1. Si avvicina il termine del
31.12.2011, allo scadere del quale gli enti locali con
popolazione compresa fra 30.000 e 50.000 abitanti
potranno essere obbligati a dismettere (alcune de) le
proprie partecipazioni in società di capitali ai sensi
dell’art. 14, comma 32 del D.L. n. 78/2010, convertito
con modificazioni nella l. 122/2010, come da ultimo
modificato con dall'art. 16, comma 27, decreto-legge n.
138 del 2011, convertito dalla legge n. 148 del 2011.
Oggetto di questa breve analisi è
quello di verificare se le ultime innovazioni normative
di cui alla l. 148/2011 - ed in particolar modo la
riproposizione di una articolata disciplina inerenti il
settore dei servizi pubblici locali di cui all’art. 4
della medesima disposizione - possa condurre ad un
“ripensamento” di quello che parrebbe oramai un
consolidato orientamento delle sezioni regionali della
Corte di Conti in merito all’applicazione dell’obbligo
di dismettere partecipazioni societarie anche se
relative a società operanti nei servizi pubblici locali.
Al fine di affrontare tale
tematica, conviene innanzitutto ricordare che il tema
della partecipazione di enti locali a società di
capitali è oramai da alcuni anni costantemente al centro
di modifiche normative. Al contempo, tale tema è
strettamente connesso alla questione della gestione dei
servizi pubblici: la partecipazione dell’ente locale ad
una società di capitali è infatti spesso finalizzata
all’integrazione dei requisiti per l’instaurazione di un
rapporto di in house providing fra ente locale e
società.
A fianco del rapporto fra
partecipazione societaria e affidamento del servizio –
“tradizionalmente” centrata sulle società operanti nel
settore dei servizi pubblici locali – vi è poi il
diverso (ma contiguo) fenomeno della partecipazione di
enti locali in società operanti nel settore degli
appalti pubblici. Nonostante la spesso difficoltosa
distinzione fra i due fenomeni, vi è alterità normativa
fra il settore degli appalti pubblici e quello dei
servizi pubblici locali: alterità che si riflette anche
sulle fonti normative che disciplinano la presenza di
società pubbliche in tali settori.
Ora, nel corso del 2010 il
legislatore aveva emanato alcune disposizioni che,
soprattutto nella loro originaria redazione, risultavano
di rilevante impatto sull’assetto delle partecipazioni
pubbliche inerenti sia il settore degli appalti pubblici
che il settore dei servizi pubblici locali, senza
effettuare alcuna distinzione fra le due fattispecie.
Il riferimento, in particolare, è
al già ricordato art. 14, comma 32 del D.L. 78/2010,
convertito in l. 122/2010.
Tale disposizione – nella versione
vigente a seguito del sovrapporsi di successive
modifiche – prevede un’articolata disciplina in ordine
alla possibilità che gli enti locali costituiscano, o
mantengano, partecipazioni in società di capitali;
tematica, questa, che già era oggetto di specifiche
previsioni in forza dell’art. 3, commi 27 e 29 della l.
244/2007, individuando però un regime diversificato (o
meglio una completa esenzione) per le partecipazioni in
società operanti nel settore dei servizi di interesse
generale.
Si è così venuto a creare una
difficoltà interpretativa dell’ordinamento vigente che
aveva condotto ad un contrasto fra diverse statuizioni,
emanate in sede di richiesta di parere, fra diverse
Sezioni regionali della Corte dei Conti.
In sintesi, il tema era quello di
comprendere se i più stringenti divieti introdotti dal
D.L. 78/2010 fossero applicabili o meno anche al settore
dei servizi pubblici locali, posto che in riferimento a
tale settore l’art. 3, comma 27 della l. 244/2007
dettava un vero e proprio esonero dal divieto di
costituire società (e dall’obbligo di dismettere
partecipazioni sociali).
2. L’intento del presente lavoro è
quindi quello di verificare in quale misura le
disposizioni normative da ultimo introdotte con la c.d.
“Manovra di Ferragosto”, ossia con il D.L. 138/2011,
convertito in l. 148/2011, possano modificare lo
scenario normativo complessivo sul tema in questione,
ossia sulla applicabilità degli obblighi di dismissione
di partecipazione societarie (e il divieto di
costituzione di società) al settore dei servizi pubblici
locali.
