dal
danno esistenziale, che non può essere, per sua natura,
oggetto di consulenza medico-legale". Critico sulla
concezione tripartita del Monateri (danno patrimoniale,
biologico, morale) è PROCIDA MIRABELLI DI LAURO, Il
danno ingiusto (dall'ermeneutica "bipolare" alla teoria
generale e "monocentrica" della responsabilità civile),
Parte II, Ingiustizia, patrimonialità, non
patrimonialità nella teoria del danno risarcibile, in
Riv. crit. dir. priv., 2003, 221 ss.
(3) Cfr. Cass. 31 maggio 2003 n.
8827 e n. 8828, in Danno e resp., 2003, 816 e 819 e
anche dopo la soluzione positiva fatta propria dalle
Sezioni unite del 2006, Cass. sez. un. 24 marzo 2006 n.
6572, in questa Rivista, 2006, 1572 ss.
(4) VIRGADAMO, Art. 2059 e
"ingiustizia conformata": verso un nuovo assetto del
sistema risarcitorio del danno non patrimoniale, in
questa Rivista, 2006, 531 ss.
(5) Sulla elaborazione del danno
esistenziale, v. CENDON (a cura di), La responsabilità
extracontrattuale. Le nuove figure di danno nella
giurisprudenza, Milano, 1994; ZIVIZ, Alla scoperta del
danno esistenziale, in Contr. impr., 1994, 845; ID., Il
danno esistenziale preso sul serio, in Resp. civ. prev.,
1999, 1343; CENDON e ZIVIZ (a cura di), Il danno
esistenziale. Una nuova categoria della responsabilità
civile, Milano, 2000, 9 ss.; ZIVIZ, La tutela
risarcitoria della persona. Danno morale e danno
esistenziale, Milano, 1999, 423; ID., Verso un altro
paradigma risarcitorio, in CENDON e ZIVIZ (a cura di) Il
danno esistenziale. Una nuova categoria della
responsabilità civile, cit.; CENDON (a cura di),
Trattato breve dei nuovi danni, Padova, 2001; ZIVIZ,
Danno biologico e danno esistenziale: parallelismi e
sovrapposizioni, in Resp. civ. prev., 2001, 417 ss.; ID.,
Equivoci da sfatare sul danno esistenziale, ibidem, 817
ss.; CENDON, Esistere e non esistere, ibidem, 1251-1333;
ID., Chi ha paura del danno esistenziale?, ibidem, 2002,
807 ss.; CENDON e ZIVIZ, Il risarcimento del danno
esistenziale, Milano, 2003; CENDON(a cura di), Persona e
danno, Milano, 2004.
Autore: Ramona Cavalli |