Avv. Maurizio Villani
“La macchina fiscale deve essere
semplice, adeguata ai suoi fini, lavorante senza
attriti, con ossequio rigido alla giustizia”.
(Luigi Einaudi – Primo Presidente
della Repubblica dal 1948 al 1955)
TRE MANOVRE ECONOMICHE E PROCESSO
TRIBUTARIO
A) STATUTO DEL CONTRIBUENTE
B) VERIFICHE FISCALI
C) REDDITOMETRO
D) SPESOMETRO
E) INDAGINI BANCARIE
F) STUDI DI SETTORE
G) ACCERTAMENTI FISCALI
H) ACCERTAMENTI FISCALI - RADDOPPIO
DEI TERMINI
I) ACCERTAMENTI ESECUTIVI DALL’01
OTTOBRE 2011
L) LE NUOVE ISCRIZIONI PROVVISORIE
M) LITI CON RECLAMO DALL’01 APRILE
2012
N) ABUSO DEL DIRITTO
O) FATTURE FALSE E DEDUCIBILITA’
DEI COSTI
P) RISCOSSIONE - RUOLI - RIMBORSI –
PRIVILEGI
Q) RIMESSIONE IN TERMINI
R) PROBLEMI DELLA GIURISDIZIONE
S) AUTOTUTELA
T) LE COMMISSIONI TRIBUTARIE NON
DEVONO ESSERE PARALIZZATE
U) RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E
RIFORMA DEL PROCESSO TRIBUTARIO
V) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
TRE MANOVRE ECONOMICHE E PROCESSO
TRIBUTARIO
Non si deve limitare sempre il
diritto di difesa del contribuente
Il legislatore fiscale con le
ultime manovre economico-finanziarie non solo ha
ulteriormente rafforzato l’attività di accertamento
degli uffici ma, cosa ancora più grave, ha limitato il
diritto di difesa del contribuente,non consentendogli
una piena ed efficace tutela giurisdizionale.
In particolare, il legislatore è
intervenuto con le seguenti norme:
- Decreto legge n.70 del
13-05-2011, convertito, con modificazioni,dalla legge
n.106 del 12 luglio 2011 ( in G.U. – serie generale
n.110 del 13 maggio 2011); c.d. Decreto Sviluppo;
- Decreto legge n.98 del
06-07-2011, convertito, con modificazioni, dalla legge
n.111 del 15 luglio 2011 (in G.U. n.164 del 16-07-2011);
- Decreto legge n.138 del
13-08-2011 (in G.U. n.188 del 13-08-2011) convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 148 del 14/09/2011 (in
G.U. del 16/09/2011), c.d. manovra correttiva bis.
Con i suddetti tre provvedimenti
sono state rese più incisive le attività di accertamento
degli uffici fiscali senza, peraltro, riequilibrare la
posizione processuale del contribuente, che continua a
trovarsi in una posizione di svantaggio nei confronti
del fisco perché non può totalmente esercitare il
proprio diritto di difesa.
Oltretutto, questa posizione di
svantaggio è stata da sempre tenuta dal contribuente,
con l’aggravante che con le recenti manovre viene
ulteriormente aggravata.
Con il presente scritto intendo
dimostrare quanto sopra, alla luce non solo della
disciplina fiscale ma anche tenendo conto della recente
giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte
di Cassazione.
In definitiva, se non si riforma
radicalmente il processo tributario, mettendo sullo
stesso piano processuale la parte pubblica e quella
privata, senza alcuna limitazione all’esercizio del
diritto di difesa, non saranno mai pienamente realizzati
i precetti costituzionali degli artt. 24 e 53 della
Costituzione.
A) STATUTO DEL CONTRIBUENTE
Il legislatore con la legge n.212
del 27 luglio 2000 (Statuto dei diritti del
contribuente) ha cercato di stabilire dei principi che
limitassero il potere di supremazia del fisco ma questo
encomiabile tentativo è rimasto lettera morta perché
adottato con semplice legge ordinaria, praticamente
limitata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale
e della Corte di Cassazione.
Infatti, la Corte Costituzionale ha
più volte osservato che le disposizioni della suddetta
legge non hanno rango costituzionale e non
costituiscono, neppure come norme interposte, parametro
idoneo a fondare il giudizio di legittimità
costituzionale di leggi statali.
In tal senso, Corte Costituzionale.
- sentenza n.247 del 20 luglio
2011;
- sentenza n.58 del 2009;
- ordinanza n.13 del 2010;
- ordinanza n.185 del 2009;
- ordinanza n.180 del 2007;
- ordinanza n.428 del 2006;
- ordinanza n.216 del 2004.
Anche la Corte di Cassazione si è
adeguata ai suddetti principi. Infatti, le norme della
legge n.212/2000, emanata in attuazione degli artt.3,
23, 53 e 97 della Costituzione, qualificata
espressamente come principi generali dell’ordinamento
tributario, sono, in alcuni casi, idonee a prescrivere
specifici obblighi a carico dell’Amministrazione
finanziaria e costituiscono, in quanto espressione di
principi già immanenti nell’ordinamento, criteri guida
per il giudice nell’interpretazione delle norme
tributarie (anche anteriori), ma, sempre secondo i
giudici di legittimità, non hanno rango superiore alla
legge ordinaria, di talchè non possono fungere da norme
parametro di costituzionalità, né consentire la
disapplicazione della norma tributaria in asserito
contrasto con le stesse.
In tal senso, Corte di Cassazione –
Sezione Tributaria, con le sentenze:
- n. 2221 del 31 gennaio 2011;
- n. 8254 del o6 aprile 2009.
. Di conseguenza, è necessario
rendere legge costituzionale lo Statuto dei diritti del
contribuente, se veramente si vogliono rispettare e
rendere effettivamente operativi i principi
costituzionali cui intende adeguarsi.
Oggi, purtroppo, lo Statuto del
contribuente viene sistematicamente o calpestato (per
esempio, con la retroattività delle leggi) o totalmente
ignorato proprio a danno del contribuente, come nelle
ultime manovre estive.
B) VERIFICHE FISCALI
1) La Corte di Cassazione – Sez.
Tributaria – con la recente sentenza n.28053 del 15
luglio 2011 ha precisato che ‘’il processo verbale di
constatazione redatto dalla Guardia di Finanza, in
quanto atto amministrativo extraprocessuale costituisce
prova documentale anche nei confronti di soggetti non
destinatari della verifica fiscale; tuttavia, qualora
emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le
modalità previste dall’art.220 disp. att., giacchè
altrimenti la parte del documento redatta
successivamente a detta emersione non può assumere
efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile’’.
Non basta.
Due pagine dopo, i giudici di
legittimità sottolineano che : ‘’ai fini della prova del
reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare
legittimamente ricorso ai verbali di constatazione
redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della
determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa nonché
ricorrere all’accertamento induttivo dell’imponibile
quando le scritture contabili imposte dalla legge sono
state irregolarmente tenute’’.
Questa sentenza si incardina
perfettamente nel filone giurisprudenziale che vuole
sempre più commistioni fra il processo penale e quello
tributario a carico del contribuente e ciò non può che
facilitare sensibilmente il lavoro degli inquirenti e
degli uffici fiscali.
Per la prima volta la Corte di
Cassazione, senza però rinnegare l’ormai straconsolidato
orientamento che valorizza tutti i documenti
extracontabili, con l’importante sentenza n.10581 del 13
maggio 2011 ha precisato che i tabulati ritrovati presso
il consulente del lavoro, che gestisce il servizio
paghe, non legittimano l’accertamento di compensi in
nero.
La Corte di Cassazione, infatti,
con la suddetta sentenza precisa che: ‘’Invero, è del
tutto certo che, finanche nel caso di rinvenimento di
documentazione extracontabile, resta sempre
impregiudicata la verifica in sede contenziosa della
concreta riscontrabilità, nella cennata documentazione,
dei requisiti suscettibili di configurare i presupposti
per l’esercizio del potere di accertamento (vedi, tra le
tante, Cass. n.1575/2007 e n.2217/2006)’’.
Questa importante apertura
giurisprudenziale dei giudici di legittimità è, però,
frustrata dai limiti difensivi che incontra il
contribuente nel processo tributario, che è un processo
prettamente documentale e non ammette la testimonianza
ed il giuramento.
Inoltre, la Corte di Cassazione –
Sez. Trib. -, con la sentenza n.1344 del 25 gennaio
2010, ha precisato che:
‘’L’art.52, comma quinto, del
D.P.R. n.633/72, richiamato dall’art. 33 del D.P.R.
n.600/73 (il quale esclude la possibilità di prendere in
considerazione a favore del contribuente, in sede
amministrativa e contenziosa, i documenti , libri,
scritture, registri, ecc., che non siano stati acquisiti
durante gli accessi perché il contribuente ha rifiutato
di esibirli o perché ha dichiarato di non possederli o
perchè li ha comunque sottratti al controllo) presuppone
uno specifico comportamento del contribuente, che, in
quanto volto a sottrarsi alla prova, fornisca validi
elementi per dubitare della genuinità dei documenti la
cui esistenza emerga nel corso del giudizio.
La norma, pertanto, trova
applicazione soltanto in presenza di una specifica
richiesta o ricerca da parte dell’Amministrazione e di
un rifiuto o di un occultamento da parte del
contribuente, non essendo sufficiente che quest’ultimo
non abbia esibito ai verbalizzanti i documenti
successivamente prodotti in sede giudiziaria (v. tra le
altre Cass. N. 9127 del 2006)’’.
Anche in questo caso, però, il
contribuente non dovrebbe avere limitazioni ed
esclusioni nell’esercizio del proprio diritto di difesa.
Infine, con il succitato D.L. n.
70/2011:
- viene riconosciuto il regime di
contabilità semplificata alle imprese di servizi con
ricavi fino a 400.000 Euro (limite precedente fissato a
309.874 Euro) ed alle altre imprese con ricavi fino a
700.000 Euro (limite precedente fissato a 516.457 Euro);
- - sono apportate modifiche
all’art. 12 della legge n. 212/2000 cit., riguardanti,
in particolare, il periodo di permanenza
dell’Amministrazione presso le sedi delle imprese in
contabilità semplificata e presso quelle dei lavoratori
autonomi ( per una durata massima di 15 giorni) e, in
generale, vengono estesi i termini per la durata dei
controlli anche per gli enti previdenziali e di
assistenza.
Il problema della tutela effettiva
del contribuente, però, non è risolto sia per la natura
giuridica dello Statuto del contribuente (vedi lett. A)
sia per la natura ordinatoria e non perentoria del
termine, anche in attesa che la Corte di Cassazione si
pronunci sul tema (si rinvia, indirettamente, alla
sentenza n. 26689/o9 del 18 dicembre 2009 della Corte di
Cassazione – Sezione Trib.).
2) Dal prossimo autunno dovranno
trovare attuazione le nuove disposizioni che obbligano
gli enti, preposti ad effettuare verifiche per fini
istituzionali, ad una complessiva attività di
programmazione e coordinamento.
Infatti, un prossimo decreto del
Ministero dell’economia e delle finanze dovrà dettare le
linee guida per la programmazione da parte dei vari
enti, le cui verifiche in sede non devono durare più di
quindici giorni.
A tal proposito, però, c’è da
rilevare che:
- il Decreto Sviluppo, nel
prevedere il bon ton per le verifiche, ha dimenticato
EQUITALIA S.p.A., un soggetto che, specie negli ultimi
tempi, è prepotentemente sotto le luci della ribalta;
- le eventuali violazioni delle
disposizioni che prevedono il coordinamento, la
programmazione e la non ripetizione del controllo
costituiscono, per i dipendenti pubblici che hanno
trasgredito le nuove disposizioni introdotte dal citato
D.L. n. 70/2011, soltanto illeciti disciplinari e non
determinano la nullità derivata dagli atti.
In definitiva, con le ultime
manovre estive il legislatore ha chiuso il cerchio nella
lotta all’evasione fiscale, determinando un
accerchiamento fiscale del contribuente con i seguenti
istituti:
- Comuni in lotta contro
l’evasione;
- dichiarazioni dei redditi
on-line;
- consigli tributari antievasione;
- stretta sulle società di comodo;
- conti correnti nel 730;
- stretta fiscale sulle
cooperative;
- carcere per i maxi evasori
fiscali.
C) REDDITOMETRO
Accertamento da redditometro come
gli studi di settore sia per la connotazione di
presunzione semplice sia per la necessità di esperire
sempre il preventivo contradditorio.
Sono i corretti principi affermati
dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n.13289/2011,
depositata il 17 giugno 2011.
Principi che vincolano il
‘’vecchio’’ redditometro alle regole previste per il
futuro, nuovo redditometro.
La succitata sentenza muta
radicalmente il precedente indirizzo giurisprudenziale,
secondo cui per il ‘’vecchio’’ redditometro non vi era
l’obbligo del contraddittorio (vedi, per esempio,
ordinanza n.7485 del 27 marzo 2010).
