Consigliere di Stato
(*) Testo della relazione sul tema
“Contratti pubblici e contenzioso: effettività della
tutela e interessi generali dopo il “Decreto Sviluppo”,
svolta nell’ambito del Convegno di Ravello del 14 e 15
ottobre 2011 “Appalto pubblico: chance di sviluppo
efficiente”.
SOMMARIO
1. Il “Decreto sviluppo”,
l’efficienza dei contratti pubblici, il contenzioso e la
lotta prioritaria all’abuso di processo: una soluzione
“unilaterale”.
2. La nuova “filosofia” del
legislatore del 2011: colpire il solo fenomeno
dell’abuso di processo, senza toccare la disciplina del
rito speciale.
3. La responsabilità
processuale aggravata, la lite temeraria e i ripetuti
interventi del legislatore recente. La ricerca di regole
stabili e chiare.
4. Il nuovo articolo 96,
comma terzo, del codice di procedura civile, introdotto
dalla legge n. 69/2009. L’ampliamento della
responsabilità patrimoniale aggravata, oltre i limiti
della mala fede e della colpa grave e i “danni
punitivi”.
5. La disciplina speciale
della responsabilità processuale aggravata nel codice
del processo amministrativo: una complicazione non
necessaria.
6. Il presupposto speciale
della responsabilità della parte soccombente: la
decisione fondata su “ragioni manifeste o orientamenti
giurisprudenziali consolidati”.
7. La previsione
dell’articolo 21, comma 2, ha valore meramente
interpretativo ed esemplificativo della regola fissata
dall’articolo 96, comma terzo?
8. La tesi dell’autonomia
della previsione contenuta nell’articolo 26, comma 2:
quali peculiarità del processo amministrativo? Il rilevo
privilegiato degli orientamenti giurisprudenziali
consolidati.
9. La componente soggettiva
della responsabilità nell’articolo 26, comma 2 e
nell’articolo 96, comma terzo. Il requisito della colpa
e la sua “oggettivizzazione”.
10. L’abuso di processo e gli
“orientamenti giurisprudenziali consolidati”: il valore
dell’unità dell’ordinamento giuridico e una formula che
non persuade.
11. La lite temeraria nel
Decreto Sviluppo e la nuova prospettiva del legislatore:
dalla responsabilità nei confronti della controparte
alla sanzione pecuniaria obbligatoria.
12. I proventi delle sanzioni
alimentano il bilancio della giustizia amministrativa:
la riparazione di un danno provocato al sistema
giudiziario? Una previsione che appanna l’immagine di
terzietà del giudice.
13. Il rapporto tra la
sanzione per lite temeraria e la responsabilità
aggravata di cui all’articolo 26, comma 2 e 96, comma
terzo.
14. Il cumulo tra la sanzione
pecuniaria e la responsabilità aggravata: il preteso
carattere plurioffensivo dell’abuso di processo.
15. L’ambito oggettivo di
applicazione della disciplina. Le controversie in
materia di contratti pubblici: incertezze e dubbi di
ragionevolezza.
16. Lo spazio temporale di
applicazione della norma e il diritto transitorio: il
principio tempus regit actus e l’inapplicabilità ai
giudizi pendenti.
17. Gli ulteriori problemi
interpretativi. La commisurazione della sanzione, il
parametro del contributo unificato e il concetto di
“soccombenza”.
18. Il presupposto soggettivo
di applicabilità della sanzione. l’accertamento
necessario della colpa concreta della parte soccombente.
Un’ipotesi di responsabilità oggettiva per il caso di
decisione fondata su orientamenti giurisprudenziali
consolidati?
19. Il procedimento di
irrogazione delle sanzioni: il silenzio del legislatore.
20. Il correttivo al codice
del processo: l’eliminazione della speciale
responsabilità aggravata; la generalizzazione della
sanzione per lite temeraria e il sospetto di un eccesso
di delega.
21. Conclusioni: la scarsa
utilità dell’istituto della sanzione per lite temeraria.
1. Il “Decreto
sviluppo”, l’efficienza dei contratti pubblici, il
contenzioso e la lotta prioritaria all’abuso di
processo: una soluzione “unilaterale”.
Il “Decreto Sviluppo”[1], nel
quadro degli interventi normativi destinati a rendere
più efficiente e competitivo il mercato dei contratti
pubblici, ha modificato, ancora una volta, il sistema
del contenzioso dinanzi al giudice amministrativo.
L’innovazione è unica e consiste nella previsione del
nuovo istituto della sanzione pecuniaria per “lite
temeraria”, commisurata al contributo unificato.
Poco dopo, anche il “Decreto
Stabilizzazione”[2] si è occupato del contenzioso in
materia di contratti pubblici, stabilendo l’elevazione
da duemila a quattromila euro della misura del
contributo unificato dovuto dalla parte ricorrente, per
ogni domanda proposta, in via principale o incidentale,
inasprendo, di riflesso, i limiti edittali, minimo e
massimo, della sanzione.
In entrambe le occasioni, l’intento
manifestato dal legislatore è stato chiaro: rafforzare
ulteriormente – e in via prioritaria - la protezione
degli “interessi generali” coinvolti nella realizzazione
delle opere pubbliche, contrastando le frequenti e
stigmatizzabili strumentalizzazioni del processo
amministrativo, in chiave meramente dilatoria e
ostruzionistica.