Al fine di svolgere tale disamina
conviene innanzitutto ricordare che il dato normativo
immediatamente riferibile al settore dei servizi
pubblici è il già citato art. 3, commi 27 e ss della l.
244/2007, laddove, nelle parti qui di interesse, è così
previsto: “27. Al fine di tutelare la concorrenza e il
mercato, le amministrazioni di cui all'articolo 1 comma
2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non
possono costituire società aventi per oggetto attività
di produzione di beni e di servizi non strettamente
necessarie per il perseguimento delle proprie finalità
istituzionali, nè assumere o mantenere direttamente
partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. E'
sempre ammessa la costituzione di società che producono
servizi di interesse generale e che forniscono servizi
di committenza o di centrali di committenza a livello
regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di
amministrazioni aggiudicatrici di cui all'articolo 3,
comma 25, del codice dei contratti pubblici, relativi a
lavori, servizi e forniture, di cui al decreto
legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e l'assunzione di
partecipazioni in tali società da parte delle
amministrazioni di cui all'articolo 1 comma 2, del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nell'ambito
dei rispettivi livelli di competenza. [...] 29. Entro
trentasei mesi dall'entrata in vigore della presente
legge, le amministrazioni di cui all'articolo 1 comma 2,
del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel
rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, cedono a
terzi le società e le partecipazioni vietate ai sensi
del comma 27."
In sostanza, il comma 27 ha posto
un divieto di costituzione di nuove società partecipate
da enti locali, mentre il successivo comma 29 ha imposto
un obbligo di dismettere le partecipazioni “vietate” ai
sensi del precedente comma 27.
Ora, è da notare come il comma 27
ponga un netto divieto di costituire società ai primi
due periodi, giungendo però ad affermare che “E' sempre
ammessa la costituzione di società che producono servizi
di interesse generale…”. Locuzione, quella di “servizi
di interesse generale”, sicuramente idonea ad includere
nell’ambito della previsione i servizi pubblici locali.
Pertanto, ai sensi del comma 27
dell’art. 3 citato – tutt’ora vigente – è vietata per
qualsiasi amministrazione la costituzione di società che
non siano strettamente strumentali al perseguimento
degli interessi degli enti locali ma, al contempo, è
sempre ammessa la costituzione di società operanti nel
settore dei servizi pubblici. (Per inciso, la
disposizione non limita la possibilità di costituire
società operanti nel settore dei servizi pubblici che
agiscano secondo il modulo dell’in house providing,
lasciando dunque aperta la possibilità che le
amministrazioni costituiscano società che intervengono
nel mercato dei servizi pubblici attraverso la
partecipazione a gare pubbliche).
Ricordata tale disposizione, che fa
da sfondo alle considerazioni che seguiranno, è quindi
possibile rapportarsi con la disposizione di cui al
comma 32 dell’art. 14 del DL 78/2010, il quale nella sua
attuale stesura, prevede quanto segue: "32. Fermo quanto
previsto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 24
dicembre 2007, n. 244, i comuni con popolazione
inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire
società. Entro il 31 dicembre 2012 i comuni mettono in
liquidazione le società già costituite alla data di
entrata in vigore del presente decreto, ovvero ne cedono
le partecipazioni. Le disposizioni di cui al secondo
periodo non si applicano ai comuni con popolazione fino
a 30.000 abitanti nel caso in cui le società già
costituite: a) abbiano, al 31 dicembre 2012, il bilancio
in utile negli ultimi tre esercizi; b) non abbiano
subito, nei precedenti esercizi, riduzioni di capitale
conseguenti a perdite di bilancio; c) non abbiano
subito, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in
conseguenza delle quali il comune sia stato gravato
dell'obbligo di procedere al ripiano delle perdite
medesime. La disposizione di cui al presente comma non
si applica alle società, con partecipazione paritaria
ovvero con partecipazione proporzionale al numero degli
abitanti, costituite da più comuni la cui popolazione
complessiva superi i 30.000 abitanti; i comuni con
popolazione compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti
possono detenere la partecipazione di una sola società;
entro il 31 dicembre 2011 i predetti comuni mettono in
liquidazione le altre società già costituite."