Ora, invece, i giudici di
legittimità con la succitata sentenza n.13289/2011 hanno
stabilito che:
‘’Il divieto (‘’non possono in ogni
caso’’) posto dal quarto comma dell’articolo 6 della
legge 27 luglio 2000 n.212 di richiedere ‘’al
contribuente……. documenti e informazioni già in possesso
dell’amministrazione finanziaria o di altre
amministrazioni pubbliche indicate dal contribuente’’
(perché, prosegue la norma, ‘’tali documenti e
informazioni sono acquisiti ai sensi dell’articolo 18,
commi 2 e 3, della legge 7 agosto 1990 n.241, relativi
ai casi di accertamento d’ufficio di fatti, stati e
qualità del soggetto interessato dalla azione
amministrativa), tenuto conto della necessità
(evidenziata dalle Sezioni Unite nella citata decisione
n. 26635 del 2009) di esperire il preventivo
contraddittorio per adeguare ‘’l’elaborazione statistica
degli standard’’ considerati dai DD.MM. del 1992 ‘’alla
concreta realtà economica del (singolo) contribuente’’,
di per sé solo, non esclude il potere dell’
‘’amministrazione finanziaria’’ di chiedere, oltre che
‘’documenti e informazioni’’ non in suo possesso, anche
quelle “di altre amministrazioni pubbliche indicate dal
contribuente’’), soprattutto specificazioni su
‘’informazioni’’ da esso già conosciute anche per dare
concretezza ed effettività a quel contraddittorio’’.
Anche per questi motivi non è più
giustificabile alcuna limitazione del diritto di difesa
del contribuente sia nella fase amministrativa sia nella
fase processuale.
Vi è, quindi, un completo cambio di
rotta da parte della Cassazione, che afferma l’obbligo
anche per il passato di esperire preventivamente il
contraddittorio.
Infine, occorre precisare che, per
il secondo anno consecutivo (anni 2009 e 2010), pur
verso la scadenza di settembre delle dichiarazioni 2011,
il nuovo meccanismo induttivo del redditometro (art. 22
del D.L. n.78 del 31 maggio 2010) resta un oggetto
misterioso, in quanto il contribuente non può testare il
software della capacità contributiva.
Ciò, pertanto, renderà ancora più
difficile la linea difensiva nel processo tributario.
Anche per questi motivi non è più
giustificabile alcuna limitazione del diritto di difesa
del contribuente sia nella fase amministrativa sia nella
fase processuale.
Infatti, per contrastare il
redditometro sono poche le vie di fuga, in quanto sono
richieste prove rigorose e circostanziate per ribaltare
le presunzioni.
A titolo di esempio, si citano le
ultime sentenze della Corte di Cassazione che hanno
ribadito i suesposti principi:
- n. 12448 dell’08 giugno 2011;
- n. 11213 del 20 maggio 2011;
- n. 9549 del 29 aprile 2011;
- n. 7408 del 31 marzo 2011;
- n. 2726 del 04 febbraio 2011.
Infine, si fa presente che
l’accertamento sintetico (compreso il redditometro)
spazza via tutti gli altri accertamenti.
Nella gran parte dei casi, infatti,
il contribuente raggiunto da una rettifica basata sul
‘’sintetico’’ non potrà più essere sottoposto ad altro
accertamento (Dario Deotto, in ‘’Il Sole 24 Ore’’ di
lunedì 08 agosto 2011).
D) SPESOMETRO
Dall’01 luglio 2011 i commercianti
al minuto e tutti i prestatori di servizi che
certificano i corrispettivi con ricevute e scontrini
fiscali dovranno monitorare le operazioni il cui prezzo,
IVA inclusa, sia di ammontare uguale o superiore a 3.600
Euro, identificando il cliente e conservando con cura le
relative informazioni per trasferirle nelle
comunicazioni da inviare all’Agenzia delle entrate.
Con le recenti manovre di cui
sopra, per i pagamenti di importo non inferiore ai 3.600
Euro (iva compresa) effettuati con strumenti tracciabili
(Bancomat, carte di credito, ecc.) saranno gli operatori
emittenti i mezzi elettronici di pagamento stessi ad
implementare le banche dati dell’anagrafe tributaria al
posto dei contribuenti titolari di partita IVA . Anche
le vendite a rate non sono escluse dalla comunicazione.
L’adempimento si sposta così dai
soggetti passivi IVA agli operatori finanziari che
emettono le carte di credito, di debito e prepagate.
Con lo spesometro il legislatore
vuole ulteriormente potenziare l’istituto giuridico del
redditometro (vedi lett. ‘’C’’) ed appunto per questo si
dovevano togliere tutti i limiti istruttori oggi
presenti nel processo tributario per riequilibrare la
posizione processuale ed amministrativa del
contribuente.
E) INDAGINI BANCARIE
Con le manovre economiche estive di
cui sopra sono stati semplificati gli accessi
dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di Finanza
presso gli intermediari finanziari per l’acquisizione
diretta di dati e notizie relativi ai contribuenti.
E’ stata ampliata la platea degli
enti cui sarà possibile effettuare i controlli: non solo
uffici postali e banche ma tutti gli intermediari
finanziari che non hanno risposto alle richieste
dell’amministrazione o hanno fornito informazioni di
dubbia correttezza.
Inoltre, nelle dichiarazioni dei
redditi e dell’Iva si dovranno indicare i dati degli
intermediari finanziari e nei Comuni il reddito
dichiarato finirà on-line.
Rispetto alla bozza iniziale,
invece, non c’è stata la norma (attesa soprattutto dai
professionisti) che annullava la presunzione legale di
maggiori ricavi e compensi con riferimento ai
prelevamenti non giustificati.
La normativa sulle indagini
bancarie configura una presunzione legale iuris tantum,
in favore dell’Amministrazione finanziaria, che non deve
fornire ulteriori elementi a supporto della pretesa
tributaria (in tal senso, Cass. Sez. Trib., sentenza
n.11750 del 12 maggio 2008).
Inoltre, secondo i giudici di
legittimità, la controprova che deve dare il
contribuente non deve essere generica, ma analitica, con
riferimento a tutte le movimentazioni, in entrata ed in
uscita, contestate.
In particolare, spetta sempre al
contribuente provare che i versamenti sono stati
registrati in contabilità e che i prelevamenti sono
serviti per pagare determinati beneficiari, anziché
costituire acquisizione di utili, qualora il
contribuente stesso intenda vincere la presunzione di
ricavi dei versamenti e dei prelevamenti.
I suddetti principi sono stati più
volte confermati dalla Corte di Cassazione, Sezione
Tributaria, con le seguenti sentenze:
- n. 18016 del 09 settembre 2005;
- n.18339 del 17 agosto 2009;
- n. 6617 del 19 marzo 2009;
- n.13819 del 13 giugno 2007.
La presunzione legale in esame è
divenuta molto più ‘’invadente’’ dopo le modifiche
apportate all’art. 32 del D.P.R. n.600/73, ad opera
della legge n. 311 del 30 dicembre 2004, per effetto
della quale ‘’alle stesse condizioni sono altresì posti
come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed
accertamenti, se il contribuente non ne indica il
soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle
scritture contabili i prelevamenti o gli importi
riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od
operazioni’’.
Inoltre, nella giurisprudenza della
Corte di Cassazione si sta verificando un contrasto
interpretativo in merito all’individuazione dei
presupposti per effettuare i controlli bancari intestati
esclusivamente a soggetti diversi dal contribuente
indagato.
Negli ultimi tempi, sembrava
prevalere l’orientamento secondo il quale il solo
vincolo familiare ed il rapporto societario non erano
sufficienti ad estendere il controllo ai conti
dell’amministratore e dei soci e dei loro familiari, ma
occorreva provare, anche in via presuntiva, la
riferibilità degli stessi conti al contribuente.
L’ordinanza n. 1943 del 13
settembre 2010 della Corte di Cassazione ha, però,
smentito tale orientamento, mentre la successiva
sentenza n. 20197 del 24 settembre 2010 lo ha di nuovo
confermato.
Appare, perciò, opportuno che la
questione sia sottoposta quanto prima al vaglio delle
Sezioni Unite.
La circolare n. 32/E del 2006
dell’Agenzia delle Entrate ha chiarito, inoltre, l’onere
probatorio in capo al contribuente (paragrafo 4.4);
cioè:
- il contribuente sottoposto a
controllo potrà fornire a seconda dei diversi ambiti
impositivi la dimostrazione sull’irrilevanza ai fini
impositivi dei movimenti finanziari acquisiti ( il
riferimento è ai versamenti);
- l’indicazione dei soggetti
effettivamente beneficiari dei prelievi;
- l’annotazione dei movimenti nelle
scritture contabili o in dichiarazione.
Nonostante ciò, però, la difesa del
contribuente sulle indagini finanziarie è spuntata, con
i limiti istruttori più volte denunciati, soprattutto se
viene richiesto di documentare la giustificazione dei
prelievi che, per gli importi in contanti, è pressoché
impossibile a distanza di tempo.
Il problema sul fronte della difesa
del contribuente nasce dal fatto che molti uffici
territoriali non tengono in considerazione il percorso
tracciato a livello centrale e procedono comunque alla
contestazione di maggiori ricavi o compensi.
Molti prelievi bancari sono
effettuati per motivi personali e familiari (con
Bancomat o con l’utilizzo di carte di credito) per far
fronte alle ordinarie necessità familiari.
A distanza di anni i verificatori
pretendono giustificazioni di tali movimentazioni spesso
impossibili da fornire con la conseguenza che il
contribuente si vede rettificare i propri compensi per
importi pari a quelli prelevati e spesi per motivi
personali e familiari.
In genere, a nulla serve
evidenziare che i redditi dichiarati sono superiori alle
somme spese.
Ecco perché è necessario ed urgente
riformare seriamente il processo tributario per
consentire al contribuente una più efficace tutela
processuale, anche tramite la testimonianza ed il
giuramento.
In ogni caso, resta forte la
delusione per il fatto che le prime bozze della manovra
prevedevano l’abrogazione, poi cancellata dalla versione
definitiva, dell’incomprensibile presunzione di maggiori
compensi e ricavi a fronte di prelevamenti non
giustificati.
Questa necessaria e logica modifica
non sarebbe stata di poco conto non fosse altro per le
difficoltà nel fornire, a distanza di anni, adeguate
indicazioni in merito ai prelevamenti di somme dai conti
e perché non esistono limiti circa l’importo delle
operazioni, per le quali chiedere giustificazioni,
oltretutto con i limiti difensivi più volte denunciati
nel presente scritto.
La Corte di Cassazione, con le
sentenze n. 767 e 802 del 2011, ha consolidato una serie
di principi in materia di presunzioni, sia sui
prelevamenti che sui versamenti, riconoscendo in
generale un’elevata capacità probatoria a favore del
fisco.
Il contribuente è chiamato,
infatti, a dimostrare di averne tenuto conto nella
determinazione del reddito oppure che le operazioni
bancarie contestate risultano estranee all’attività
svolta: in assenza di prova contraria, le presunzioni
rilevano ai fini accertativi.
Nessuna ulteriore attività
istruttoria è, invece, richiesta ai verificatori in
quanto le movimentazioni bancarie integrano di per sé
una presunzione legale relativa di maggiori ricavi o
compensi.
E’, infatti, onere del soggetto
verificato dimostrare che gli elementi su cui si fondano
le movimentazioni bancarie non si riferiscono ad
un’operazione imponibile, mentre l’onere a carico
dell’ufficio fiscale è soddisfatto attraverso i semplici
dati risultanti dagli stessi conti: in questo senso, la
Corte di Cassazione, con le sentenze n. 6906/2011 e
10036/2011.
Infine, la legittimità
dell’utilizzo dei dati desunti dalla verifica operata
sui conti correnti bancari del contribuente non è
condizionata alla previa instaurazione di un
contraddittorio, la cui omissione non pregiudica,
quindi, la validità nell’atto impositivo emesso.
F) STUDI DI SETTORE
1) La Corte di Cassazione, a
Sezioni Unite, con le sentenze nn. 26635, 26636, 26637 e
26638 del 18 dicembre 2009, ha finalmente messo la
parola fine alla nota querelle attinente la valenza
presuntiva degli studi di settore.
Il pensiero finale della Suprema
Corte è efficacemente sintetizzabile nello stralcio che
segue:
‘’La procedura di accertamento
standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o
degli studi di settore costituisce un sistema di
presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e
concordanza non è ex lege determinata in relazione ai
soli standard in sé considerati, ma nasce
procedimentalmente in esito al contraddittorio da
attivare obbligatoriamente, pena la nullità
dell’accertamento, con il contribuente (che può,
tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul
piano della valutazione, di questo suo atteggiamento),
esito che, essendo alla fine di un percorso di
adeguamento della elaborazione statistica degli standard
alla concreta realtà economica del contribuente, deve
far parte (e condiziona la congruità) della motivazione
dell’accertamento nella quale vanno esposte le ragioni
per le quali i rilievi del destinatario dell’attività
esercitativa siano state disattese.
Il contribuente ha, nel giudizio
relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la
più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni
semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto
l’applicabilità degli standard al caso concreto, che
deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la
controprova sul punto offerta dal contribuente’’.
2) Al tempo stesso, però, la Corte
di Cassazione ha più volte chiarito che spetta sempre al
contribuente provare le condizioni di esclusione dagli
studi di settore.
La normativa, infatti, fa
riferimento alle ‘’ specifiche condizioni di esercizio’’
dell’attività e lascia, quindi, ampio margine nella
deduzione dei fatti impeditivi (art. 3, comma 181, della
legge n. 549/1995); in tal senso, si è più volte
pronunciata la Corte di Cassazione, con le seguenti
sentenze:
- n. 19163 del 2003;
- n. 23602 del 2008;
- n. 24912 del 2008;
- n. 27648 del 2008;
- n. 3288 del 2009.
Da ultimo, la Corte di Cassazione,
Sez. Trib., con la sentenza n. 16235 del 09 luglio 2010,
ha ribadito che:
‘’l’accertamento basato sui
parametri prima, ed ora sugli studi di settore,
costituisce un sistema di presunzioni semplici il cui
fondamento non risiede nello scostamento del reddito
dichiarato rispetto a questi ‘’standards’’, ma nasce se
il contribuente, all’esito del necessario
contraddittorio, non assolve l’onere di provare
l’esistenza di condizioni di esclusione di tali
‘’standards’’ o la specifica realtà della sua attività
economica nel periodo di tempo in esame.