In sintesi, il legislatore si è
proposto l’ambizioso obiettivo di frenare drasticamente
il fenomeno dell’abuso di processo, che si realizza sia
quando il giudizio è avviato, pretestuosamente, senza
alcun ragionevole fondamento (“abuso di ricorso”), sia
quando l’amministrazione o il controinteressato
avversano a oltranza le ragioni sacrosante di chi ha
proposto la domanda (“abuso di resistenza”).
L’eccesso di giudizio, specie se
riferito alla parte attrice, è considerato, quindi, un
fattore altamente negativo, che può determinare il
rallentamento della costruzione delle infrastrutture e
intralciare, comunque, il fisiologico corso della
giustizia, danneggiando proprio le parti che, all’esito
del processo, dimostrano di “avere ragione”.
Non vi è nessun dubbio che il
problema della inflazione di ricorso esista da tempo e
debba essere affrontato senza alcun pregiudizio. Ma
suscitano notevoli perplessità sia i contenuti delle
ultime norme introdotte nell’ordinamento, sia il metodo
seguito e, in definitiva, la stessa prospettiva
“culturale”, che pare sorreggere la ratio
dell’intervento.
In questo modo, infatti, il
legislatore ha interrotto, in modo piuttosto brusco e
“unilaterale”, con un provvedimento normativo di
urgenza, poco discusso tra gli stessi destinatari della
regola, il delicatissimo e laborioso dialogo tra il
principio di “effettività della tutela giurisdizionale”
e il criterio della piena salvaguardia degli interessi
generali, presenti nella controversia sottoposta alla
cognizione del giudice amministrativo.
Il tema ha una straordinaria
complessità e presenta una portata trasversale, che
riassume, in fondo, la stessa ragione d’essere della
giustizia amministrativa, ne ha giustificato la nascita
e ne caratterizza i successivi sviluppi, compresi quelli
in corso di svolgimento.
Nella storia recente, all’interno
del contenzioso in materia di contratti pubblici,
peraltro, la questione dell’abuso di ricorso ha assunto
un risalto ancora più specifico, anche se forse
eccessivamente enfatizzato, alla luce dei dati oggettivi
forniti dalla Autorità di Vigilanza sui Contratti
Pubblici (AVCP), che ne ridimensionano il reale impatto.
Si è alimentato un appassionato dibattito tra i fautori
della più ampia espansione della regola di effettività,
anche per le forti spinte del diritto comunitario, da un
versante, e i sostenitori della persistente (anzi,
ancora più qualificata) rilevanza dell’interesse
pubblico, idoneo a modellare gli istituti processuali e
ad orientarne l’interpretazione, dall’altro lato.
Il legislatore, quando si è
occupato del tema, ha assunto, quindi, un atteggiamento
inevitabilmente variabile e oscillante. Da una parte ha
recepito la maggior parte delle istanze rivolte a
soddisfare con pienezza la pretesa sostanziale del
ricorrente vittorioso. Dall’altra, però, ha previsto
alcuni pesanti limiti alla tutela, spiegati proprio in
funzione di salvaguardia dell’interesse pubblico: si
pensi, in materia di infrastrutture strategiche, alle
regole che precludono la caducazione del contratto
stipulato.
Il codice del processo
amministrativo, largamente condizionato dalle
indicazioni cogenti del diritto europeo, ha affrontato e
risolto i problemi posti dal contenzioso in materia di
contratti pubblici in modo equilibrato e
complessivamente apprezzabile, mediante l’introduzione
di efficaci strumenti, idonei a conciliare l’effettività
della tutela e la salvaguardia degli altri valori
pubblici di rango costituzionale. A parte la profonda
razionalizzazione del sistema processuale nel suo
complesso (che già consente di superare una porzione
consistente dei paventati rischi dell’abuso di ricorso),
gli interventi dedicati appositamente ai contratti
pubblici, riguardano, in sintesi:
- la creazione di un rito
“acceleratissimo”, che assicura la definizione del
giudizio in tempi davvero brevi, ragionevolmente
compatibili, nella maggior parte dei casi, con l’urgenza
delle opere infrastrutturali oggetto di contestazione;
- la previsione di
opportuni “filtri” preventivi del giudizio: il
meccanismo dello stand still; l’informativa preventiva
dell’intento di proporre ricorso (strumenti che si
aggiungono a quello, molto efficace, del precontenzioso
dinanzi all’ AVCP);
- una regolamentazione
espressa della sorte del contratto, conseguente
all’annullamento dell’aggiudicazione, che prevede la
diretta rilevanza della valutazione degli interessi
pubblici, ai fini della decisione sulla inefficacia del
contratto.
La filosofia coerente e unitaria
che lega insieme i diversi istituti previsti dal codice
del processo è costituita dalla premessa secondo cui
l’effettività della tutela e la realizzazione
dell’interesse generale non sono affatto in necessario
conflitto, ma devono e possono convergere verso il
risultato unitario della massima efficienza della
giustizia amministrativa, assicurato dalla introduzione
di adeguate regole del processo.
Per queste ragioni non si è
ritenuto, invece, di prevedere, all’interno del codice,
alcuna misura sanzionatoria puntuale, dirette a colpire,
nel solo settore dei contratti pubblici, le condotte
processuali scorrette poste in essere dalle parti.
2. La nuova
“filosofia” del legislatore del 2011: colpire il solo
fenomeno dell’abuso di processo, senza toccare la
disciplina del rito speciale.
Il legislatore del 2011, attraverso
le innovazioni contenute nel Decreto Sviluppo e nel
successivo intervento di manovra finanziaria, si pone su
un piano radicalmente diverso rispetto a quello
delineato dal codice.
Sembra abbandonata l’idea della
progressiva – ma necessaria - convergenza tra
effettività e interesse generale.