Ebbene, la disposizione ora citata
prevede una distinzione fra tre tipologie di enti
locali: (i) quelli con popolazione inferiore a 30.000
abitanti; (ii) quelli con popolazione compresa fra
30.000 e 50.000 abitanti; (iii) quelli con popolazione
superiore.
Per i Comuni con meno di 30.000
abitanti la disposizione, dopo aver richiamato il
contenuto dell’art. 3, commi 27 e ss. della l. 244/2007,
impone il divieto di costituire nuove società, nonché
l’obbligo di cedere le partecipazioni sociali entro la
data del 31.12.2012. Tale obbligo di cessione non si
applica tuttavia alle ipotesi in cui concorrano gli
elementi di cui alle lett. a), b) e c).
La previsione nel suo insieme
(ossia divieto di costituzione e obbligo di cessione)
non si applica poi alle ipotesi in cui la società sia
costituita in modo paritetico (o in modo proporzionale
al rispettivo numero di abitanti) fra più Comuni.
Per i Comuni con popolazione
compresa fra 30.000 e 50.000 abitanti, invece, il
legislatore prevede espressamente soltanto che tali
amministrazioni possano costituire una società. Cosa che
parrebbe significare che tali amministrazioni, oltre a
quanto consentito ai Comuni con popolazione inferiore a
30.000 abitanti, potrebbero costituire una ulteriore
società; pena, altrimenti, un trattamento
ingiustificatamente peggiorativo rispetto ai Comuni di
più piccole dimensioni. In sostanza, si crede che
l’intera disciplina relativa ai Comuni con popolazione
inferiore a 30.000 abitanti sia applicabile anche ai
Comnuni con popolazione compresa fra 30.000 e 50.000
abitanti, con l’unica eccezione della possibilità di
costituire, per questi ultimi, una società “in più” dei
primi, e con la poco comprensibile differenziazione del
termine entro cui deve procedersi alla dismissione delle
partecipazioni non consentite.
Per l’ultima tipologia (ossia
Comuni con oltre 50.000 abitanti) la disposizione non è
applicabile e dunque rimane immutato lo scenario
normativo preesistente.
3. Ebbene, la principale difficoltà
interpretativa è dunque quella di conciliare tale
disposizione con la previgente norma di cui all’art. 3,
commi 27 e ss. della l. 244/2007. O, meglio, quella di
comprendere con esattezza il significato della locuzione
“fermo restando quanto previsto dagli articolo 27, 28 e
29, della legge 24 dicembre 2007, n. 244” posto quale
incipit dell’intero comma 32 dell’art. 14 del DL.
78/2010.
Come visto, infatti, il comma 27
citato, da un lato pone l’espresso divieto di costituire
nuove società non strettamente necessarie per il
perseguimento delle finalità istituzionali del Comune e
il comma 29 citato pone l’altrettanto espresso obbligo
di cedere le partecipazioni non consentite dal comma 27;
dall’altro lato, invece, proprio il comma 27 contiene la
“risonante” affermazione secondo cui “E' sempre ammessa
la costituzione di società che producono servizi di
interesse generale…”.
Dunque, rimane arduo comprendere se
ciò che resta fermo, ai sensi dell’art. 14, comma 32 del
DL 78/2010, sia il divieto di cui al comma 27 di
costituire e mantenere partecipazioni, oppure se ciò che
rimane fermo sia la facoltà di costituire “sempre”
società operante nei servizi pubblici locali (come
detto, certamente rientranti nel novero della più ampia
categoria dei servizi di interesse generale).
Gli scenari, nell’uno o nell’altro
caso, risultano molto diversi.
Nel primo caso, infatti, il divieto
di cui al comma 27 (e l’obbligo si cessione di cui al
comma 29) si sommerebbe al divieto (e all’obbligo di
cessione) di cui all’art. 14, comma 32.
Nel secondo caso, invece, il
divieto di costituzione di società (e l’obbligo di
dismetterne le partecipazioni) di cui all’art. 14, comma
32 non sarebbe applicabile all’ipotesi di società
operanti nel settore dei servizi pubblici.