Non è invero sufficiente che egli
faccia generico riferimento ad argomentazioni prive di
qualunque concreta indicazione, come l’ipotesi,
ricorrente nel caso di specie, in cui il contribuente si
è limitato ad addurre, quale ragione dello scostamento,
la mera applicabilità del principio di tassazione per
cassa, trattandosi di reddito professionale’’.
3) La Commissione per l’esame della
compatibilità comunitaria di leggi e prassi fiscali
italiane dell’AIDC ha presentato denuncia alla
Commissione UE di illegittimità comunitaria degli
accertamenti IVA fondati sugli stessi studi di settore.
L’appartenenza degli studi di
settore agli ‘’accertamenti standardizzati’’ evidenzia
il contrasto con il principio di soggettività dei ricavi
imponibili ai fini IVA, che non possono che essere
quelli effettivi.
Né può ritenersi che i risultati
statistici possano essere trasformati in risultati
personali ed effettivi a seguito del contraddittorio tra
fisco e contribuente, caratterizzato da un fisiologico
squilibrio tra funzionario, forte di una presunzione
semplice, e contribuente, su cui grava l’onere della,
spesso difficoltosa, prova contraria, tenuto conto dei
limiti istruttori imposti dalla legge (divieto della
testimonianza e del giuramento).
4) Con le recenti manovre
economiche del 2011 la posizione del contribuente si è
ulteriormente aggravata, perché:
- viene previsto l’inasprimento
delle sanzioni nelle ipotesi di omessa presentazione del
modello degli studi di settore, quando il contribuente
non vi provvede anche a seguito dell’invito da parte
dell’Agenzia delle entrate (vedi Circolare n. 41/E del
05 agosto 2011 dell’Agenzia delle Entrate);
- viene stabilita la possibilità di
effettuare, da parte dell’Amministrazione finanziaria,
l’accertamento induttivo, cioè basato su presunzioni
semplici, sprovviste dei necessari requisiti di gravità,
precisione e concordanza, in presenza di omissione del
modello degli studi di settore o di semplice
irregolarità (anche formale) dei dati. L’accertamento
induttivo è possibile quando il reddito accertato supera
il 10% (dieci per cento) del reddito dichiarato;
- è stata eliminata la previsione
in base alla quale, in caso di accertamento basato su
presunzioni semplici nei confronti di un soggetto
‘’congruo’’, l’ufficio fiscale deve espressamente
riportare nell’accertamento le ragioni che lo hanno
portato a disattendere i risultati degli studi di
settore;
- infine, bisogna rilevare che le
suddette novità hanno in qualche modo a che fare sia con
il termine di versamento del 05 agosto 2011 sia con
quello di presentazione di UNICO 2011, tenendo presente
che le nuove misure si applicano già dalla dichiarazione
che sarà presentata a settembre 2011.
5) La soppressione dell’obbligo di
evidenziare nelle motivazioni dell’atto le suddette
ragioni sembra avere il solo scopo di rendere più
difficoltosa per il contribuente la propria difesa,
omettendo di portare alla sua conoscenza gli elementi
probatori in possesso degli uffici fiscali ed azzerando
in un sol colpo gli importanti principi esposti dalla
Corte di Cassazione a Sezioni Unite (vedi n.1).
6) Oltretutto, siamo al paradosso
per cui chi dichiara redditi inferiori alla soglia della
congruità ma ha correttamente compilato il relativo
modello può essere accertato solo in presenza di
‘’ulteriori elementi’’ che dimostrino la gravità
dell’incongruenza (per esempio, con una difformità
superiore al 10%), mentre chi ha commesso un errore di
compilazione (anche formale, data la complessità e
macchinosità del modello) può subire un accertamento da
studi di settore senza che per l’ufficio sia necessario
addurre ulteriori elementi probatori circa la gravità
dell’incongruenza, essendo sufficiente l’indicazione di
un valore di congruità inferiore anche solo al 10%.
In definitiva, anche in questa
circostanza, il legislatore ha dimostrato di voler
anteporre l’interesse fiscale ad una agevole e rapida
riscossione di pretese la cui legittimità è tutta da
dimostrare rispetto alla doverosa tutela del
contribuente, fisiologicamente parte più debole nel
rapporto impositivo, e peraltro privo di efficaci
strumenti istruttori per poter contrastare le
illegittime pretese del fisco.
7) Infine, con la terza (ed
ultima?) manovra correttiva bis (D.L. N. 138/2011 cit.),
il legislatore è intervenuto nuovamente in materia di
studi di settore.
La preclusione agli accertamenti di
natura analitico induttiva da parte dell’Agenzia
dell’entrate è ora possibile soltanto se i contribuenti
interessati risultino congrui alle risultanze degli
studi di settore, anche a seguito di adeguamento, nel
periodo d’imposta accertato e nel periodo d’imposta
precedente a quello accertato.
G) ACCERTAMENTI FISCALI
1) Con la recente sentenza n.16642
del 29 luglio 2011 la Corte di Cassazione - Sez. Trib. -
ha ribadito il principio che l’accertamento
analitico-induttivo è sempre legittimo quando
l’esposizione dei ricavi è talmente ridotta rispetto ai
costi da far ritenere antieconomica la gestione
dell’impresa.
2) Con l’ordinanza n. 2593 del 03
febbraio 2011 la Corte di Cassazione - Sez. Trib. - ha
precisato che:
‘’il divieto di doppia presunzione
attiene esclusivamente alla correlazione di una
presunzione semplice con un’altra presunzione semplice e
non può ritenersi, invece, violato nel caso in cui da un
fatto noto (costituito dalla presenza di un lavoratore
dipendente non regolarmente assunto) si risale ad un
fatto ignorato (costituito dalla maggiore redditività
del’impresa), di talchè appare legittima la
ricostruzione analitico-induttiva del reddito d’impresa
ex art.39, primo comma, lett. D), del D.P.R. 29
settembre 1973, n. 600, fondato sulla presenza di un
dipendente non regolarmente assunto, da cui venga
desunta l’esistenza di ricavi non contabilizzati in base
a parametri riferiti alla qualifica ed alle mansioni del
lavoratore irregolare, qualora il contribuente non
assolva l’onere della prova contraria, in tal caso su di
esso incombente’’.
3) L’accertamento su società a
ristretta base azionaria rappresenta una forma
particolare di accertamento di maggiori redditi
imponibili adottata dagli uffici fiscali nel corso degli
anni e spesso avvalorata dalla giurisprudenza di merito
e di legittimità.
La presunta distribuzione di utili
derivanti da ricavi non contabilizzati o da minori
costi, in tali atti, individua il superamento del
formalismo giuridico tra società di capitali ristrette
(non caratterizzate da un azionariato diffuso con
interessi differenziati) e persone fisiche proprietarie.
La legittimità dell’accertamento in
esame, in presenza di società a base familiare o,
comunque, a ristretto azionariato, è stata sostenuta
dalla Corte di Cassazione a partire dalla sentenza n.
11785 del 19 febbraio 1990, che ha affermato che la
stessa ristretta base azionaria costituisce, da sola,
prova presuntiva di distribuzione degli utili ai soci,
con inversione dell’onere della prova (probatio
diabolica, con i limiti istruttori più volte
denunciati).
La Corte di Cassazione ha spesso
confermato il suddetto principio con le sentenze:
- n. 4695 del 02 aprile 2002;
- n. 16885 del 2003;
- n. 16729 dell’08 agosto 2005;
- n. 7174 del 16 maggio 2002;
- n. 11724 del 18 maggio 2006.
La suddetta presunzione può essere
superata dal contribuente tramite prova contraria e con
la dimostrazione che i maggiori ricavi sono stati
accantonati ovvero reinvestiti; in tal senso, Corte di
Cassazione con le seguenti sentenze:
- n. 10951 del 25 luglio 2002;
- n. 7564 del 15 maggio 2003;
- n. 20851 del 26 ottobre 2005.
Infine, a completamento dei
principi di cui sopra, la Corte di Cassazione ha
precisato che:
- stante l’indipendenza dei
procedimenti relativi alla società ed al singolo socio,
non è necessario che l’accertamento dei maggiori ricavi
in capo alla società sia divenuto definitivo
(Cassazione, sent. n. 16885/2003);
- la presunzione di cui sopra, in
carenza di qualsivoglia convincente argomentazione
contraria, deve essere confermata anche nell’ipotesi di
una perdita contabile nonostante la considerazione di
ricavi non contabilizzati, atteso che, per effetto della
mancata loro inclusione nella contabilità sociale,
comunque i ricavi conseguiti da operazioni ‘’in nero’’
non risultano né accantonati né reinvestiti e, quindi,
sono stati distratti dalla società per essere
distribuiti ai soci.
Il risultato ‘’pur sempre
negativo’’ del bilancio, infatti, non esclude il fatto
oggettivo che i ricavi non contabilizzati, non entrati
nelle casse sociali, sono stati distribuiti ai soci in
quanto tali (uti soci), quindi senza alcun altro titolo
giuridico che la qualità rivestita (in tal senso,
Cassazione, sentenza n. 18640 dell’08 luglio 2008).
In ogni caso, l’accertamento da
ristretta base azionaria è illegittimo se il socio non è
a conoscenza dei fatti contestati alla società, in base
all’interessante sentenza n. 56 del 06 maggio 2011 della
Commissione Tributaria regionale di Bari.
Infine, non bisogna mai dimenticare
il fatto che non esiste una precisa definizione
giuridica di società a ristretta base sociale, né a base
familiare, in quanto la fattispecie va valutata caso per
caso.
Ecco perché è importante che il
contribuente, quanto meno in sede difensiva, chieda la
sospensione del processo in attesa della definizione del
processo riguardante la società (Cassazione, sentenza n.
20870/2010).
Oltretutto, la Cassazione, con la
sentenza n.2214/2011, ha chiarito che nei rapporti tra
processi tributari si può sempre applicare l’art. 295
c.p.c..
4) Alla luce dei principi
giurisprudenziali della Corte di Cassazione, nelle
particolari (e non rare) ipotesi esposte nei tre numeri
precedenti, non si può continuare a limitare la sfera
difensiva del contribuente, soprattutto nelle diffuse
ipotesi di inversione dell’onere della prova. Uno Stato
di diritto, quale si definisce il nostro, non può
consentire di pregiudicare il diritto di difesa del
contribuente con assurde limitazioni e, cosa ancor più
grave, smantellando e paralizzando le Commissioni
tributarie (come si chiarirà in seguito), con l’evidente
scopo di far cassa a tutti i costi, costringendo il
contribuente a patteggiare con il fisco, rinunciando a
qualsiasi tutela processuale per l’impossibilità di una
effettiva difesa.
Da ultimo, per confermare quanto
sopra esposto, si fa presente che i finanziamenti
concessi dai soci sono a rischio di contestazioni.
Infatti, in assenza di chiare
indicazioni nel bilancio di esercizio, i prestiti sono
sempre considerati fruttiferi di interessi e tassabili
in capo al socio finanziatore, in base alla discutibile
interpretazione della Corte di Cassazione - Sez. Trib. -
con la sentenza n.2735 del 04 febbraio 2011.
5) Inoltre, non bisogna dimenticare
che, in tema di accertamento tributario, motivato da un
forte interesse pubblico, la violazione di regole
formali non comporta come conseguenza necessaria
l’inutilizzabilità degli elementi acquisiti, se ciò non
sia stabilito da una specifica previsione normativa.
In tal senso, Corte di Cassazione,
con le seguenti sentenze:
- n. 9565 del 23 aprile 2007;
- n. 13230 del 09 giugno 2009;
- n. 14058 del 16 giugno 2006;
- n. 5093 del 09 marzo 2005;
- n. 12871 del 22 ottobre 2001;
- n. 2668 del 26 marzo 1996.
E ciò rende ancora più difficile la
difesa del contribuente.
Inoltre, con le ultime manovre
finanziarie, il Governo scommette sulla lotta a
sommerso, con controlli sempre più incisivi per
combattere l’evasione fiscale, soprattutto con i
seguenti istituti:
- regime dei contribuenti minimi
(art. 27, commi 1-7, D.L. n. 98/2011 cit.);
- nuovi limiti al riporto delle
perdite fiscali (art. 23, comma 9, D.L. n. 98/2011
cit.);
- spesometro (art. 7 D.L. n.
70/2011 cit. e art. 23 D.L. n. 98/2011 cit.);
- revoca partite iva inattive (art.
23, commi 22-23, D.L. n. 98/2011 cit.);
- tracciabilità pagamenti in
contanti da € 2.500 in poi (art. 2, comma 4, D.L. n.
138/2011 cit.);
- sospensione professionisti per
omessa fatturazione (art. 2, comma 5, D.L. n. 138/2011
cit.);
- studi di settore (art. 23, comma
28, D.L. n. 98/2011 cit. e art. 2, comma 34, D.L. n.
138/2011 cit.).
H) ACCERTAMENTI FISCALI - RADDOPPIO
DEI TERMINI
1) La Corte Costituzionale, con la
sentenza n. 247 del 25 luglio 2011, ha dichiarato non
fondate le questioni di legittimità costituzionale del
disposto dell’art. 57, comma 3, D.P.R. n. 633/72 (comma
aggiunto dall’art. 37, comma 25, D.L. n. 223 del 04
luglio 2006) in base al quale:
‘’In caso di violazione che
comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331
del codice di procedura penale per uno dei reati
previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000 n. 74, i
termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati
relativamente al periodo di imposta in cui è stata
commessa la violazione’’.
