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La vicenda oggi in esame vede come
protagonista un avvocato che, all'interno della sua
strategia difensiva, pone anche la convocazione del
cliente in studio alla presenza di un terzo soggetto
estraneo, al fine di predisporre una testimonianza sul
colloquio stesso.
Il Giudice di legittimità, chiamato
a valutare la decisione del Consiglio Nazionale Forense,
effettua una distinzione tra gli incontri tra avvocato e
testimone futuro o meglio tra quelli sanzionabili e
quelli no.
Nella fase di istruzione
preliminare delle proprie difese, il legale può assumere
informazioni sui testimoni e sui fatti, onde esaminare
la rilevanza degli stessi anche al fine di verificare
l'esistenza dei presupposti per radicare il giudizio.
Al contrario deve essere
assolutamente vietata ogni forzatura anche tramite
“innocenti “ suggestioni: l'art. 52, primo comma, del
Codice deontologico, vieta “ogni tentativo di
predisporre, al di fuori di ogni esigenza di
riservatezza, accorgimenti per assicurare un risultato
pratico che infici o attenui la libertà del soggetto di
testimoniare sui fatti”.
Nella caso in oggetto, la presenza
di una terza persona nel corso dei colloqui tra
l'avvocato e l'assistito, volta ipoteticamente ad
istruire il futuro teste, può essere letta come una
strategia tesa ad ottenere un risultato pratico al
momento dell'escussione. Svolgimento del processo
A seguito di esposto in data
13.6.2007 presentato dall'avv. B.P., il Consiglio
dell'Ordine degli Avvocati di Bergamo, sentita l'avv.
N..C.L., deliberò l'apertura di procedimento
disciplinare a suo carico per fatti integranti
violazione dell'art. 58 c. 1 del Codice Deontologico
Forense, fatti relativi alla partecipazione, ad un
colloquio tra il legale e la sua assistita ed in
pendenza di una causa civile, della persona che sarebbe
stata indicata come teste nella causa stessa, nonché
alla circostanza di aver successivamente accreditato
innanzi al giudice la falsità della deposizione dal
teste resa perché difforme dalla versione ascoltata in
quel colloquio. A conclusione del procedimento il
predetto CO.A. - ritenuta la incolpata responsabile -
con decisione 24.3.2009 le comminò la sanzione
dell'avvertimento. L'avv. C.L. propose quindi ricorso al
Consiglio Nazionale Forense lamentando irregolarità
nella conduzione delle indagini, violazioni nella
escussione in tal fase di essa incolpata, difformità
della contestazione dai fatti oggetto di indagine e, nel
merito, la insussistenza di alcun profilo
deontologicamente rilevante nei fatti oggetto di
addebito. Il Consiglio Nazionale Forense con decisione
del 25.10.2010 ha rigettato il ricorso osservando:
-
che non aveva rilievo la mancata acquisizione nella fase
delle indagini preliminari presso il COA dell'intero
verbale di udienza né la mancata completa audizione
dell'interessato in tal fase, posto che la fase
istruttoria non è indispensabile e può essere del tutto
assorbita dalla immediata apertura del procedimento e
che quel che rileva è la specificità del fatto
contestato in tal sede e non la sua difformità da atti
pregressi;
-
che il fatto ascritto era provato e rilevante sul piano
disciplinare dato che l'avv. C.L. aveva mancato al suo
dovere di riservatezza facendo partecipare al colloquio
con il proprio cliente un estraneo al fine di
predisporre una testimonianza sul colloquio stesso, e
che la stessa professionista aveva deciso di rendere
dichiarazioni su fatti ed elementi difensivi coperti dal
segreto in tal modo assumendo la veste di testimone nel
giudizio civile senza previa rinuncia al mandato in
violazione dell'art. 58 CDF. Per la cassazione di tale
decisione - notificata il 7.4.2011 - l'avv. N..C.L. ha
proposto ricorso con quattro motivi notificando l'atto
al COA di Bergamo ed al P.G. presso la Cassazione in
data 8-13.5.2011. L'intimato COA non ha svolto difese.