Tale dubbio interpretativo è stato
fino ad oggi affrontato da varie sezioni regionali della
Corte dei Conti, le quali hanno avuto modo di emanare
delibere rilasciate a fronte di richiesta di parere
preventivo da parte di singoli Comuni.
4. Nell’effettuare tali
valutazioni, mentre alcune iniziali pronunce della
sezione Puglia della Corte di Conti avevano aderito
all’impostazione meno restrittiva per le amministrazioni
locali, è sembrata prevalere, successivamente,
l’orientamento di opposto tenore fatto proprio dalla
sezione Lombardia.
Più in particolare, le prime
pronunce della sezione Puglia (delibere n. 76/2010/PAR
e, con più diffuse argomentazioni, n. 129/2010/PAR)
affermavano che anche i Comuni con popolazione inferiore
a 30.000 abitanti potessero costituire società di
capitali se finalizzate alla gestione di servizi
pubblici locali. Ciò, come si riprenderà nel prosieguo,
evidenziando come la specialità delle disposizioni
inerenti la gestione dei servizi pubblici (ossia
l’allora vigente art. 23bis del DL 112/2008) dovesse
prevalere sulla norma di ordine generale di cui al DL
78/2010 (v. soprattutto delibera n. 129/2010/PAR). In
altri termini, poiché la legislazione relativa ai
servizi pubblici presuppone che ciascun Comune possa
costituire società partecipate cui affidare la gestione
dei servizi secondo il modello dell’in house providing,
le limitazioni introdotte dall’art. 14 comma 32, del DL
78/2010 non potrebbero trovare applicazione in tale
contesto normativo.
Per cui, la locuzione “fermo quanto
previsto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 24
dicembre 2007, n. 244” dovrebbe necessariamente
interpretarsi nel senso che ciò che rimane fermo è la
facoltà di costituire comunque società operanti nel
settore dei servizi pubblici.
Successive pronunce di altre
sezioni regionali della Corte dei Conti sono tuttavia
andate in direzione opposta.
In particolare, la sezione
Lombardia ha avviato un orientamento fondato
sull’opposto presupposto secondo cui le due disposizioni
normative (art. 3, comma 27 della l. 244/2007 e l’art.
14, comma 32 del DL 78/2010) opererebbero su due piani
ben distinti, di modo che il legislatore avrebbe voluto
mantenere ferma la generale previsione, operante per
ogni tipologia di amministratore, di vietare la
costituzione di società che non siano strettamente
connesse al perseguimento delle finalità istituzionali
dell’ente, introducendo, solo in relazione alle
partecipazioni societarie dei Comuni, un limite numerico
e quantitativo alla partecipazioni stesse.
Ebbene, tale secondo orientamento
della sezione Lombardia (sfociato nelle delibere nn.
861/2010/PAR del 15 settembre 2010, 952/2010/PAR e
959/2010/PAR del 13 ottobre 2010) ha trovato l’adesione
delle sezioni Liguria (delibera n. 166/2010/PAR del 31
dicembre 2010), Piemonte (delibera 92/2010/PAR del 17
dicembre 2010) ed Emilia Romagna (delibere nn.
4/2011/PAR del 17 febbraio 2011 e 30/2011/Par del 17
giugno 2011). Tant’è che anche la sezione Puglia della
Corte dei Conti, modificando il proprio precedentemente
orientamento, è giunta ad aderire all’impostazione
maggiormente restrittiva affermando che “Da un lato si
potrebbe sostenere che la locuzione “fermo quanto
previsto…” sia da intendere nel senso che anche per i
comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti ad
essere vietate siano esclusivamente le società che
abbiano ad oggetto sociale attività non rientranti nei
fini istituzionali dell’Ente; ma in tal caso, può
fondamentalmente essere obiettato, la precisazione
contenuta nell’art. 14 co. 32 risulterebbe priva di
sostanziale contenuto, mera ripetizione di quanto già
previsto per i comuni a maggiore densità abitativa, in
buona sostanza inutile ripetizione dell’art. 3 comma 27
cui è operato il rinvio. Una lettura alternativa, invero
maggiormente restrittiva, del disposto normativo fa
ritenere che i comuni inferiori a 30.000 abitanti non
possano, in assoluto, costituire società, né detenere
più alcuna partecipazione azionaria, dovendo dismettere
quelle già possedute”. (Sezione regionale Puglia della
Corte dei Conti, delibera n. 12/2011/PAR del 2 marzo
2011)
La ricostruzione a cui, in modo
compatto, sembrano giunte le varie sezioni regionali
della Corte dei Conti porterebbe dunque a ritenere che,
ad oggi, i Comuni con popolazione inferiore a 30.000
abitanti non potrebbero costituire alcuna società
(mentre i Comuni con popolazione compresa fra 30.000 e
50.000 abitanti potrebbero, sempre se nel rispetto
dell’art. 3, comma 27 della l. 244/2007, costituire una
sola società).