La stessa disposizione è prevista
per le imposte dirette (art. 43, comma 3, D.P.R. n. 600
del 1973, comma aggiunto dall’art. 37, comma 24, D.L. n,
223 del 04 luglio 2006, convertito, con modificazioni
dalla legge n. 248 del 04 agosto 2006).
Secondo la Corte Costituzionale ‘’
i termini raddoppiati di accertamento non costituiscono
una ‘’proroga’’ di quelli ordinari, da disporsi a
discrezione dell’amministrazione finanziaria procedente,
in presenza di “eventi peculiari ed eccezionali’’.
Al contrario, i termini raddoppiati
sono anch’essi termini fissati direttamente dalla legge,
operanti automaticamente in presenza di una speciale
condizione obiettiva (allorchè, cioè, sussista l’obbligo
di denuncia penale per i reati tributari previsti dal
d.lgs. n. 74 del 2000), senza che all’amministrazione
finanziaria sia riservato alcun margine di
discrezionalità per la loro applicazione.
In altre parole, i termini
raddoppiati non si innestano su quelli ‘’brevi’’ di cui
ai primi due commi dell’art. 57 del D.P.R. n. 633 del
1972, in base ad una scelta degli uffici tributari, ma
operano autonomamente allorchè sussistano elementi
obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia
penale per i reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000.
Sotto questo aspetto non può
parlarsi di ‘’riapertura o proroga di termini scaduti’’
né di ‘’reviviscenza di poteri di accertamento ormai
esauriti’’, perché i termini ‘’brevi’’ e quelli
raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine
diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali
si connettono diversi termini di accertamento’’.
Viene, infine, cassata anche la
censura sull’applicazione retroattiva dei termini
raddoppiati come sanzione impropria, perché la
disciplina del raddoppio dei termini non ha natura
sanzionatoria.
In definitiva, la Corte
Costituzionale ha precisato che il raddoppio dei termini
di prescrizione vale anche se la denuncia viene
effettuata quando i termini ordinari (quattro anni, che
salgono a cinque in caso di omessa dichiarazione) siano
già scaduti.
In pratica, in casi molto frequenti
(basti pensare alle ipotesi di dichiarazione infedele o
fraudolenta), l’accertamento fiscale potrà essere
notificato entro il 31 dicembre dell’ottavo anno
successivo (o del decimo anno successivo, in caso di
omessa dichiarazione) a quello di presentazione della
dichiarazione dei redditi, con l’obbligo di conservare
tutta la relativa documentazione per quel periodo
d’imposta.
Infine, la succitata sentenza n.
247/2011 fornisce l’ulteriore conferma della non
validità del condono IVA, già decretata dalla Corte di
giustizia CE e dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione.
2) L’ASSONIME, con la circolare n.
20 del 29-07-2011 critica giustamente la succitata
sentenza della Corte Costituzionale perché il raddoppio
dei termini deriva sempre e comunque dall’attività di
accertamento, per cui pare proprio che ‘’il raddoppio
dei termini non attenga affatto ad una presunta
fattispecie di rilevanza penale distinta o distinguibile
dalle altre violazioni tributarie’’.
Secondo ASSONIME, la lettura della
Corte Costituzionale mostra una ratio legis piuttosto
anomala in un ordinamento complessivamente orientato a
principi di garanzia che trovano una chiara indicazione
sia nella Costituzione stessa sia nello Statuto del
contribuente (vedi precedente lett. ‘’A’’), che pur non
essendo norma costituzionale riveste, in ogni caso, una
riconosciuta valenza orientativa nell’interpretazione.
3) In una situazione del genere,
l’unica difesa del contribuente è quella di eccepire la
strumentalità della ‘’notitiae criminis’’, come chiarito
in un passaggio della succitata sentenza n. 247/2011.
In concreto, nel ricorso il
contribuente dovrà eccepire la decadenza dei termini
ordinari per l’esecuzione dell’accertamento da parte
dell’ufficio fiscale in quanto il raddoppio non si è
realizzato perché la comunicazione della notizia del
reato è stata fatta solo pretestuosamente ed in via
strumentale proprio per usufruire dei termini più ampi.
Tale censura, però, deve essere
motivata e provata opportunamente, evidenziando le
circostanze di fatto o la sequenza degli eventi, dai
quali, appunto, emergerebbe la strumentalità della
denuncia all’autorità giudiziaria.
Anche in questo caso, però, si
tratta di una probatio diabolica, tenuto conto dei
denunciati limiti istruttori imposti al contribuente nel
processo tributario che, specie in questo caso,
pregiudicano seriamente la linea difensiva.
Oltretutto, proprio in occasione
della succitata sentenza n. 247 della Corte
Costituzionale, si è arrivati all’assurdo che sul
quotidiano ITALIA OGGI di mercoledì 03 agosto 2011 è
apparsa un’informazione pubblicitaria
(info.condono2002gmail.com) con cui si invita
l’Amministrazione finanziaria e la Guardia di Finanza a
fare gli accertamenti per l’annualità 2002 perché: ‘’In
mancanza verrebbe meno il principio cardine che LA LEGGE
E’ UGUALE PER TUTTI, OLTRE A REALIZZARSI UN MANCATO
RECUPERO PER LO Stato di gettito altissimo (si pensi
solo ai grandi contribuenti! )’’.
Quindi, al danno la beffa per tutti
quei contribuenti che hanno fatto affidamento alle leggi
dello Stato di quel momento, che consentiva
correttamente il condono IVA per l’anno 2002 e non
prevedeva assolutamente alcun raddoppio dei termini di
decadenza dell’azione accertativa.
Da ultimo, per completare
l’accerchiamento del contribuente, nella G.U. del 01
agosto 2011 è stato pubblicato il decreto del Ministero
dell’Economia e delle Finanze del 15-07-2011, recante la
specifica dei criteri da seguire per poter erogare alle
amministrazioni locali, che hanno partecipato
all’accertamento fiscale e contributivo, il 33% delle
maggiori somme, a titolo di imposta e sanzioni, riscosse
a titolo definitivo, così come previsto dall’art. 1,
comma 1, del D.L. n. 203/2005.
La suddetta disposizione, però, è
stata di recente modificata per effetto dell’art. 2,
comma 10, lett. b), del D.lgs. n. 23 del 14 marzo 2011,
che ha aumentato la quota di partecipazione dal 33% al
50%.
Per l’anno 2011, però, ai Comuni
andrà il 33% e questo renderà ancora più incisiva ed
invadente l’attività di controllo e di accertamento,
senza consentire ai contribuenti una piena libertà di
difesa.
Infine, con il D.L. n. 138 cit., il
legislatore ha previsto per i Comuni il 100% del gettito
dell’attività di accertamento, ma solo se entro il
31/12/2011 mettono in campo i Consigli tributari.
I) ACCERTAMENTI ESECUTIVI DALL’01
OTTOBRE 2011
Il nuovo e più incisivo istituto
giuridico dell’accertamento esecutivo è disciplinato da
tre disposizioni di legge:
- l’art. 29 D.L. n. 78 del 31
maggio 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 122 del 30 luglio 2010;
- l’art. 7, comma 2, lettera N), e
comma 3, D.L. n. 70/2011 cit.;
- l’art. 23, comma 30, D.L. n.
98/2011 cit.
In particolare, in base alle
suddette disposizioni:
- gli avvisi di accertamento emessi
di imposte dirette, IVA, IRAP ed addizionali, nonché i
relativi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni,
concernenti periodi d’imposta in corso al 31 dicembre
2007 e successivi, diventano esecutivi dopo 60 giorni
dalla notifica;
- decorsi 30 giorni dopo la
scadenza dei 60 giorni previsti per adempiere al
pagamento (o per proporre ricorso) l’agente della
riscossione può quindi portare avanti la riscossione
forsata senza la preventiva notifica della cartella di
pagamento (l’accertamento è, infatti, esecutivo);
- in ogni caso, se il contribuente
presenta istanza di accertamento con adesione opera,
senz’altro secondo me, la sospensione dei termini per la
proposizione del ricorso (90 giorni, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 6, comma 3, D.lgs. n. 218 del 19
giugno 1997);
- è prevista la sospensione della
procedura di esecuzione forzata per un periodo di 180
giorni dalla data dell’affidamento dell’avviso di
accertamento all’agente della riscossione, disposizione
cui è stata affiancata la riduzione dell’importo
riscosso in caso di ricorso (dal 50% ad un terzo), come
grazioso contentino al contribuente (!);
- in ogni caso, però, la
sospensione non si applica con riferimento alle azioni
cautelari e conservative, nonché ad ogni altra azione
prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore.
Per effetto della succitata
riforma, quindi, si determina un’anticipazione del
momento della riscossione che fa sorgere in capo al
contribuente l’esigenza di concentrare in un unico atto
le azioni di merito e cautelare, venendo meno in tal
modo le obiezioni di quella parte della dottrina e di
quasi tutta la giurisprudenza di merito che riteneva
(secondo me sbagliando) che l’inibitoria fosse
esperibile soltanto in presenza di un’iscrizione a ruolo
già effettuata, anche a titolo provvisorio.
Va tenuto, altresì, presente che
per rendere, oggi, effettiva la tutela del contribuente
in sede processuale occorrerà accelerare i tempi della
trattazione delle istanze di sospensione da parte dei
giudici tributari, in modo tale che le udienze si
svolgano prima della scadenza del termine o dei 60
giorni previsto per la riscossione spontanea o dei 180
giorni, quale termine ultimo per ottenere la sospensiva.
A fronte di maggiore incisività ed
accelerazione delle procedure di riscossione a titolo
provvisorio, però, non corrisponde un’altrettanto
incisiva tutela processuale del contribuente perché:
- con la parziale riforma della
giustizia tributaria e con i nuovi casi di
incompatibilità, di cui tratteremo in seguito, di fatto
si rischia la paralisi delle Commissioni tributarie, con
la sensibile riduzione degli organici, senza che il
contribuente riesca ad ottenere la fissazione dell’
udienza di sospensiva nei ristretti termini previsti
dalla legge;
- inoltre, nonostante la chiara ed
importante sentenza della Corte Costituzionale (n. 217
del 17 giugno 2010), molte Commissioni tributarie di
merito continuano a negare la sospensiva in grado di
appello (per esempio, C.T.R. della Lombardia - Se.
Brescia – Sez. LXVI, ordinanza n. 26 del 18 ottobre
2010; C.T.R. della Puglia - Sez. Lecce - Sez. 23,
ordinanza n. 80 del 28 aprile 2011).
Persino la Corte di Cassazione,
Sez. Trib., con la sentenza n. 21121 del 13-10-2010 ha
negato la sospensiva in grado di appello.
La sentenza della Corte
Costituzionale, che afferma la sospendibilità della
sentenza di secondo grado, è stata depositata il giorno
17 giugno 2010; la succitata sentenza della Corte di
Cassazione è stata deliberata il 28 maggio 2010 (anche
se depositata il 13 ottobre 2010). Quindi , prima che la
Consulta si pronunciasse.
Con un po’ di attenzione, però, si
sarebbe potuto aggiustare la motivazione, adeguandola a
quella della recente sentenza della Corte
Costituzionale.
Ultimamente, però, la C.T.R. della
Lombardia, con l’ordinanza n. 8 del 24 maggio 2011, ha
nuovamente rimesso la questione alla Corte
Costituzionale, con la speranza che, questa volta, una
conferma della Consulta annienti definitivamente tesi
contrarie.
In ogni caso, per definire una
buona volta per tutte la questione, sarebbe opportuno
prevedere, de iure condendo, un’esplicita ammissibilità
della sospensiva anche in grado di appello.
L) LE NUOVE ISCRIZIONI PROVVISORIE
Con le recenti manovre economiche,
il legislatore fiscale ha adottato nei confronti del
contribuente il bastone e la carota.
Il ‘’bastone’’ è rappresentato
sostanzialmente dall’accertamento esecutivo e dalla
paralisi della giustizia tributaria, con l’assurdo
allargamento delle ipotesi di incompatibilità previste
dall’art. 8 D.Lgs. n. 545 del 31 dicembre 1992.
La ‘’carota’’, invece, anche se non
attenua il bastone di cui sopra, è rappresentata dalla
riduzione ad un terzo, dal precedente cinquanta per
cento, delle iscrizioni provvisorie per le imposte
dirette e per l’IVA.
Infatti, l’art. 7, comma
2-quinques, D.L. n. 70 del 13 maggio 2011, convertito
con modificazioni dalla legge n. 106 del 12 luglio 2011
(in G.U. n. 160 del 12 luglio 2011), testualmente
dispone:
‘’All’articolo 15, primo comma, del
decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre
1973 n.602, e successive modificazioni, le parole: ‘’la
metà’’ sono sostituite dalle seguenti: ‘’un terzo’’.
Di conseguenza, la nuova
formulazione dell’art. 15 cit. è la seguente:
‘’Le imposte, i contributi ed i
premi corrispondenti agli imponibili accertati
dall’ufficio ma non ancora definitivi, nonché i relativi
interessi, sono iscritti a titolo provvisorio nei ruoli,
dopo la notifica dell’atto di accertamento, per un terzo
degli ammontari corrispondenti agli imponibili o ai
maggiori imponibili accertati’’.