Al contrario, il presupposto
implicito dell’intervento legislativo è che
l’effettività della tutela assicurata dall’ordinamento
processuale alla parte ricorrente abbia ormai raggiunto,
nel codice, il suo livello massimo e insuperabile.
Semmai, nell’ottica del legislatore, risulta carente e
inefficace la piena garanzia dell’interesse generale. In
altre parole, il sistema è reputato troppo squilibrato
in favore del principio di effettività della tutela e di
accessibilità alla giustizia, con l’inevitabile
sacrificio dell’interesse pubblico.
Partendo da questa convinzione,
quindi, gli autori del Decreto Sviluppo non ritengono
utile modificare o perfezionare, “dall’interno”, gli
istituti processuali tipici del contenzioso in materia
di contratti pubblici, ma utilizzano una diversa
tecnica, che opera “all’esterno” del sistema del codice
del processo. Non è un caso, del resto che, anche sul
piano formale, le nuove regole vadano a modificare non
già tale fonte legislativa, bensì il codice dei
contratti pubblici e il testo unico delle spese di
giustizia. Ma pure al di là della collocazione
topografica, è comunque ben visibile la diversità
dell’impostazione seguita.
Il fine indicato è, per così dire,
“unilaterale”, o parziale: si tratta di scoraggiare,
direttamente, i ricorsi non necessari; di sanzionare le
parti per l’abuso di processo. Vero è che la nuova
normativa in materia di lite temeraria è astrattamente
applicabile anche al caso opposto di “eccesso di
resistenza”, ma, in concreto, la disciplina è pensata –
e presentata - proprio per frenare la proliferazione dei
processi e punire i ricorrenti “imprudenti”.
D’altro canto, nessuna altra misura
viene prospettata, in senso opposto, per offrire un
rafforzamento degli strumenti di tutela della parte
vittoriosa, controbilanciando, in qualche modo, le
conseguenze di una così marcata rilevanza degli
interessi generali.
I mezzi adoperati dal legislatore
del 2011 consistono in due misure collegate, entrambe di
contenuto patrimoniale:
- l’introduzione di una pesante
sanzione pecuniaria, per l’evenienza della “lite
temeraria”, come è espressamente definita dalla nuova
norma;
- un consistentissimo aumento del
contributo unificato.
3. La responsabilità
processuale aggravata, la lite temeraria e i ripetuti
interventi del legislatore recente. La ricerca di regole
stabili e chiare.
È opportuno concentrare
l’attenzione proprio sulla nuova disciplina della “lite
temeraria”. Con questa formula, il linguaggio dei
pratici sintetizza le conseguenze economiche
sfavorevoli, poste a carico di chi, colposamente o con
dolo, si sia determinato a promuovere una lite o a
resistere in giudizio, sostenendo tesi prive di
fondamento.
In questo ambito, il legislatore
più recente ha manifestato un interesse piuttosto
intenso e ripetuto.
Infatti, l’intervento del 2011 è
addirittura il terzo di una sequenza che, nell’arco di
soli due anni (a partire dal 2009), ha già determinato
una complessa stratificazione di regole, non
immediatamente riconducibili ad un sistema chiaro e
saldo. In sintesi, le tre tappe in cui si è
concretizzata, finora, l’attenzione del legislatore sono
le seguenti:
a) la
modifica della disciplina dell’articolo 96 del codice di
procedura civile in tema di “responsabilità aggravata”,
mediante l’aggiunta di un terzo comma, diretto ad
ampliare sensibilmente la sfera di operatività
dell’istituto[3];
b)
l’introduzione di una regolamentazione specifica della
“responsabilità aggravata” nel processo amministrativo,
contenuta nell’articolo 26 del codice;
c) il
nuovissimo trattamento sanzionatorio per lite temeraria,
previsto nel nuovo articolo 246-bis del codice dei
contratti pubblici, introdotto dal Decreto Sviluppo.
Ma va aggiunto che il decreto
correttivo del codice del processo amministrativo,
attualmente all’esame del Parlamento, è destinato a
cambiare ulteriormente il quadro di riferimento,
mediante la generalizzazione dell’ambito di applicazione
della sanzione prevista dall’articolo 246-bis e
l’eliminazione della disciplina speciale della
responsabilità aggravata contemplata dall’articolo 26,
comma 2, ricondotta, interamente, al codice di procedura
civile.
L’attivismo così marcato del
legislatore in un settore dell’ordinamento che era
rimasto immutato per decenni (e anche scarsamente
applicato) manifesta, senz’altro, la rapida emersione di
un diffuso disagio a fronte di una disciplina ritenuta
non più adeguata all’attuale realtà economica e sociale.
La lite temeraria non è cosiderata un’eventualità
marginale ed eccezionale, ma costituisce un’ipotesi
sempre più frequente. D’altro canto, il principio di
maggiore autoresponsabilizzazione delle parti del
giudizio contrassegna l’evoluzione dell’ordinamento
processuale nell’ultimo periodo.
Tuttavia, la concitazione delle
modifiche legislative apportate all’originario impianto
del codice di procedura civile, stratificate l’una
sull’altra, alimenta l’incertezza e l’instabilità del
sistema, proprio in relazione a quelli che dovrebbero
essere principi essenziali e durevoli del processo: la
disciplina del diritto di azione e la fissazione dei
suoi limiti, anche in funzione del possibile contrasto
al fenomeno dell’abuso di giudizio.