Motivi della decisione
Rilevato che il ricorso risulta
tempestivamente notificato e depositato ai sensi degli
artt. 56 c. 3 RD 1578 del 1933 e 66 u.c. e 67 c. 1 RD 34
del 1937, ritiene il Collegio che le censure mosse alla
decisione del CNF non meritino condivisione.
Con
il primo motivo si censura la decisione del CNF per
avere fatto capo a fatti privi di alcuna base di prova e
ad asserzioni affatto gratuite, quali la procurata
presenza di un teste a colloquio riservato (nel mentre
il teste era stato addotto dalla cliente) e la
incomprensibile accusa di aver premeditato di proporre
se stessa come testimone della falsità del teste stesso
senza previa rinuncia al mandato.
Con
il secondo motivo si addebita lo stravolgimento
perpetrato dal CNF sulla statuizione del COA, l'organo
locale avendo addebitato di aver proposto sé stesso al
giudice come teste "atipico" (nel mentre a leggere i
verbali si rilevava che si era trattato solo di una
capitolazione su colloqui avvenuti nel suo studio con
indicazione come testi di altri due soggetti) ed il CNF
avendo riqualificato la vicenda come vera e propria
assunzione di veste di teste nel giudizio stesso.
Con
il terzo e quarto motivo si lamentano violazioni
avvenute innanzi al COA di Bergamo nella fase delle
indagini anteriori alla apertura del procedimento.
Si
osserva, quanto ai motivi (3 e 4) denunzianti violazioni
avverate nella fase delle indagini preliminari innanzi
al COA, motivi che essendo connessi ben possono
congiuntamente esaminarsi, che appare corretta la
decisione del CNF posto che l'area del rilevante sul
piano dei diritti dell'incolpato coincide con quanto
esposto e contestato nella delibera - notoriamente
ricorribile (S.U. 29294 del 2008 e 22624 del 2010) - di
apertura del procedimento; di contro nessuna lesione può
avverarsi nella fase antecedente, a carattere
informativo - istruttorio, fase affatto eventuale e alla
cui "gestione" il futuro incolpato non ha diritti di
accesso di sorta (S.U. 20843 del 2007, 3880 del 2010,
11564 del 2011). Venendo al merito, e quindi alla
disamina dei primi due motivi del ricorso, occorre
ricordare quanto affermato dalla decisione di queste
S.U., recante il n. 15852 del 2009, sul valore
integrativo od indicativo delle previsioni del Codice
Deontologico Forense approvato con delibera 15/2008 del
CNF, nel senso che dette previsioni integrative delle
norme ben possono ispirarsi a concetti diffusi e
recepiti nel sentire collettivo con riguardo ai doveri
dei professionisti di astensione da contegni lesivi del
decoro e della dignità professionale.
In
tal quadro e su tali premesse non appare pertanto frutto
di alcuna indebita "forzatura" la lettura che degli
artt. 52 comma 1 e 58 comma 1 l'organo disciplinare e
quindi il giudice disciplinare forense hanno inteso
dare, coniugando con la esigenza del rispetto della
lettera delle previsioni una loro interpretazione che
ricomprenda comportamenti che attentino alla "sostanza"
dei valori deontologici che le previsioni mirano a
garantire.
Il
C.N.F. nella impugnata decisione ha in realtà solo
formalmente - a pag. 4 della motivazione - distinto i
due momenti della condotta censurata, quello occorso
nello studio professionale dell'avv. C.L. e quello
successivamente tenuto in udienza nella causa civile
nella quale il professionista prestava la propria opera:
la ricostruzione dei fatti che è sottesa alla solo
apparente scomposizione della vicenda in comportamenti
costituenti infrazione disciplinare è infatti
chiaramente unitaria. Non si addebita affatto all'avv.