A tal proposito, si precisa che:
- il suddetto comma era stato
sostituito, con effetto dal 01 gennaio 1999, dall’art. 4
D.Lgs. n. 462 del 18 dicembre 1997;
- la suddetta disposizione è
applicabile anche ai fini IVA, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 23 D.Lgs. n. 46 del 26-02-1999
(articolo così sostituito dall’art. 1, comma 5-ter,
lett. b), numero 1, D.L. 17 giugno 2005 n. 106,
modificato dalla legge di conversione).
Il nuovo art. 15 cit. è entrato in
vigore il giorno 13-07-2011, successivo a quello della
sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale n. 160 del
12-07-2011.
Di conseguenza, tutti i ruoli
provvisori formati dagli uffici dal 13-07-2011 devono
tenere conto della novella legislativa, e quindi
calcolare un terzo, e non più la metà, della maggiore
imposta accertata, oltre gli interessi,
indipendentemente dal periodo d’imposta accertato.
Infatti, l’art. 12, comma 4, D.P.R.
n. 602 del 29-09-1973 testualmente dispone:
‘’Il ruolo è sottoscritto, anche
mediante firma elettronica, dal titolare dell’ufficio o
da un suo delegato. Con la sottoscrizione il ruolo
diviene esecutivo’’ (articolo così sostituito, con
effetto 01 luglio 1999, dall’art. 4 D.Lgs. n. 46 del 26
febbraio 1999).
Oltretutto, ai sensi e per gli
effetti dell’art. 25, comma 2-bis, D.P.R. n. 602 cit.:
‘’La cartella di pagamento contiene
anche l’indicazione della data in cui il ruolo è stato
reso esecutivo’’ (comma aggiunto dall’art. 8, comma 1,
lett. b), D.Lgs. n. 32 del 26 gennaio 2001).
In definitiva, dalle prossime
cartelle esattoriali bisogna stare attenti a leggere la
data in cui il ruolo è stato reso esecutivo perché, se
formato dal 13-07-2011 in poi, l’iscrizione provvisoria
deve essere fatta con la nuova misura del terzo, pena la
nullità del ruolo stesso da far valere dinanzi la
Commissione tributaria provinciale, indipendentemente
dal periodo d’imposta in contestazione.
Infatti, la normativa in questione
fa riferimento soltanto alla fase della riscossione
(D.P.R. n. 602 del 1973 cit.) e non anche alla fase
dell’accertamento (D.P.R. n . 600 del 29 settembre 1973
e successive modifiche ed integrazioni).
Oltretutto, l’illegittima
iscrizione a ruolo può convincere i giudici tributari a
concedere la sospensiva, anche tramite decreto (art. 47,
comma 3, D.Lgs. n. 546/1992) e ciò è importante
soprattutto in previsione dell’assurda ed
incostituzionale normativa dell’accertamento esecutivo,
che entrerà in vigore il prossimo 01 ottobre 2011 (vedi
lett. i).
Infine, non bisogna dimenticare
che, secondo la Corte di Cassazione, Sez. Trib., con la
sentenza n. 1666/11 del 29 luglio 2011, il ruolo è
ricompreso nella categoria degli atti pubblici (art.
2699 codice civile) in quanto formato da un pubblico
ufficiale (dirigente ufficio tributi), autorizzato a
manifestare all’esterno la volontà della pubblica
amministrazione.
Per questa ragione, secondo i
giudici di legittimità, stante la natura di atto
pubblico del ruolo, i suoi contenuti fanno piena prova
sino a che non sia avanzata una formale azione
giudiziale di querela di falso (artt. 221-227 c.p.c.).
M) LITI CON RECLAMO DAL 1° APRILE
2012
Per impugnare gli avvisi di
accertamento di valore non superiore a 20.000 euro,
notificati a partire dall’01 aprile 2012, dovrà
obbligatoriamente essere prima proposto reclamo
all’Agenzia delle entrate.
Infatti, il nuovo art. 17-bis
D.Lgs. n. 546 del 31-12-1992 (aggiunto dall’art. 39,
comma 9, D.L. n. 98 del 2011 cit.), stabilisce le
seguenti regole:
- per le controversie di valore non
superiore a 20.000 euro, relative agli atti emessi
dall’Agenzia delle entrate, chi intende proporre ricorso
è tenuto preliminarmente a presentare reclamo ed è
esclusa la conciliazione giudiziale di cui all’art. 48
D.Lgs. n. 546 cit.;
- la presentazione del reclamo è
condizione di ammissibilità del ricorso;
- l’inammissibilità è rilevabile
d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio;
- la normativa in questione non si
applica per le controversie relative al recupero di
aiuti di Stato (art. 47-bis D.Lgs. n.546 cit.);
- il reclamo va presentato alla
Direzione provinciale o alla Direzione regionale che ha
emanato l’atto, le quali provvedono attraverso apposite
strutture diverse ed autonome da quelle che curano
l’istruttoria degli atti reclamabili;
- il reclamo può contenere una
motivata proposta di mediazione, completa della
rideterminazione dell’ammontare della pretesa;
- l’organo destinatario, se non
intende accogliere il reclamo volto all’annullamento
totale o parziale dell’atto, né l’eventuale proposta di
mediazione, formula d’ufficio una proposta di
mediazione;
- decorsi 90 giorni senza che sia
stato notificato l’accoglimento del reclamo o senza che
sia stata conclusa la mediazione il reclamo produce gli
effetti del ricorso;
- i termini di cui agli artt. 22 e
23 D.Lgs. n. 546 cit. decorrono dalla suddetta data; se
l’Agenzia delle entrate respinge il reclamo in data
antecedente, i predetti termini decorrono dal
ricevimento del diniego; in caso, inoltre, di
accoglimento parziale del reclamo, i predetti termini
decorrono dalla notificazione dell’atto di accoglimento
parziale;
- nelle suddette controversie, la
parte soccombente è condannata a rimborsare, in aggiunta
alle spese di giudizio, una somma pari al 50% delle
spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del
procedimento in questione;
- invece, fuori dei casi di
soccombenza reciproca, la Commissione tributaria può
compensare parzialmente o per intero le spese tra le
parti solo se ricorrono giusti motivi, esplicitamente
indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte
soccombente a disattendere la proposta di mediazione;
- infine, le suddette disposizioni
si applicano con riferimento agli atti suscettibili di
reclamo notificati a decorrere dal 1° aprile 2012.
La complessa e macchinosa normativa
di cui sopra tende a convincere il contribuente a
patteggiare a tutti i costi con il fisco, pena
l’instaurazione di un giudizio tributario costoso, con
il pagamento del contributo unificato, con limiti
istruttori e con il rischio di una pesante ulteriore
condanna alle spese.
Oltretutto, l’assurdo di tale
normativa è che il preventivo e necessario reclamo deve
essere presentato alla stessa Agenzia delle entrate che
ha emanato e notificato l’avviso di accertamento in
contestazione e che, in linea di massima, non avrà la
serenità di decidere con trasparenza ed imparzialità,
soprattutto in vista degli obiettivi di cassa imposti.
Inoltre, l’istituto in questione,
così com’è congegnato, pregiudica seriamente la linea
difensiva del contribuente.
Infatti, la proposta di mediazione
formulata all’interno del reclamo potrebbe influenzare
negativamente il successivo convincimento del giudice
tributario sulla bontà delle argomentazioni difensive
svolte dal contribuente in altra parte del reclamo.
Anche in questo caso siamo di
fronte ad elementi di incertezza e di novità che
dovranno, quanto meno, essere sviluppati ed approfonditi
prima della loro definitiva entrata in vigore per gli
atti notificati a partire dall’01 aprile 2012.
Secondo me, la norma in questione
deve essere totalmente abrogata, lasciando soltanto a
giudici tributari, professionali e competenti,
l’eventuale possibilità di decidere sulla conciliazione.
In ogni caso, de iure condendo, il
contribuente non deve più avere limiti difensivi, in
modo che possa decidere con serenità, insieme al
professionista di fiducia, se intentare o meno il
giudizio tributario.
Infine, deve essere prevista la
possibilità di poter conciliare anche in grado di
appello, logicamente riparametrando le attuali sanzioni,
come oggi è previsto nel processo civile ed in quello
penale.
Di conseguenza, tutte le
problematiche tornano al principale punto di partenza,
che è quello di una necessaria, urgente, seria e
completa riforma del processo tributario, dove tutte le
parti (pubbliche e private) devono stare sullo stesso
piano processuale e senza limitazioni nell’esercizio del
diritto di difesa, costituzionalmente garantito.
N) ABUSO DEL DIRITTO
Ultimamente, la Corte di Cassazione
è tornata ad occuparsi del problema dell’abuso del
diritto, ossia del carattere elusivo che può assumere
un’operazione posta in essere dal contribuente con il
solo fine di evadere la normativa ed ottenere un
indebito risparmio d’imposta.
Infatti, con la sentenza n. 16428,
depositata il 27 luglio 2011, i giudici di legittimità
hanno ribadito il principio secondo cui grava
sull’Amministrazione finanziaria l’onere di chiarire il
perché l’operazione abbia carattere elusivo, in quanto
non è sufficiente richiamare esclusivamente la normativa
antiabuso esistente nell’ordinamento.
Nell’arco di tempo di un mese, a
cavallo tra il 2010 ed il 2011, sia la Corte di
Giustizia Europea che la Corte di Cassazione,
rispettivamente nelle sentenze C-277/09 E n. 1372 del 21
gennaio 2011, riportano l’abuso del diritto nella sua
connotazione specifica: occorre, cioè, che sia stata
posta in essere una costruzione di puro artificio.
Il caso inglese, trattato a
Lussemburgo, ha dato ragione al contribuente, perché il
giudizio di rinvio non aveva accertato la natura
artificiosa dell’operazione, anche se l’utilizzo di una
controllata in un altro Paese Comunitario aveva
consentito di non pagare l’IVA in nessuno dei due Paesi.
Il caso italiano è significativo
per le affermazioni sul diritto del contribuente ad
utilizzare la struttura giuridica con un minor costo
fiscale, con la conseguente insindacabilità di queste
scelte da parte dell’Amministrazione finanziaria, e
sulla necessità di valutare con una diversa attenzione
le operazioni di ristrutturazione societaria rispetto a
quelle di tipo puramente finanziario, oggetto delle
prime sentenze su questo specifico argomento (si rinvia
per un’analisi completa all’interessante articolo di
Raffaele Rizzardi, in Corriere Tributario IPSOA n.
9/2011, pagg. 663-672).
E’ da accogliere con soddisfazione
l’importante svolta della Corte di Cassazione e della
Corte di Giustizia UE, soprattutto perché, nel corso
degli anni, altre rigide interpretazioni
giurisprudenziali avevano penalizzato i contribuenti per
le loro iniziative produttive, anche perché in fase
istruttoria i limiti difensivi, imposti dalla legge e
più volte criticati nel presente scritto, non
consentivano un’efficace difesa.
D’ora in poi l’Amministrazione
finanziaria deve sempre evidenziare e motivare le
ragioni del carattere elusivo di un’operazione
imprenditoriale priva di valide ragioni economiche.
L’abuso del diritto non avrà in
futuro una casistica ma una vera norma con un principio
generale, come riferito al questione time della
Commissione Finanze della Camera dal sottosegretario
all’Economia Bruno Cesario, il quale ha rilevato che
sarebbe certamente auspicabile una previsione normativa
volta a coordinare l’attuale norma antielusiva con il
principio dell’abuso del diritto, richiamato dalla
giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Si conferma così, in via ufficiale,
la scelta, già espressa dall’Agenzia delle entrate, di
prevedere una norma antielusiva di carattere generale
(vedi il Sole 24-Ore del 13 e del 27 ottobre 2011).
Vi sono due esigenze in conflitto
la lotta all’elusione e l’interesse dei privati alla
certezza del diritto.
La scrittura di una norma generale
è problema non facile: si richiede grande realismo e
finezza giuridica con l’occhio rivolto a quanto accade
in sede comunitaria.
O) FATTURE FALSE E DEDUCIBILITA’
DEI COSTI
La Corte di Cassazione, con
l’importante sentenza n. 9537 del 29 aprile 2011, ha
stabilito il principio che, in tema di imposte sui
redditi, i costi documentati da fatture soggettivamente
inesistenti, purchè supportati a fronte di operazioni
effettive e reali, sono deducibili dal reddito
d’impresa.
Infatti, con l’abrogazione
dell’art. 75, comma 6, del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre
1986 ad opera dell’art. 5 del D.P.R. n. 695 del 09
dicembre 1996, si è avuto un sensibile ampliamento
(Cass., Trib., sentenza n. 3305 dell’11 febbraio 2009)
del regime di prova dei costi da parte del contribuente,
prova che può essere fornita anche con i mezzi diversi
dalle scritture contabili, purchè costituenti elementi
certi e precisi, come prescritto dall’art. 75, comma 4,
del D.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986.
In sostanza, il contribuente, oggi,
con il nuovo indirizzo giurisprudenziale, può dimostrare
l’effettiva sussistenza nonché l’ammontare e l’inerenza
di quegli specifici costi.
Il problema, però, rimane sempre
quello dei limiti difensivi, in quanto il contribuente,
in assenza di idonea documentazione, avrà difficoltà a
dimostrare nel processo i suddetti costi effettivi, in
quanto non può utilizzare la testimonianza né il
giuramento decisorio o suppletorio.
Infine, si precisa che la Corte di
Cassazione, con la sentenza n. 9537 del 16 febbraio
2011, ha avuto modo di ritornare sulla “vexata quaestio”
della deducibilità o meno ai fini delle imposte sui
redditi dei costi derivanti da operazioni considerate
soggettivamente inesistenti, riaffermando l’importante
principio di diritto per cui, nel comparto
dell’imposizione diretta, a differenza di quello
dell’IVA, i costi documentati da fatture soggettivamente
inesistenti, purchè sopportati a fronte di operazioni
effettive e reali, sono deducibili dal reddito
d’impresa.