Per valutare la reale necessità (o
quanto meno utilità) dell’intervento legislativo del
2011, è indispensabile, allora, descrivere il contenuto
essenziale della precedente normativa, su cui va ad
inserirsi il nuovo istituto della sanzione per lite
temeraria.
4. Il nuovo articolo
96, comma terzo, del codice di procedura civile,
introdotto dalla legge n. 69/2009. L’ampliamento della
responsabilità patrimoniale aggravata, oltre i limiti
della mala fede e della colpa grave e i “danni
punitivi”.
Il primo intervento in materia, che
ha segnato un’autentica “svolta” dell’ordinamento, è
costituito dalla introduzione di un terzo comma
all’articolo 96 del codice di procedura civile, ad opera
dell’articolo 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009,
n. 69.
In base a tale disposizione “in
ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi
dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può
altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a
favore della controparte, di una somma equitativamente
determinata.”
La previsione, di non agevole
lettura, contiene almeno tre innovazioni
“rivoluzionarie”, rispetto al precedente quadro, le
quali, seppure con qualche criticità, dilatano
sensibilmente la sfera di applicazione della
responsabilità aggravata e la sua funzione dissuasiva
nei confronti di atteggiamenti processuali
ingiustificati.
a) La
responsabilità della parte è affrancata dagli angusti
limiti “soggettivi” previsti dall’articolo 96. Quindi,
non occorre più dimostrare la mala fede o la colpa grave
(articolo 96, comma primo) o la mancanza di ordinaria
prudenza (articolo 96, comma secondo), nei soli casi in
cui sia accertata l'inesistenza del diritto per cui è
stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta
domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale,
oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata. La
disposizione non indica, positivamente, quale sia il
coefficiente soggettivo minimo, per affermare la
responsabilità patrimoniale della parte soccombente.
Tuttavia, sembra ragionevole ritenere che occorra (ma
sia anche sufficiente) la dimostrazione della colpa
della parte soccombente, senza ulteriori connotazioni.
b) La
determinazione “equitativa” della somma liquidata a
carico della parte responsabile permette di superare
agevolmente la tradizionale difficoltà di provare l’an e
il quantum del pregiudizio patrimoniale subito dalla
controparte. Tale circostanza rendeva l’istituto
originario della responsabilità aggravata poco
utilizzato, anche in presenza degli altri presupposti
indicati dalla norma.
Al riguardo, tuttavia, la
giurisprudenza più recente della Cassazione risultava
già orientata nel senso di una fortissima
semplificazione probatoria, che permette di dimostrare
l’an e il quantum del pregiudizio pure mediante il
ricorso a presunzioni e a massime di comune esperienza.
Inoltre, il riferimento alla
valutazione equitativa della liquidazione consente al
giudice di modulare la misura della condanna sulla base
di una pluralità di parametri concorrenti, relativi
anche a lesioni non immediatamente monetizzabili.
c) Il
potere del giudice di pronunciare la condanna anche di
ufficio attribuisce alla previsione una funzione
duplice: prevalentemente riparatoria dei danni subiti
dalla parte vittoriosa; ma anche (indirettamente)
sanzionatoria delle condotte serbate dalla parte
soccombente.
Insomma, si tratta, nel suo
complesso, di una innovazione importantissima, che
amplia notevolmente il raggio concreto di azione della
tradizionale “responsabilità aggravata processuale”,
colpendo in modo efficace le condotte riconducibili
all’abuso di processo.
Il riferimento al potere officioso
del giudice di disporre la condanna non sembra
trasfigurare l’impostazione di fondo dell’istituto, che
mira, pur sempre, a reprimere l’eccesso di ricorso, in
relazione alla sua concreta incidenza sul rapporto
dedotto in lite e alla lesione subita dalla controparte.
Si è parlato, quindi, di veri e propri “danni puntivi”,
per l’accentuata componente sanzionatoria della
condanna, che beneficia, però la controparte.
La “punizione” imposta ad una parte
mediante la condanna al pagamento di una somma di
denaro, infatti, è speculare al pregiudizio subito
dall’altra. In definitiva, quindi, la funzione
equitativa attribuita al giudice mira, pur sempre, a
ristabilire essenzialmente l’equilibrio patrimoniale tra
le parti, alterato da un’azione giudiziaria (o da una
resistenza in giudizio) colposamente infondata. La
maggiore o minore gravità della riscontrata mancanza di
diligenza può influire sull’entità della condanna, ma
considerando, in ogni caso, l’esigenza primaria di
soddisfare la pretesa della parte vittoriosa.
La disposizione ha già formato
oggetto di ripetute applicazioni da parte della
giurisprudenza ordinaria di merito che sembra orientata,
in prevalenza, a sottolineare il carattere tipicamente
sanzionatorio della condanna e la sua attitudine a
punire anche la lesione inferta all’apparato pubblico
della giustizia, inutilmente messo in moto da iniziative
(o, più raramente, difese) processuali avventate.
La previsione normativa, tuttavia,
ha lasciato aperti diversi problemi:
a) il carattere facoltativo o
doveroso della condanna disposta di ufficio;
b) l’individuazione di parametri
oggettivi per affermare la responsabilità della parte
soccombente;
c) i criteri di concreta
quantificazione della misura della condanna,
5. La disciplina
speciale della responsabilità processuale aggravata nel
codice del processo amministrativo: una complicazione
non necessaria.
Il secondo intervento in materia di
lite temeraria è contenuto nel codice del processo
amministrativo, in vigore dal 16 settembre 2010.
In particolare, l’articolo 26
affronta, esplicitamente, il tema della responsabilità
delle parti, in dipendenza delle loro condotte
processuali.