6. Come si è avuto di vedere in
apertura, il legislatore ha tuttavia previsto la
possibilità di non applicare tale divieto di
costituzione di società per le ipotesi in cui più enti
locali partecipino ad una medesima società in modo
paritetico o proporzionale al numero di rispettivi
abitanti, qualora sia superata la soglia di 30.000
abitanti.
Ora, svolte queste considerazioni
inerenti il divieto di costituzione di nuove società,
riguardo al quale avevano potuto confrontarsi le sezioni
della Corte dei Conti, occorre affrontare il connesso
tema dell’obbligo di dismissione delle partecipazioni
attualmente in essere: tema, questo, non sempre
espressamente affrontato nelle delibere di cui si è dato
conto, ma che trova il proprio svolgimento logico nelle
medesime considerazioni esposte al fine di esaminare
l’ambito di applicazione del divieto di costituzione di
nuove società.
Al riguardo, conviene dunque
sintetizzare il portato dell’orientamento sopra
ricordato, evidenziando come, così ragionando, alla data
del 31.12.2011 dovrebbero provvedere alla dismissione
delle partecipazioni i Comuni con popolazione compresa
fra 30.000 e 50.000 abitanti (assai poco coerentemente,
per quelli con popolazione inferiore a 30.000 abitanti
il termine è al 31.12.2012).
Una deroga a tale obbligo di
dismissione deve però ritenersi applicabile per le
società costituite in modo paritetico o proporzionale al
numero di abitanti fra più amministrazioni locali, posto
che la costituzione di una tale società risulta comunque
consentite.
Ulteriore deroga è poi prevista
(invero, in modo espresso solo per i comuni con
popolazione inferiore a 30.000 abitanti, ma la
previsione sembra analogicamente applicabile anche
all’altra categoria di Comuni) nel caso in cui le
società: “a) abbiano, al 31 dicembre 2012, il bilancio
in utile negli ultimi tre esercizi; b) non abbiano
subito, nei precedenti esercizi, riduzioni di capitale
conseguenti a perdite di bilancio; c) non abbiano
subito, nei precedenti esercizi, perdite di bilancio in
conseguenza delle quali il comune sia stato gravato
dell'obbligo di procedere al ripiano delle perdite
medesime.”
A fronte di tale scenario, conviene
dunque svolgere alcune considerazioni conclusive che
prendono in esame la portata dell’art. 4 della l.
148/2011.
Come rilevato anche dalla sezione
Lombardia della Corte dei Conti (v. delibera
959/2010/PAR del 13 ottobre 2010, e come più
diffusamente argomentato nella delibera n. 129/2010/PAR
della sezione Puglia della Corte dei Conti, vi è uno
stretto legame fra il meccanismo di in house providing e
la costituzione di (o il mantenimento di partecipazioni
in) società controllate da parte dell’amministrazione
comunale, in quanto l’affidamento del servizio
presuppone che l’amministrazione sia necessariamente
essere “munita” di una propria società controllata.
Proprio tale stretto legame fra
partecipazione societaria e affidamento in house,
riprendendo le considerazioni a suo tempo svolte dalla
Corte dei Conte sezione Puglia nel suo primo
orientamento, potrebbe risultare oggi un elemento di
più ampia portata al fine di ritenere che il settore dei
servizi pubblici sia escluso dall’applicazione
dell’obbligo di dismissione in questione.