P) RISCOSSIONE - RUOLI - RIMBORSI -
PRIVILEGI
1) In fase di riscossione, con le
recenti manovre economiche estive, si è messo uno stop
alla mora sugli interessi.
Infatti, ai sensi dell’art. 7,
commi 2-sexies e 2-septies, del D.L. n. 70/2011 cit.,
gli interessi di mora non si applicano più sulle somme
corrispondenti alle sanzioni pecuniarie tributarie ed
agli interessi (divieto del c.d. anatocismo).
2) Al tempo stesso, però, il
legislatore ha reso le rate iniziali di pagamento
particolarmente preziose.
A renderle tali è il nuovo
meccanismo che porta il fisco a rinunciare alle
fideiussioni per le dilazioni dei debiti superiori a
50.000 euro ma in tutti i casi, a prescindere
dall’ammontare della richiesta al contribuente,
introduce una garanzia decisamente pesante: la sanzione
pari al 60% del debito residuo per chi non paga una rata
(successiva alla prima) entro il termine di scadenza di
quella successiva.
3) Oltre un milione e ottocentomila
istanze, per un controvalore di 2 miliardi di euro, cui
si devono aggiungere circa 260 milioni di interessi.
A tanto ammonta lo stock totale dei
rimborsi delle imposte dirette alla fine del 2010
(Italia Oggi di mercoledì 03 agosto 2011).
Gran parte delle pendenze risulta
fisiologicamente concentrata nel biennio più recente
(2007-2008), mentre le pratiche ancora da lavorare,
risalenti a prima del 2005, sono poche migliaia.
Il problema, secondo me, si
potrebbe risolvere rendendo immediatamente esecutive le
sentenze di condanna del fisco in tema di rimborsi,
senza dover attendere, come oggi, il passaggio in
giudicato della sentenza (art. 69 D.Lgs. n. 546 cit.)
per iniziare, poi, il giudizio di ottemperanza (art. 70
D.Lgs. n. 546 cit.).
In prospettiva di una completa
riforma del processo tributario, infatti, tutte le parti
(pubbliche e private) devono trovarsi sullo stesso piano
processuale, senza alcuna posizione di privilegio, come
oggi ha il fisco.
Infatti, mentre l’Amministrazione
finanziaria, in caso di vittoria totale o parziale, ha
la possibilità di riscuotere provvisoriamente gran parte
delle somme in contestazione (art. 68 D.Lgs. n. 546
cit.), il contribuente, invece, per essere
tempestivamente rimborsato dei suoi crediti deve
attendere la fine di tutti i gradi di giudizio (fino in
Cassazione) per ottenere il passaggio in giudicato della
sentenza, a meno che non si tratti di maggiori somme
versate a titolo provvisorio a seguito della notifica di
avvisi di accertamento, per le quali è applicabile la
più celere procedura dell’art. 68, comma 2, D.L.gs n.
546 cit. (Circolare n. 49/E dell’01 ottobre 2010 e n.
37/E del 21 giugno 2010 dell’Agenzia delle entrate -
Direzione centrale affari legali e contenzioso).
Solo l’effettiva parità processuale
delle parti rende veramente operativo il dettato
costituzionale dell’art. 111:
‘’La giurisdizione si attua
mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel
contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità,
davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne
assicura la ragionevole durata’’.
4) Inoltre, si segnala la recente
ordinanza n. 1M/52/11 del 6-21 luglio 2011 della
Commissione Tributaria Regionale di Napoli che ha
accolto l’istanza di sospensione dell’esecuzione della
sentenza di secondo grado impugnata dal contribuente
dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione, ma ha
subordinato la suddetta sospensione alla produzione da
parte del contribuente di una garanzia fideiussoria
assicurativa o bancaria.
Ciò, però, non risolve i problemi
del contribuente, che può avere difficoltà ad ottenere
la fideiussione, con il rischio del fallimento e del
licenziamento dei dipendenti.
Appunto per questo è necessario
modificare l’attuale normativa, non prevedendo alcuna
forma di garanzia fino alla definizione totale della
controversia.
5) Infine, l’ampliamento dei
privilegi fiscali oltre ogni limite (anche temporale) e
la retroattività delle norme hanno stravolto i rapporti
esistenti tra fisco e privati, soprattutto nelle
procedure in corso di votazione, permettendo
all’Amministrazione Finanziaria di far valere in sede di
ripartizione delle finanze un maggior credito, tutto di
natura privilegiata, e di conseguenza di avere un
diverso e maggior peso nella composizione concordataria,
sia giudiziale che stragiudiziale, del credito rispetto
agli altri creditori.
6) La Corte Costituzionale, con la
sentenza n. 281 del 28 ottobre 2011, ha dichiarato
incostituzionale l’art. 85 D.P.R. n. 602/73 nella parte
in cui prevede che, se il terzo incanto ha esito
negativo, l’assegnazione dell’immobile allo Stato ha
luogo per il minor valore tra il prezzo base del terzo
incanto e la somma per la quale si procede, anziché per
lo stesso prezzo base.
In sostanza, la Consulta indica
come criterio (minimale, fino all’intervento del
legislatore) quello di prendere a base il prezzo del
terzo incanto, che è il più congruo rispetto al valore
dell’immobile pignorato.
Q) RIMESSIONE IN TERMINI
1) La legge n. 69/2009, modificando
in parte il codice di procedura civile, ha abrogato
l’art. 184-bis c.p.c. ed ha spostato il contenuto
nell’art. 153, comma 2, c.p.c., che così recita:
‘’la parte che dimostra di essere
incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile
può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il
giudice provvede a norma dell’articolo 294, secondo e
terzo comma’’.
Al suddetto istituto giuridico deve
ora essere riconosciuta una valenza di carattere
generale e deve, di conseguenza, ritenersi applicabile
anche ad attività esterne al processo.
Data questa nuova valenza generale,
la rimessione in termini può di sicuro ritenersi
applicabile anche al ricorrente che abbia
incolpevolmente fatto decorrere il termine di
impugnazione del provvedimento impositivo.
2) Prima della suddetta riforma
processuale, la Corte di Cassazione, Sez. Trib., con la
sentenza n. 14482 del 29 settembre 2003, aveva precisato
che:
‘’Come appare evidente dalla sua
stessa collocazione (libro secondo, titolo I, capo II,
sezione II della trattazione della causa), la norma
riguarda le sole ipotesi in cui le parti costituite
siano decadute dal potere di compiere determinate
attività difensive nell’ambito della causa in corso di
trattazione.
Essa, quindi, pur rendendo di
applicazione generale l’istituto della rimessione in
termini (operante, quindi, dopo la soppressione del
riferimento alle decadenze previste negli articoli 183 e
184, contenuto nel testo originario, anche per le
decadenze stabilite nei confronti del convenuto dagli
artt. 167, secondo comma, e 171, secondo comma), non è
invocabile per le situazioni esterne allo svolgimento
del giudizio.
Per queste vige tuttora la regola
della improrogabilità dei termini perentori (art. 153
c.p.c.), che impedisce di utilizzare l’istituto in
discorso anche per le decadenze relative al compimento
del termine perentorio per instaurare il giudizio (cfr.,
ex plurimis, Cass. nn. 10094/1997, 8999/1999, 5778/2000,
9178/2000, 15491/2000, 2875/2002, 11136/2002,
11218/2002, 1285/2003), quale quello non rispettato
dalla contribuente che ha chiesto di essere rimessa in
corsa’’.
I suddetti principi, inoltre, erano
stati ribaditi dalla Corte di Cassazione con le seguenti
sentenze:
- N. 7814/03 del 19 maggio 2003;
- N. 4973/98 del 19 maggio 1998;
- N. 12935 del 2000;
- N. 6954 del 1999;
- N. 5197 del 1998.
In definitiva, la Corte di
Cassazione, prima delle modifiche, riteneva
costantemente che l’istituto della rimessione in termini
atteneva ad eventuali nullità di ordine endoprocessuale,
e cioè determinatesi nel corso del processo, in cui le
parti fossero incorse per cause ad esse non imputabili,
e non certo ad invalidità che investono il rituale
instaurarsi del rapporto processuale.
3) Con il nuovo art. 153, comma 2,
c.p.c. cit. lo scenario processuale oggi cambia a favore
del ricorrente, che può utilizzare l’istituto anche se,
senza colpa, ha fatto decorrere il termine perentorio di
impugnazione del provvedimento impositivo (per esempio,
avviso di accertamento, avviso di rettifica, avviso di
sanzioni, cartella esattoriale, ecc.).
Ciò comporta che d’ora in poi sarà
affidato al giudice tributario di trovare, di volta in
volta, e nel caso concreto al suo esame, il giusto
equilibrio tra l’effettività del diritto di difesa della
parte che invoca la rimessione in termini e
l’improrogabilità dei termini perentori su cui, invece,
fa esclusivo riferimento l’ufficio fiscale ( c.d. auto
responsabilità da decadenza in senso oggettivo ovvero
per colpa).
Ultimamente, sull’applicabilità
della rimessione in termini nel processo tributario si è
pronunciata la Commissione Tributaria Provinciale di
Lecce, con l’ordinanza n. 377/2011 (in ‘’Il Sole 24
Ore’’ di lunedì 01 agosto 2011), a seguito della
decadenza imputabile solo al difensore e non al
contribuente.
Il nuovo istituto, però, potrebbe
non avere pratica applicazione nel processo tributario
perché il contribuente, con i limiti istruttori imposti
per legge (divieto di testimonianza e giuramento)
rischia di non poter dimostrare, in mancanza di
documenti ufficiali, che non ha potuto impugnare per
tempo l’atto fiscale per cause a lui non imputabili.
R) PROBLEMI DELLA GIURISDIZIONE
Oggi, anche se può sembrare strano,
il maggior problema processuale che incontra il
contribuente è quello di individuare ed adire il giudice
competente, che dovrà decidere la sua causa in tempi
ragionevoli.
Infatti, con una normativa
tributaria alquanto complessa e poco chiara, senza
l’indicazione dei principi, e con l’aggravante delle
problematiche connesse alla finanza locale, anche a
seguito del federalismo fiscale, la giurisprudenza della
Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, è spesso
intervenuta per dirimere le controversie in tema di
giurisdizione (art. 41 c.p.c.).
Segnaliamo, a titolo puramente
indicativo, alcune questioni risolte dalle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione.
- Spettano alla giurisdizione del
giudice ordinario le controversie aventi oggetto la
debenza di contributi previdenziali (sent. n. 15168 del
23 giugno 2010).
- Rientrano nella giurisdizione
delle Commissioni Tributarie, e non in quella dei
giudici amministrativi, le cause contro i provvedimenti
di rigetto delle istanze di rateizzazione (ord. n. 15647
dell’01 luglio 2010).
- Appartiene alla giurisdizione
delle Commissioni Tributarie la domanda proposta nei
confronti dell’Amministrazione finanziaria per la
restituzione di somme indebitamente versate a titolo di
IVA (sent. n. 16281 del 12 luglio 2010).
- Ai fini del riparto della
giurisdizione tra giudice ordinario e giudice
amministrativo in tema di contributi a favore dei
Consorzi di bonifica spetta al giudice amministrativo,
ricollegandosi a posizioni di interesse legittimo, la
domanda diretta a denunciare lo scorretto esercizio del
potere impositivo del Consorzio, mentre è devoluta alla
cognizione del giudice ordinario la domanda con cui si
contesti l’esistenza di tale potere, in quanto la
domanda è diretta a tutelare il diritto soggettivo dello
stesso a non essere obbligato a prestazioni patrimoniali
fuori dai casi previsti dalla legge (sent. n. 18327 del
06 agosto 2010).
- Spettano alla giurisdizione del
giudice ordinario le controversie attinenti ad una
contestata debenza dei canoni chiesti dal Comune a
titolo di COSAP, aventi ad oggetto l’accertamento
dell’esistenza del credito azionato dall’ente locale
(ord. n. 22628 del 08 novembre 2010).
- Rientrano nella giurisdizione del
giudice ordinario e non del giudice tributario le
controversie relative all’opposizione all’ordinanza
ingiunzione emessa dall’Amministrazione autonoma dei
Monopoli di Stato (AAMS), in tema di videogiochi (sent.
n. 23107 del 16 novembre 2010).
- Rientrano nella giurisdizione del
giudice tributario le controversie relative alla
restituzione dell’indebito pagamento di somme a titolo
di TIA, in forza della natura tributaria riconosciuta
alla TIA dalla sentenza della Corte Costituzionale (ord.
n. 23291 del 18 novembre 2010); in senso contrario,
invece, si è pronunciata la Corte di Cassazione, Sezioni
Unite, con la sentenza n. 2064 del 28 gennaio 2011, con
cui è stata riconosciuta appartenere alla giurisdizione
ordinaria la controversia avente ad oggetto la
restituzione dell’IVA corrisposta all’atto del pagamento
della TIA.
- Nei giudizi instaurati prima
dell’entrata in vigore della Legge n. 69/2009 cit.
(modifiche al c.p.c.), può essere chiesto d’ufficio il
regolamento di giurisdizione, a norma dell’art. 59,
comma 3, della suddetta legge (ord. n. 24686 del 06
dicembre 2010).