C.L. di aver sol sentito in studio il futuro teste
condotto dalla cliente, addebito che, ove realmente
formulato, avrebbe rettamente prestato il fianco alle
censure di cui al ricorso (che giustamente rammenta come
la previa verifica di rilevanza e conducenza della
informazione sui fatti del teste è compito del difensore
anche in sede civile e che solo le suggestioni e
forzature defensionali sul teste stesso sono
stigmatizzate dall'art. 52 c. 1 del CDF): gli si
addebita, invece, di aver condotto l'incontro in un
contesto (l'assenza di riservatezza cagionata dalle
persone presenti) che ben si prestava a farlo ritenere
orientato ad acquisire prove testimoniali su quel che in
tal incontro veniva narrato.
Così,
e sotto il secondo versante, e per quanto la non limpida
motivazione della decisione faccia ritenere plausibili i
rilievi mossi in ricorso, il CNF a ben vedere non
addebita affatto al professionista di aver realmente
"assunto la veste" di testimone su quei fatti noti - il
che avrebbe comportato un censurabile stravolgimento dei
fatti attestati dai verbali della causa civile - ma
stigmatizza, come impone la consecuzione della seconda
valutazione alla prima (alla luce di quanto il ricorso
stesso riferisce essere stata la decisione del COA
condivisa dal CNF), che il professionista abbia portato
a compimento la "strategia" impostata con la escussione
"pubblica" del teste nel proprio studio, quella di
addurre, per contrastare la versione dei fatti dal teste
poi riferita al giudice, la diversa versione resa in
quella riservata prima escussione e di chiamare a
deporre le persone presenti a quella escussione, un
collaboratore ed un collega di studio, in tal guisa
accreditando con la propria personale autorevolezza la
persuasività delle circostanze che la articolazione
probatoria esponeva.
È
del resto lo stesso ricorso a precisare (punto A pagg.
12 e 13) che la richiesta di prova, articolata
contestualmente al deposito della querela per falsa
testimonianza proposta dalla cliente, verteva sulle
dichiarazioni e precisazioni che la teste aveva
formulato all'avv. C.L. nei di lei studio professionale
alla presenza del collega avv. B..F. e della segretaria
di studio J.D. .
Su
tali dati di fatto appare quindi chiaro quale sia stato
il precetto deontologico violato a criterio del CNF:
quello volto a contenere il ruolo defensionale nella
audizione del "futuro-teste" nell'ambito della attività
di acquisizione riservata, oggettiva e serena dei dati
afferenti la "utilità" per il proprio assistito della
eventuale sua indicazione nella controversia (art. 52 c.
1 CDF). Di converso essendo palese la esclusione, da tal
lecito agire, di ogni strumentalizzazione di tale ruolo
che sia perpetrata al fine di avvalersi di quei
riservati colloqui per contestare la non veridicità
della deposizione dal teste resa innanzi al Giudice.
E
se tale è il precetto ragionevolmente individuato dal
giudice disciplinare è poi immune da vizi logici l'aver
ritenuto che la sua violazione venne in fatto perpetrata
dal professionista incolpato: nella decisione in
disamina infatti si salda alla valutazione di quella
anomala, "partecipata", indagine di rilevanza del futuro
teste la valutazione della richiesta di offrire colleghi
e segretarie di studio (e quindi la propria stessa
parola di professionista) quali fonti dell'accertamento
della falsità della testimonianza difforme.
Quel
che la decisione del CNF ha inteso formulare, pur con la
faticosa ed emendabile argomentazione in diritto che si
è riferita, è la corretta delimitazione del compito del
difensore nella "istruzione preliminare" delle proprie
difese in sede civile, nel quale è compresa la attenta e
cauta valutazione di utilità della indicazione del teste
per le ragioni del proprio assistito ma dal quale è
estraneo, oltre che l'intervento manipolatorio
espressamente censurato al comma 1 dell'art. 52 del CDF,
anche ogni tentativo di predisporre, al di fuori di ogni
esigenza di riservatezza, accorgimenti per assicurare un
risultato pratico (che infici o attenui la libertà del
soggetto di testimoniare sui fatti).
Nel
riferito quadro la decisione impugnata deve ritenersi
immune da violazioni di legge e fondata su congrue e
logiche valutazioni. L'assenza di contraddittori
dispensa dal regolare le spese del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. |