L’effettiva utilità di una
regolamentazione ad hoc di questa materia, nell’ambito
del giudizio dinanzi ai TAR e al Consiglio di Stato, è
apparsa, in verità, piuttosto dubbia. Anzi, la
disciplina dell’articolo 26 ha finito per aumentare
ulteriormente le incertezze applicative proposte
dall’articolo 96, comma terzo, con particolare riguardo
alla individuazione dei presupposti soggettivi e
oggettivi della condanna.
Il comma 1 dell’articolo 26
richiama tutte le norme in materia di spese contenute
nel codice di procedura civile, compreso l’articolo 96,
menzionato nella sua interezza (anche il terzo comma,
quindi).
A stretto rigore, quindi,
l’analitico richiamo compiuto è superfluo, in virtù del
generale rinvio esterno previsto dall’articolo 39, comma
1 del codice del processo amministrativo: “Per quanto
non disciplinato dal presente codice si applicano le
disposizioni del codice di procedura civile, in quanto
compatibili o espressione di principi generali.”
L’indicazione specifica dei singoli
articoli del codice di procedura civile applicabili ha,
comunque, lo scopo di determinare una relatio piena e
incondizionata a tali regole, non più subordinata ad una
valutazione di compatibilità con la struttura del
processo amministrativo o alla natura di principi
generali di tali disposizioni.
Nonostante il rinvio integrale
all’articolo 96, che permette di regolare la
responsabilità aggravata in perfetta coerenza con
l’ordinamento processualcivilisitico, tuttavia, il
codice del processo ha reputato necessario inserire
nell’articolo 21, comma 2, una disposizione autonoma.
Questa ricalca la previsione
dell’articolo 96, comma terzo, in modo pressoché
testuale, ma se ne differenzia per alcuni aspetti.
L’elemento di distinzione più rilevante consiste nella
aggiunta dell’inciso finale (evidenziato in grassetto):
“Il giudice, nel pronunciare sulle spese, può altresì
condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al
pagamento in favore dell’altra parte di una somma di
denaro equitativamente determinata, quando la decisione
è fondata su ragioni manifeste o orientamenti
giurisprudenziali consolidati.”
Nonostante le lodevoli intenzioni
dei compilatori del codice, la disposizione, come si è
detto, lungi dal chiarire l’operatività della
responsabilità aggravata e dal risolvere i nodi
ermeneutici presenti nell’art. 96, comma terzo, propone
diversi interrogativi; complica, anziché semplificare il
quadro di riferimento.
Anzitutto, non è affatto chiaro
quale sia il rapporto tra le due ipotesi descritte,
rispettivamente, nell’articolo 26, comma 2, e
nell’articolo 96, comma terzo.
A stretto rigore, la persistente
coesistenza e separatezza formale tra le due norme
potrebbe portare a ritenere che, in ogni caso, le
fattispecie siano totalmente distinte e autonome. Ne
deriverebbe che il giudice, sussistendone i presupposti,
potrebbe condannare la parte soccombente al pagamento di
due distinte somme di denaro, l’una in applicazione
dell’articolo 96, comma terzo, l’altra in attuazione
dell’articolo 26, comma 2.
In tale prospettiva, gli effetti
del cumulo, ritenuto in astratto sempre possibile,
potrebbero essere attenuati, in concreto, soltanto
mediante un accurato dosaggio dei poteri equitativi
assegnati al giudice.
In senso diametralmente opposto, è
immaginabile una diversa tesi interpretativa: la
disciplina dell’articolo 26, comma 2, regola in modo
esclusivo la fattispecie di ampliamento della
responsabilità aggravata, rendendo del tutto inoperante,
nel processo amministrativo, la regola contenuta
nell’articolo 96, comma terzo.
È plausibile, però, anche una tesi
intermedia, in forza della quale l’articolo 96, comma
terzo, può entrare in gioco, in via residuale, solo nei
casi non contemplati, nominativamente, dall’articolo 21,
comma 2. In sintesi, tra le due disposizioni
sussisterebbe un rapporto di specialità, che ne
impedisce la congiunta applicazione. Entrambe, però,
potrebbero operare nel processo amministrativo.
6. Il presupposto
speciale della responsabilità della parte soccombente:
la decisione fondata su “ragioni manifeste o
orientamenti giurisprudenziali consolidati”.
Per prendere posizione sulle
possibili alternative ricostruttive, è necessario
analizzare il significato dell’inciso finale contenuto
nell’articolo 26, comma 2.
In che cosa consiste esattamente la
differenza tra le due fattispecie descritte,
rispettivamente, nel codice di procedura civile e in
quello del processo amministrativo?
L’articolo 96, comma terzo, si
limita a prevedere la semplice facoltà di condannare la
parte soccombente al pagamento di una somma di denaro,
senza indicare le condizioni necessarie per adottare
tale pronuncia. Anzi, l’espressione di esordio della
disposizione (“in ogni caso”) pone in luce proprio la
massima dilatazione dello spettro operativo della
disposizione.
Al contrario, l’articolo 21, comma
2, pur confermando (letteralmente) il carattere
meramente facoltativo del potere assegnato al giudice e
la modalità equitativa di determinazione della somma
dovuta alla parte vittoriosa, descrive, con maggiore
puntualità, i presupposti applicativi della condanna,
correlati alla circostanza che la decisione sfavorevole
si sia basata su “ragioni manifeste o orientamenti
giurisprudenziali consolidati”.