- Appartengono alla giurisdizione
tributaria le controversie aventi ad oggetto la debenza,
nei confronti della SIAE, delle somme prescritte, ai
sensi dell’art. 181-bis della legge n. 633/1941, per
l’apposizione sui supporti multimediali del previsto
contrassegno (ord. n. 1780 del 26 gennaio 2011).
- Il giudice tributario non può
dichiarare il difetto di giurisdizione in seguito alla
contestazione degli atti della riscossione con i quali
il concessionario recupera anche entrate non tributarie;
in sostanza, la giurisdizione permane anche se la
competenza sugli atti è parziale (sentenza n. 16858 del
02 agosto 2011).
E l’elenco potrebbe continuare a
lungo.
A questo punto, è auspicabile che,
in vista della prossima riforma fiscale da tutti
auspicata, sia riformato totalmente il processo
tributario con un’elencazione chiara e definitiva di
tutte le controversie di competenza dei giudici
tributari, senza generiche petizioni di principio, in
modo da non disorientare il contribuente ed il
professionista che lo assiste.
Oggi, infatti, è vero che l’art. 2,
comma 1, D.Lgs. n. 546 cit. stabilisce che appartengono
alla giurisdizione tributaria tutte le controversie
aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie
comunque denominati.
Ma è altresì vero che la Corte
Costituzionale ha più volte precisato che per
qualificare come tributarie le entrate erariali si
devono seguire i seguenti criteri, indipendemente dal
nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina
tali entrate:
- doverosità della prestazione;
- collegamento di questa alla
pubblica spesa;
- con riferimento ad un presupposto
economicamente rilevante.
In tal senso, si citano le seguenti
sentenze della Corte Costituzionale:
- N. 334 del 2006;
- N. 73 del 2005;
- N. 64 del 2008;
- N. 335 del 2008.
Questi principi, però, validi sul
piano teorico, possono essere di difficile applicabilità
sul piano pratico, tanto è vero che alcune volte la
stessa Corte di Cassazione ha dovuto rivedere
criticamente una sua precedente interpretazione.
Per esempio, con le sentenze nn.
15031 e 15032 del 2009, i giudici di legittimità hanno
cambiato indirizzo in tema di controversie fra sostituto
e sostituito, stabilendo che sono di competenza del
giudice ordinario e non del giudice tributario,
trattandosi di diritto esercitato dal sostituto verso il
sostituito nell’ambito di un rapporto di tipo
privatistico, cui resta estraneo l’esercizio del potere
impositivo sussumibile nello schema potestà –
soggezione, proprio del rapporto tributario.
Ecco perché è importante che
intervenga una legge che stabilisca in modo chiaro ed
analitico l’oggetto della giurisdizione tributaria per
dare certezze ai contribuenti, ai professionisti, agli
uffici ed ai giudici tributari.
Infine, nella materia tributaria,
bisogna prevedere un unico processo dove discutere e
decidere le questioni fiscali, quelle penali (senza più
il c.d. ‘’doppio binario’’) e persino quelle civili, in
tema, per esempio, di risarcimento danni per atti o
comportamenti illeciti da parte dell’Amministrazione
finanziaria, senza che il contribuente debba impazzire
nell’individuazione del giudice competente e nell’attesa
della definizione dei vari processi intentati o da
intentare per tutelare e far valere i propri diritti ed
interessi, soprattutto con le ultime modifiche
penali-tributarie fatte con il D.L. n. 138/2011 cit..
S) AUTOTUTELA
1) Il potere di autotutela
dell’ufficio fiscale è disciplinato dall’art. 2-quater
del D.L. n. 564/1994, convertito dalla Legge n. 656 del
1994 e dal Decreto Ministeriale n. 37/1997 e consiste
nella possibilità da parte dell’Amministrazione di
annullare in modo totale o parziale un atto, o
rinunciare ad una pretesa, quando l’atto si manifesti
come illegittimo o non conforme alla legge che lo
regola, anche senza istanza di parte, e pure in pendenza
di giudizio od in caso di non impugnabilità del
provvedimento tributario, con il solo limite di una
sentenza di merito (non di diritto) passata in
giudicato.
In definitiva, si può sostenere che
l’autotutela tributaria è espressione di un
potere-dovere di ripristino della legalità violata,
incidente sul diritto del contribuente, e pertanto,
anche ai sensi dell’art. 7 della Legge n. 212/2000 cit.
(Statuto dei diritti del contribuente), grava sulla
Amministrazione finanziaria l’obbligo di dare corso alla
relativa istanza fornendo motivata risposta.
L’autotutela non è espressamente
prevista tra gli atti impugnabili dall’art. 19 D.Lgs. n.
546 cit. e questo vuoto normativo, gravemente lesivo dei
diritti di difesa del contribuente, ha dato luogo a
contrasti giurisprudenziali che soltanto ultimamente la
Corte di Cassazione ha cercato di dirimere, anche se in
modo non sufficientemente esaustivo.
2) In un primo momento, la Corte di
Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 9669/09
del 23 aprile 2009, aveva precisato che:
‘’Nella già citata sentenza n. 7388
del 2007 si chiarisce, infatti, che l’esercizio del
potere di autotutela ‘’non costituisce un mezzo di
tutela del contribuente’’ e che ‘’nel giudizio
instaurato contro il mero, ed esplicito, rifiuto di
esercizio dell’autotutela può esercitarsi un sindacato,
nelle forme ammesse sugli atti discrezionali, soltanto
sulla legittimità del rifiuto, e non sulla fondatezza
della pretesa tributaria’’.
3) Ultimamente, però, la Corte di
Cassazione, Sez. Trib., con l’importante sentenza n.
26313 del 29 dicembre 2010, ha precisato che:
- l’esercizio del potere di
autotutela ha natura eminentemente discrezionale ed
esercitabile esclusivamente nel perseguimento di soli
interessi pubblici;
- di conseguenza, il contribuente
non ha un diritto perfetto ma un interesse legittimo,
che potrà trovare tutela nell’ambito della giurisdizione
tributaria, e non amministrativa, per effetto della
riserva di legge;
- l’autotutela è sottoposta ai
limiti di sindacabilità degli atti discrezionali, ovvero
nell’ambito della legittimità dell’operato
dell’Amministrazione (anche in caso di inerzia) e non
del merito, non essendo ammissibile la sostituzione del
giudice tributario alla Amministrazione nella adozione
di un atto di autotutela;
- in definitiva, ne consegue che il
sindacato del mero rifiuto dell’esercizio di autotutela
deve limitarsi all’esame della legittimità della
condotta amministrativa, e non può estendersi al merito,
ovvero a valutare la fondatezza della pretesa tributaria
del contribuente.
Dagli enunciati principi, dunque, i
giudici di legittimità, con la citata sentenza n.
26313/2010, fanno discendere che:
a) l’esercizio del sindacato sulla
attività di autotutela costituisce procedimento autonomo
e ben distinto dal procedimento di impugnazione di un
atto impositivo, con cui non interferisce;
b) in ogni caso, non costituisce un
mezzo di tutela del contribuente, sostitutivo dei rimedi
giurisdizionali che non siano stati esperiti.
4) Nonostante la parziale apertura
della Corte di Cassazione, la difesa del contribuente in
tema di autotutela non è piena ed efficace, per cui è
necessario, nella generale ed organica riforma del
processo tributario, inserire l’autotutela espressamente
tra gli atti impugnabili, anche come silenzio-rifiuto, e
con possibilità di entrare nel merito, senza alcuna
limitazione istruttoria al contribuente, che può
chiedere anche la rimessione in termini, se sussistono
le condizioni (vedi lett. ‘’Q’’).
Infine, non bisogna dimenticare il
principio che il fisco è tenuto al risarcimento dei
danni se non applica correttamente l’autotutela
(Cassazione, Sez. III civile, sentenza n. 5120 del 03
marzo 2011).
5) L’Agenzia delle entrate, con la
circolare n. 22/E del 26 maggio 2011, ha precisato che
gli uffici devono annullare in autotutela tutti gli
accertamenti sbagliati.
T) LE COMMISSIONI TRIBUTARIE NON
DEVONO ESSERE PARALIZZATE
Le Commissioni tributarie non
devono fare cassa ma risolvere con competenza,
equilibrio e serenità, senza pregiudizi, le controversie
che insorgono tra il fisco ed i contribuenti, non solo
nel rispetto delle norme ma anche sulla corretta
interpretazione giuridica delle stesse.
Il concetto di cui sopra è logico e
naturale, in quanto un organo giurisdizionale (e tali
sono le Commissioni tributarie) non solo deve essere, ma
anche ‘’apparire’’, terzo ed imparziale nella
definizione delle controversie tributarie e non ci deve
essere alcun sospetto che le sentenze debbano tendere a
fare cassa, nell’unico interesse del fisco, che è una
delle parti in causa.
Eppure, questi elementari e chiari
concetti, oggi, sono stati totalmente messi in
discussione con la recente manovra economica che, tra le
varie disposizioni, vuole riordinare (peraltro
parzialmente) la giustizia tributaria.
La suddetta riforma mette
seriamente in pericolo i principi di autonomia ed
indipendenza della Magistratura tributaria e ne travolge
l’attuale assetto in modo irrazionale ed
incostituzionale.
In definitiva, la suddetta manovra
vuole rafforzare le cause di incompatibilità dei giudici
tributari nonché incrementare notevolmente la presenza
nelle Commissioni tributarie regionali di giudici
selezionati tra i magistrati ordinari, amministrativi,
militari e contabili ovvero tra gli Avvocati dello Stato
a riposo (art. 39 D.L. n. 98 cit.).
Di conseguenza, il legislatore, al
fine di assicurare una maggiore efficienza del sistema
della giustizia tributaria, garantendo altresì
imparzialità (!) e terzietà (!) del corpo giudicante, ha
disposto che rientrano tra le cause assolute di
incompatibilità ai sensi dell’art. 8 D.Lgs n. 545 del 31
dicembre 1992:
1) le iscrizioni in albi
professionali, elenchi e ruoli indicati nell’art. 12 del
D.Lgs n. 546 del 31 dicembre 1992, nonché il personale
dipendente di cui al succitato art. 12; ciò
indipendentemente dalla preventiva indagine
sull’attività esercitata in materia fiscale (con
possibili future eccezioni di incostituzionalità per
irragionevolezza della norma, ai sensi dell’art. 3 della
Costituzione);
2) l’esercizio in qualsiasi forma,
anche se in modo saltuario o accessorio ad altra
prestazione, della consulenza tributaria, della tenuta
delle scritture contabili e della redazione dei bilanci,
nonché l’attività di consulenza, assistenza o di
rappresentanza, a qualsiasi titolo e anche nelle
controversie di carattere tributario, di contribuenti
singoli o associazioni di contribuenti, di società di
riscossione dei tributi o di altri enti impositori;
3) i rapporti di coniugio, di
convivenza (con quali prove?), di parentela fino al
terzo grado o di affinità in primo grado di coloro che
sono iscritti in albi professionali (vedi n. 1) ed
esercitano le attività individuate al n. 2 nelle Regioni
dove hanno sede le Commissioni tributarie provinciali
(per i giudici di primo grado) e le Commissioni
tributarie regionali (per i giudici di appello).
I giudici tributari che alla data
del 06-07-2011 versano nelle condizioni di
incompatibilità devono comunicare la cessazione delle
cause di incompatibilità entro il 31 dicembre 2011 al
Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria,
nonché alla Direzione della giustizia tributaria del
Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e
delle finanze.
In caso di mancata rimozione nel
termine predetto delle cause di incompatibilità, i
giudici tributari decadono automaticamente, con paralisi
assoluta delle Commissioni tributarie.
Infine, per completare il riordino
(parziale) della giustizia tributaria, il legislatore ha
previsto:
a) un concorso per 960 posti presso
le Commissioni tributarie, riservato, però, ai soli
magistrati ordinari, amministrativi, militari e
contabili, in servizio o a riposo, ed agli avvocati e
procuratori dello Stato a riposo; tutti i suddetti
soggetti, però, non devono prestare già servizio presso
le predette Commissioni tributarie;
b) i compensi corrisposti ai membri
delle Commissioni tributarie entro il periodo d’imposta
successivo a quello di riferimento si intendono
concorrere alla formazione del reddito imponibile, ai
sensi dell’art. 11 del T.U. II.DD. (DPR n. 917 del 22
dicembre 1986), e non saranno più tassati separatamente.
A questo punto, l’opera di
smantellamento e paralisi delle Commissioni tributarie è
stato completato, così come di seguito esposto.
A) Tutti i professionisti iscritti
agli Albi vengono categoricamente esclusi, con grave
perdita delle professionalità giuridiche ed economiche
necessarie per decidere, con equilibrio e competenza,
delicate e complesse questioni fiscali (con possibili
vizi di incostituzionalità già segnalati).
B) Rischiano tutti gli altri
componenti che hanno coniugi, conviventi, affini e
parenti nella Regione (o Province e Regioni confinanti).
C) I compensi, già miseri (euro 25
a sentenza depositata), si riducono ulteriormente,
perché non più assoggettati a tassazione separata; il
compenso medio mensile dei giudici delle CTP è pari a
655 euro; molto inferiore l’importo medio mensile
percepito nelle CTR, pari a 284 euro.
D) Entrano a far parte delle
Commissioni tributarie gli avvocati dello Stato a
riposo, oltre ai magistrati contabili; in questo caso,
invece, il legislatore ignora i conflitti di interesse,
in quanto agli avvocati dello Stato, in particolare, è
affidata la difesa dell’Agenzia delle entrate.
E) Continuano a far parte delle
Commissioni tributarie i magistrati militari che, di
certo, non hanno una competenza professionale in campo
fiscale superiore a quella degli avvocati e dei dottori
commercialisti che, invece, il legislatore ha voluto
espellere senza alcuna motivata giustificazione.