Infatti, al momento in cui si era
formato il primo orientamento della sezione Puglia della
Corte dei Conti, e al momento in cui è maturato
l’opposto prevalente orientamento, la disciplina dei
servizi pubblici locali era improntata ad una fortissima
disincentivazione del mantenimento di rapporti di in
house providing.
L’allora vigente art. 23bis del DL
112/2008 prevedeva infatti che l’affidamento in house
dovesse essere una eccezionale deroga al modello di
affidamento tramite gara (o tramite modelli di
partnerariato pubblico-privato). La disposizione
prevedeva che solo a seguito di un ampio iter
procedimentale, dal quale emergesse l’impossibilità di
rivolgersi al mercato per l’individuazione del soggetto
gestore, l’amministrazione locale avrebbe potuto
utilizzare il modello dell’in house providing, previo,
peraltro, parere della competente autorità indipendente
di settore.
Tuttavia, a seguito del referendum
abrogativo del giugno 2011 e, soprattutto, della
riscrittura dell’intera disciplina di settore, deve
ritenersi che lo scenario di fondo sia completamente
cambiato.
Il legislatore, infatti, proprio
per aderire al portato dell’esito referendario ha
riproposto il precedente art. 23bis inserendo una
rilevantissima innovazione: l’assoluta libertà per
ciascun ente locale di procedere ad affidamenti diretti
entro la non irrilevante soglia di 900.000 euro/annui
per ciascun servizio.
In sostanza, la disciplina di
settore prevede – a differenza del passato contesto
normativo - un maggior favore (o forse minor sfavore…)
nei confronti dell’affidamento in house.
Da tale mutamento potrebbe quindi
derivare una diversa ricostruzione del rapporto fra le
due norme di cui si è fin qui discusso: ossia l’art,. 3,
comma 27 e 29 della l. 244/2007 e l’art. 14, comma 32
del DL 78/2010.
Potrebbe cioè ritenersi che
l’apertura dell’ordinamento effettuata a favore dell’in
house (peraltro imposta dall’esito referendario) debba
condurre, quanto meno, ad un diverso atteggiamento
mentale di ciascun interprete nei confronti degli
obblighi di dismissione di partecipazioni societarie. E
questo proprio perché la sussistenza della
partecipazione societaria risulta l’imprescindibile (o
comunque l’assai difficilmente prescindibile)
presupposto della legittimità dell’affidamento in house.
La modifica normativa di cui alla
c.d. “manovra di Ferragosto”, sfociata nell’articolata
disciplina imposta dall’art. 4 della l. 148/2011 che
ripropone senza limitazioni (entro il predetto limite di
valore) la possibilità di procedere ad affidamenti in
house, potrebbe dunque indurre ad un ripensamento di
quello che è stato, fin qui, l’interpretazione
maggiormente adottata in sede istituzionale del rapporto
fra le due disposizioni sopra ricordate.
Per di più, vale la pena di
evidenziare che proprio l’individuazione di un limite di
valore agli affidamenti in house tende ad escludere che
i Comuni di più ampie dimensioni possano avvalersi di
tale istituto, mentre i Comuni di più limitate
dimensioni potranno utilizzare tale modello di
affidamento anche per servizi di estrema rilevanza
economica. Ma, come visto, la disciplina sulla
dismissione delle partecipazioni societarie segue un
cammino esattamente opposto, obbligando a privarsi
delle proprie società controllate proprio i Comuni di
più piccole dimensioni, che avrebbero invece miglior
gioco ad avvalersi di esse entro la predetta soglia di
valore di 900.000 Euro/annui.
Concludendo dunque l’analisi
condotta, dalla quale sembrano emergere elementi tali da
spingere ad una nuova riflessione sul tema
dell’applicabilità dell’obbligo di dismissione delle
partecipazioni al settore dei servizi pubblici, non può
che rinviarsi ogni altro spunto di riflessione alle
annunciate misure inerenti le dismissioni di
partecipazioni “promesse” all’Unione Europea. Misure
che, assai verosimilmente, contribuiranno a rinnovare
quel moto perpetuo a cui sembra destinato lo scenario
normativo in questione.
Articolo di Riccardo Bianchini) |