Quindi, l’articolo 96, comma terzo,
contiene una regola tendenzialmente “aperta” (atipicità
della responsabilità aggravata), che il giudice potrà
riempire dei più vari contenuti, considerando
attentamente tutte le circostanze del caso. Viceversa,
l’articolo 21, comma 2, descrive una regola “chiusa”
(tipizzazione della responsabilità), che impone al
giudice di orientare la propria valutazione in una
direzione ben determinata: l’accertamento specifico dei
soli presupposti descritti dalla disposizione.
Si deve sottolineare che, in
entrambi casi, l’esercizio del potere officioso
attribuito al giudice sembra configurato come del tutto
facoltativo. Questa circostanza assottiglia, in linea
puramente pragmatica, l’effettiva rilevanza della
diversa formulazione delle norme, ma non permette di
accantonare definitivamente la questione.
Ad ogni modo, il punto relativo
alla precisa individuazione del significato racchiuso
nell’articolo 21, comma 2, secondo periodo, acquista un
particolare risalto, se si considera che, come si dirà
meglio nei paragrafi seguenti, la sanzione per lite
temeraria prevista dall’articolo 246-bis del codice dei
contratti (questa certamente obbligatoria e non
meramente facoltativa!) è espressamente collegata allo
stesso presupposto indicato dall’articolo 21, comma 2
(ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali
consolidati”).
7. La previsione
dell’articolo 21, comma 2, ha valore meramente
interpretativo ed esemplificativo della regola fissata
dall’articolo 96, comma terzo?
Vi è, comunque, un’altra possibile
lettura interpretativa, diffusa tra i primi
commentatori, che vorrebbe neutralizzare, sotto un
diverso profilo, l’effettivo rilievo della possibile
differenza tra le due disposizioni.
In base a tale opinione, il
parametro descritto dall’articolo 21, comma 2,
consisterebbe in una mera puntualizzazione
interpretativa della regola, solo letteralmente più
ampia e generica, contenuta nell’articolo 96, comma
terzo.
A parere di qualche autore, quindi,
il codice del processo amministrativo avrebbe
semplicemente esplicitato, senza alcun reale intento
innovativo, la nozione già contenuta, in modo più
nascosto, nell’articolo 96, quasi in funzione di
“interpretazione autentica” della regola. In sostanza,
non vi sarebbe alcuna differenza pratica tra le due
formulazioni, nonostante l’apparente diversità di
scrittura.
Questa lettura è sicuramente
ragionevole, ma confermerebbe, ancora una volta, la
sostanziale inutilità dell’articolo 21, comma 2.
D’altro canto, va considerato che
il codice del processo amministrativo ha scelto una
coerente cifra di sinteticità e risulta molto avaro di
norme superflue o ripetitive. E proprio la
riformulazione di regole derivanti dal codice di
procedura civile è derivata, di solito, dalla
consapevole esigenza di adeguarle ai tratti specifici
del processo amministrativo.
Il valore meramente interpretativo
dell’articolo 21, comma 2, non convince del tutto, anche
per un’altra ragione. È certamente rilevante il
significato sistematico della nuova disposizione, anche
al di fuori dell’esperienza del processo amministrativo.
Tuttavia, è difficile ammettere che la norma possa avere
l’effetto di ridisegnare la portata generale
dell’articolo 96, comma terzo, del codice di procedura
civile. In ogni caso, è prevedibile che il giudice
ordinario, in ultima analisi, non si sentirà
particolarmente vincolato da quanto stabilito
dall’articolo 26, comma 2, e procederà alla
individuazione dei presupposti applicativi della
condanna secondo autonomi criteri di giudizio.
Si potrebbe ritenere, allora, che
la norma abbia, semplicemente, un valore
“esemplificativo” e di mero indirizzo interpretativo,
non completamente vincolante: una sorta di “consiglio”
rivolto al giudice. In questo senso, le due ipotesi
considerate espressamente dall’articolo 26, comma 2,
indicherebbero solo alcuni presupposti tipici di
operatività della responsabilità, ma non impedirebbero
la individuazione di altri casi “atipici”, rimessi
all’apprezzamento del giudice amministrativo.
E questo potrebbe spiegare la
persistente sovrapposizione formale (ancorché parziale)
tra l’articolo 96, comma terzo, e l’articolo 21, comma
2. Il primo opererebbe, come si è detto, solo in via
residuale.
8. La tesi
dell’autonomia della previsione contenuta nell’articolo
26, comma 2: quali peculiarità del processo
amministrativo? Il rilevo privilegiato degli
orientamenti giurisprudenziali consolidati.
Probabilmente, però, i compilatori
del codice intendevano affermare proprio una certa
“peculiarità” del processo amministrativo, rilevante
anche in sede di apprezzamento della responsabilità
della parte soccombente e distinta da quella prevista
nel giudizio civile.
La norma, quindi, non sarebbe
riducibile ad una sorta di semplice “suggerimento”
interpretativo, ma avrebbe una portata precettiva più
pregnante.
L’articolo avrebbe proprio la
funzione di ridisegnare, autonomamente, solo per il
processo amministrativo, l’ambito di applicazione della
responsabilità.
Il riferimento alle “ragioni
manifeste”, pur potendo avere un significato molto
largo, pare incentrato sulla evidenza dei presupposti
fattuali della decisione della lite, mentre la formula
riguardante la giurisprudenza consolidata si collega
alla componente in diritto dalle pronuncia.
La peculiarità potrebbe derivare,
senz’altro, dalla circostanza che il giudizio di fatto
è, nel processo amministrativo normalmente, molto più
semplice e oggettivo, collegandosi, tuttora, alla
schiacciante prevalenza delle prove documentali.