F) Possono far parte delle
Commissioni tributarie gli ispettori tributari di cui
alla Legge n. 146 del 24 aprile 1980 (ciò a seguito
dell’abrogazione della lettera f) dell’art. 8 D.Lgs. n.
546 cit.); per assurdo, quindi, i super-ispettori del
fisco possono diventare giudici tributari, ignorando il
legislatore totalmente i criteri di terzietà ed
imparzialità.
Infatti, gli ispettori tributari
sono alle dirette dipendenze del Ministero dell’economia
e delle finanze (art. 9 L. n. 146 cit.) e potevano
persino eseguire, in via straordinaria, verifiche
fiscali (art. 9, c. 1, lettere b) e c), cit.); in questo
caso, anche l’apparenza della terzietà ed imparzialità
va a farsi benedire.
In sostanza, la riserva di posti a
favore di soggetti incardinati nell’Amministrazione,
come gli avvocati dello Stato e gli ispettori del Fisco,
appanna l’immagine del giudice tributario anche solo
sotto il profilo dell’apparenza, in quanto rischia di
sembrare agli occhi dei contribuenti condizionato nelle
sue decisioni.
G) In definitiva, con le attuali
modifiche, potremmo avere collegi giudicanti composti da
(elencazione non esaustiva):
- Magistrati militari;
- Magistrati contabili;
- Avvocati dello Stato a riposo;
- Ispettori tributari;
- Casalinghe con la laurea in
giurisprudenza o in economia e commercio conseguita da
almeno due anni;
- Ufficiali della Guardia di
Finanza cessati dalla posizione di servizio permanente
effettivo prestato per almeno dieci anni;
- Pensionati;
- Imprenditori;
- Agenti di assicurazioni;
- Commercianti;
- Artigiani;
- Docenti scolastici;
- Magistrati onorari;
- Giudici di pace.
Bisogna tener conto che,
attualmente, la composizione delle C.T. è del 23,9% di
magistrati togati e del 76,1% di giudici non togati.
H) Infine, nelle Commissioni
tributarie regionali i posti da conferire saranno
attribuiti in modo da assicurare progressivamente la
presenza in tali Commissioni di due terzi dei giudici
selezionati tra i magistrati ordinari, amministrativi,
militari e contabili ovvero gli avvocati dello Stato a
riposo.
I) Di conseguenza, su un totale di
3.731 giudici tributari al 31-12-2010, circa 3.000
giudici sono a rischio di decadenza, con la possibilità
(se non certezza) di una totale paralisi della giustizia
tributaria per molti anni (anche perché i 960 posti a
concorso sono insufficienti a compensare le perdite).
Oltretutto, in base a quanto previsto dal Decreto
Ministeriale dell’11 aprile 2008, l’organico dei giudici
tributari dovrebbe essere pari a 4.668.
J) La paralisi delle Commissioni
tributarie coincide, peraltro, con l’entrata in vigore,
dall’01-10-2011, delle norme sugli accertamenti
esecutivi, dove la posizione del fisco è di fatto
prevalente rispetto alla posizione del contribuente,
stante le inevitabili difficoltà che esso incontrerà a
causa della impossibilità di vedere trattata l’istanza
di sospensione nel breve termine di 180 giorni previsto
dalla norma, a seguito della conversione in legge del
Decreto Sviluppo n. 70 del 13-05-2011 (vedi lett.
‘’I’’).
La giustizia civile è affidata in
gran parte a professionisti per i quali vige la sola
incompatibilità di tipo territoriale.
Non si vede perché per il giudice
tributario debbano valere regole diverse e più severe di
quelle di qualsiasi altra magistratura.
Con il rischio che in futuro la
giustizia tributaria sia amministrata da chi di
‘’professione’’ fa la casalinga, in quanto laureata in
giurisprudenza o in economia ha tutti i titoli per fare
il giudice tributario (art. 4, comma 1, lett.i), D.Lgs.
n. 545 cit.).
Oggi, invece, serve una
giurisdizione tributaria terza ed imparziale, che sappia
risolvere e rasserenare le situazioni fiscali più
complesse e spigolose, con competenza ed equilibrio.
Appunto per questo è da criticare e
contestare in toto l’attuale intervento legislativo,
peraltro adottato con la forma del decreto legge senza
che ci siano le condizioni di necessità ed urgenza (art.
77, comma 2, della Costituzione).
E’ auspicabile, invece, che il
legislatore, nell’ambito della generale riforma fiscale,
con legge delega riformi totalmente la giustizia
tributaria (non un semplice parziale ed ingiustificato
riordino) prevedendo i seguenti, necessari principi:
1) dipendenza dalla Presidenza del
Consiglio dei Ministri e non più dal Ministero
dell’economia e delle finanze, che è una delle parti in
causa;
2) parità assoluta tra le parti in
causa, senza limitazioni nella fase istruttoria, con la
possibilità di citare i testimoni e fare i giuramenti;
3) possibilità di chiedere le
sospensive e le conciliazioni anche in grado di appello
e di Cassazione;
4) di conseguenza, tenuto conto che
il processo tributario diventa un ‘’vero’’ processo
(come quello civile, penale ed amministrativo),
necessità di reclutare giudici tributari a tempo pieno,
con competenza qualificata, pagati dignitosamente anche
per le sospensive (dato che è previsto il pagamento di
un contributo unificato), e senza alcun collegamento
funzionale con il Ministero dell’economia e delle
finanze.
In definitiva, le suddette
disposizioni di riordino mettono seriamente a rischio i
principi di autonomia ed indipendenza della Giustizia
tributaria, che sono principi assoluti, non subordinati
alla materia su cui il giudice è chiamato a
pronunciarsi.
Oltretutto, i tempi sono maturi per
il definitivo riconoscimento costituzionale della
Magistratura tributaria, che opera esclusivamente
nell’interesse dello Stato e del cittadino contribuente.
In Germania, la giurisdizione
tributaria è costituzionalmente riconosciuta e garantita
alla stregua di quella civile, penale o amministrativa.
Per le questioni fiscali è prevista
la competenza di una sezione della magistratura
ordinaria con specifiche competenze professionali in
grado di garantire la tutela giurisdizionale in materia
fiscale.
In particolare, tentato senza buon
fine il rimedio amministrativo, il contribuente può
rivolgersi ai Tribunali tributari di primo e secondo
grado con l’eventuale ultimo grado affidato alla suprema
Bundesverfassungsgericht.
U) RIFORMA DELLA GIUSTIZIA E
RIFORMA DEL PROCESSO TRIBUTARIO
In questi mesi, si sta discutendo
molto della riforma della giustizia e della riforma
fiscale.
A tal proposito, è opportuno
segnalare la necessità di riformare totalmente il
processo tributario che, oggi gestito dal Ministero
dell’economia e delle finanze, cioè una delle parti in
causa, non consente una piena ed efficace tutela del
contribuente.
Nel progetto di riforma del
processo tributario, secondo me, è opportuno tenere
conto dei seguenti suggerimenti, che peraltro ho
individuato nel mio progetto di legge pubblicato sul mio
sito (www.studiotributariovillani.it):
- Gestione del processo tributario
da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri (o
del Ministero della Giustizia) e non più da parte del
Ministero dell’economia e delle finanze;
- Ammissibilità della prova
testimoniale e del giuramento;
- Termini perentori per la
costituzione degli uffici;
- Sospensione degli atti anche in
grado d’appello;
- Possibilità di conciliazione
giudiziale anche in grado d’appello;
- Competenza delle Commissioni
Tributarie anche per il risarcimento dei danni;
- Impugnazione dell’autotutela sia
espressa sia tacita;
- Selezione di giudici
professionalmente competenti e ben retribuiti, non come
oggi che non vengono pagati per le ordinanze di
sospensiva ed ai quali vengono corrisposte solo euro 25
a sentenza depositata, indipendentemente dal valore
della causa.
In definitiva, secondo me, la
riforma del processo tributario deve realizzare il
principio del giusto processo, previsto dall’art. 111
della Costituzione, in modo che il contribuente sia
posto sullo stesso piano processuale del fisco, senza
alcuna limitazione nell’esercizio della difesa.
Infine, nella materia tributaria,
bisogna prevedere un unico processo dove discutere e
decidere le questioni fiscali, quelle penali (senza più
il c.d. ‘’doppio binario’’) e persino quelle civili, in
tema, per esempio, di risarcimento danni, in modo che il
contribuente non debba impazzire nell’attesa della
definizione delle varie cause oggi previste (vedi lett.
‘’R’’).
V) CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Con questo scritto, anche se in
maniera non approfondita e non esaustiva, ho voluto
dimostrare le varie difficoltà processuali che il
contribuente ed il professionista che lo assiste
incontrano nel processo tributario.
E’ giusto combattere l’evasione
fiscale e rendere particolarmente incisive le azioni di
recupero e riscossione delle imposte e tasse evase; al
tempo stesso, però, bisogna consentire al contribuente
di potersi difendere nel migliore dei modi, senza
limitazioni o condizionamenti, anche perché la
Costituzione tutela il diritto di difesa (art. 24, comma
2, ‘’La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e
grado del processo’’), in un processo dove le parti
devono essere poste su un piano di perfetta parità
davanti ad un giudice ‘’terzo ed imparziale’’ (art. 111,
comma 2, cit.).
Con le ultime manovre economiche
estive, invece, il legislatore vuole costringere il
contribuente a pagare o patteggiare, rendendo
estremamente difficoltoso e costoso il ricorso alla
giustizia tributaria, peraltro, in futuro, gestita da
giudici non professionali, a tempo parziale, poco
remunerati e, cosa alquanto grave, gestiti (anche
economicamente) dal Ministero dell’economia e delle
finanze, che è una delle parti in causa.
Inoltre, alcuni giudici tributari
sono alle dirette dipendenze del Ministero dell’economia
e delle finanze (come i super-ispettori del fisco) o
hanno difeso l’Amministrazione finanziaria (come gli
avvocati dello Stato a riposo) o possono non avere
alcuna cognizione giuridica e tecnica delle complesse
problematiche fiscali (come, per esempio, le casalinghe
con la laurea in giurisprudenza o in economia e
commercio conseguita da almeno due anni !).
La giustizia tributaria è una cosa
seria, dove i contribuenti onesti rischiano il
fallimento se non sono messi nelle condizioni
processuali di potersi efficacemente difendere, senza
l’unica prospettiva di pagare o patteggiare a qualsiasi
condizione.
Uno Stato di diritto, come il
nostro, dalle sane tradizioni giuridiche non può più
permettere una situazione del genere con l’alibi di
dover far cassa a tutti i costi, penalizzando
soprattutto i contribuenti onesti, che hanno
scrupolosamente rispettato le leggi fiscali (spesso
incomprensibili, confusionarie e contraddittorie) e che
vogliono difendersi da cavillose e capziose
interpretazioni del fisco (pensiamo, per esempio, alle
controversie in tema di crediti d’imposta occupazione ed
investimenti) o vogliono contrastare assurdi
accertamenti basati su generiche e fumose presunzioni.
Oggi, il fisco ha tutti i mezzi
giuridici e processuali per fare verifiche, accertamenti
(studi di settore, redditometro, indagini bancarie, con
inversione dell’onere a carico del contribuente) nonché
ruoli e cartelle esattoriali (che sono atti pubblici ex
art. 2699 del codice civile), anche tutelati dai
privilegi.
Di conseguenza, il contribuente non
deve subire limitazioni o condizionamenti per
contrastare la potenza di fuoco del fisco, perché la
battaglia processuale, già impari, diventa persa in
partenza, con l’unica possibilità di pagare e
patteggiare, salvo, dopo, fallire o chiudere le attività
e licenziare.
Ecco perché è importante, in vista
della generale riforma fiscale, riscrivere il processo
tributario ma in modo serio e completo, non come è stato
fatto sino ad oggi in modo superficiale e parziale.
E’ certamente vero che senza
imposte non esiste lo Stato e senza lo Stato non esiste
il diritto di proprietà.
Tutto ciò, però, non significa che
l’imposta serva a distruggere la proprietà o debba
essere prelevata a scapito della giustizia e dei diritti
costituzionalmente garantiti.
Il diritto del contribuente alla
giusta imposta è, in conclusione, il diritto al rispetto
della disciplina costituzionale del fenomeno fiscale
consistente nell’insieme dei principi di giusta imposta,
individuati sinteticamente negli artt. 2, 3 e 53 della
Costituzione ed in tutti i numerosi ulteriori articoli
della nostra Carta in cui tali principi trovano sviluppo
ed attuazione, in sintonia, peraltro, con il diritto di
difesa dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale (anche
all’apparenza), ai sensi degli artt. 24 e 111 della
Costituzione.
In definitiva, deve terminare la
costante manovra di ‘’deprocessualizzazione’’ della
materia tributaria messa in atto dal legislatore per far
cassa a tutti i costi, calpestando il diritto di difesa
del contribuente.
Se la gente evade, oggi come in
passato, è principalmente perché:
- il carico fiscale è eccessivo;
- le norme tributarie sono troppe,
scritte male ed ingestibili;
- perché la legislazione fiscale
cambia in continuazione, ignorando (anzi calpestando) lo
Statuto del contribuente, come oggi è avvenuto con le
ultime manovre estive sopra citate.
In luogo di stolide ed inappaganti
guerre agli evasori, buone solo a creare e diffondere
invidia sociale, sarebbe bene attuare subito la riforma
fiscale, con la necessaria ed urgente riforma del
processo tributario. |