Inoltre, il richiamo al valore del precedente risulta
coerente con una tradizione che, per un insieme di
ragioni, attribuisce quasi sempre peso preponderante
alla regola iuris elaborata dalla giurisprudenza (spesso
in chiave “pretoria”).
In tal modo, allora, la norma, per
alcuni aspetti, potrebbe circoscrivere i presupposti
della responsabilità aggravata, rispetto alla previsione
dell’articolo 96, comma terzo, ma, per un altro profilo
particolarmente rilevante, potrebbe “dilatare” i casi di
condanna, correlati, in modo pressoché automatico, al
solo riscontro oggettivo delle ragioni di fatto
manifeste o dalla fermezza della giurisprudenza
rilevante nella controversia.
9. La componente
soggettiva della responsabilità nell’articolo 26, comma
2 e nell’articolo 96, comma terzo. Il requisito della
colpa e la sua “oggettivizzazione”.
Il punto più delicato della
disposizione deriva allora dalla circostanza che
l’articolo 21, comma 2, al pari dell’articolo 96 comma
terzo, non compie alcun riferimento esplicito alla
componente soggettiva della responsabilità, affidando al
giudice il difficile compito di individuarne la concreta
rilevanza, nel coacervo dei fattori considerati ai fini
della pronuncia di condanna.
Secondo i principi generali, per
affermare la responsabilità di un soggetto, la
violazione di un dovere di diligenza è imprescindibile,
anche valutando la componente sanzionatoria della
previsione (insita nel potere officioso riconosciuto al
giudice). D’altro canto, nella norma, il riferimento
all’equità (seppure formalmente compiuto solo nella
prospettiva di quantificare il danno), insieme alla
facoltatività della condanna, impone di vagliare sempre
non solo il punto di vista della parte vittoriosa,
beneficiaria della pronuncia di condanna, ma anche
quello della parte soccombente.
Il profilo critico è che, però, lo
stesso concetto di diligenza si presta sempre ad una
significativa “oggettivizzazione”, mediante la
fissazione di determinati parametri di “esigibilità”
delle condotte delle parti.
A ben vedere, l’articolo 21, comma
2, mira proprio allo scopo di stabilire a quale tipo di
diligenza devono attenersi le parti, per non incorrere
in responsabilità, lasciando intendere che se le ragioni
della decisione sono qualificabili come “manifeste” e la
parte non se ne avvede, per qualsiasi ragione, la sua
colpa è comunque dimostrata e giustifica, da sola, la
condanna al pagamento di una somma di denaro. Nessun
altro accertamento”soggettivo” sarebbe necessario.
Parimenti, pure l’esistenza di una
giurisprudenza “consolidata” indica il parametro, anche
esso obiettivo, per quanto flessibile, di valutazione
della diligenza delle parti.
Soprattutto sotto questo secondo
aspetto, la norma richiede qualche approfondimento,
tenendo conto degli importanti riflessi sul nuovo
istituto della “lite temeraria”, introdotto dal Decreto
Sviluppo, che si incentra, letteralmente, sugli stessi
presupposti.
10. L’abuso di processo e
gli “orientamenti giurisprudenziali consolidati”: il
valore dell’unità dell’ordinamento giuridico e una
formula che non persuade.
Si deve notare, intanto, che,
attraverso il puntuale riferimento alla giurisprudenza,
entra decisamente in campo, quale determinante parametro
per disporre, o meno, la condanna della parte
soccombente, il ruolo del giudice e la sua funzione
“nomofilattica”, di interprete attivo dell’ordinamento
vivente.
La responsabilità della parte viene
significativamente collegata proprio alla condotta di
“contrasto” aperto con il soggetto titolare del compito
di gestire e decidere il contenzioso.
In questo modo, la responsabilità
prevista dalla norma si carica di una finalità
ulteriore, che è quella non tanto (o non solo) di
riequilibrare le posizioni patrimoniali delle parti, ma
anche quella di colpire, sul piano patrimoniale,
condotte processuali ritenute non in linea con le
precedenti decisioni del giudice amministrativo.
Un’equazione così netta tra la
responsabilità della parte e la soccombenza discendente
dalla applicazione degli indirizzi della giurisprudenza
consolidata riflette la diffusa idea secondo cui la
stabilità dell’ordinamento deve essere garantita
attraverso l’unità del diritto vivente, così come
ricostruito dall’interprete.
In quest’ottica, la giurisprudenza
amministrativa ha la funzione non solo di decidere il
caso concreto ma anche quella di decifrare le regole e
ricondurle a sistema. Potrebbe apparire naturale,
allora, riferire la colpevolezza del comportamento
processuale non tanto alla chiarezza delle norme, in sé
considerate, quanto, direttamente, alla univocità degli
orientamenti espressi dal giudice.
D’altro canto, l’esistenza di un
indirizzo sicuro dovrebbe rendere prevedibile l’esito
della lite, giustificando la maggiore cautela con cui le
strategie processuali delle parti devono essere scelte e
attuate.
Se queste considerazioni sono
esatte, in linea di principio, vanno espresse, però
alcune riserve critiche. Infatti, dalla condivisibile
premessa della unità dell’ordinamento giuridico
assicurata dalla giurisprudenza, alla affermazione
ineluttabile della responsabilità delle parti
dissenzienti vi è un salto logico.
1) Anzitutto, la
“soggettivizzazione” del parametro della diligenza,
riferito, in ultima analisi al “giudice” (inteso
ovviamente come apparato della giustizia nel suo
complesso), tradisce un certo eccesso di “protagonismo”,
che non sembra del tutto in linea con l’idea più
profonda della inderogabile terzeità rispetto alla
controversia. Perché non potrebbe avere lo stesso
rilievo, allora, ai fini della valutazione di
colpevolezza della parte soccombente, la univocità degli
indirizzi ermeneutici espressi dalla dottrina? Oppure le
tendenze interpretative compatte delle Autorità
indipendenti?
2) In secondo luogo, il rilievo
della giurisprudenza consolidata non può mai diventare
assorbente ed esclusivo, ma deve essere considerato alla
stregua di uno dei molteplici elementi per valutare, in
concreto, la temerarietà della lite, anche nei casi in
cui essa concerna solo una questione di diritto.
3) Infine, deve restare fermo il
principio secondo cui il contrasto con la giurisprudenza
consolidata non può segnare, da sola e automaticamente,
alcuna dimostrazione automatica della colpa della parte,
la quale, al contrario, dovrà essere attentamente
verificata in concreto.
11. La lite temeraria nel
decreto sviluppo e la nuova prospettiva del legislatore:
dalla responsabilità nei confronti della controparte
alla sanzione pecuniaria obbligatoria.
Il terzo (e, al momento, ma solo
per alcuni giorni ancora, l’ultimo) intervento normativo
in materia di contrasto all’abuso di processo è
costituito dall’articolo 246-bis del codice dei
contratti pubblici, introdotto dal Decreto Sviluppo[4].
In base a tale norma, “Nei giudizi
in materia di contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture, il giudice, fermo quanto previsto
dall'articolo 26 del codice del processo amministrativo
approvato con decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104,
condanna d'ufficio la parte soccombente al pagamento di
una sanzione pecuniaria in misura non inferiore al
doppio e non superiore al quintuplo del contributo
unificato dovuto per il ricorso introduttivo del
giudizio quando la decisione è fondata su ragioni
manifeste od orientamenti giurisprudenziali consolidati.
Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si
applica l'articolo 15 delle norme di attuazione del
codice del processo amministrativo approvato con il
citato decreto legislativo n. 104 del 2010.”
Va precisato che la legge di
conversione ha aumentato la misura massima della
sanzione, prevista nella stesura originaria del decreto
legge, elevandola dal triplo al quintuplo del contributo
unificato.
Inoltre, il “Decreto
Stabilizzazione” (decreto legge 6 luglio 2011,
convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111), come si è
detto, ha sensibilmente elevato il contributo unificato,
il quale, ora, è determinato in quattromila euro per i
ricorsi di cui all’articolo 120 del codice.
Anche in questo modo, l’effettiva
misura della sanzione risulta ulteriormente e
sensibilmente aumentata: salvi i dubbi prospettati
infra, relativi ad una possibile ulteriore dilatazione,
quindi, per le controversie soggette al “rito appalti”
di cui all’articolo 120, la sanzione varia da un minimo
di ottomila euro ad un massimo di ventimila euro; un
importo niente affatto simbolico, anche prescindendo
dalla ulteriore moltiplicazione della sua misura,
prospettabile secondo una possibile lettura (vedi
infra), e dal cumulo con l’onere delle spese processuali
e della responsabilità aggravata.
La nuova disposizione, nella sua
formulazione letterale, risulta palesemente ispirata
dall’articolo 26, comma 2, del codice del processo, del
quale, tuttavia, recepisce proprio la parte più
problematica e incerta, riguardante l’indicazione dei
presupposti applicativi delle conseguenze giuridiche e
patrimoniali sfavorevoli alla parte soccombente (“quando
la decisione è fondata su ragioni manifeste od
orientamenti giurisprudenziali consolidati”).
Si potrebbe leggere, allora, una
certa continuità rispetto alle precedenti scelte
legislative. In realtà, ciò che cambia è proprio la
prospettiva di fondo seguita, attraverso un netto salto
rispetto al precedente assetto. L’abuso di giudizio non
segna più soltanto una possibile lesione degli interessi
della controparte, che il soccombente deve riparare
(pure nella forma dei “danni punitivi”), ma rappresenta,
soprattutto, un pregiudizio, immediato e diretto, degli
interessi generali, da colpire, inesorabilmente,
mediante l’applicazione di una sanzione pecuniaria, di
carattere “pubblico”.
La lite temeraria non rileva più
per la possibile incidenza del processo sul rapporto
giuridico controverso, ma assume risalto, direttamente,
in ragione del suo impatto negativo sulla vicenda
processuale in sé considerata, nella sua dimensione
“generale”.
Dunque, nella nuova normativa,
l’attenzione è tutta concentrata sul risalto
determinante dell’interesse pubblico, ben distanziato da
quello delle parti. Questo non soltanto risulta
riaffermato come “prevalente” sul principio di
accessibilità alla giustizia, ma viene rideterminato nei
suoi contenuti. Esso non è quello allegato
dall’amministrazione e correlato alla vicenda
sostanziale dedotta in giudizio, ma diventa l’interesse
all’efficiente svolgimento del processo, autonomamente
considerato, indipendentemente da ogni accertamento
relativo alla possibile incidenza sulla vicenda
sostanziale sottostante e sugli interessi delle parti.
Due elementi testuali confermano
questa conclusione:
- l’uso testuale della vivida
espressione “lite temeraria”, in luogo di quella, forse
più asettica, di “responsabilità aggravata”;
- la destinazione vincolata dei
proventi delle sanzioni.
La disposizione utilizza, nella
rubrica, la formula “lite temeraria”, ben presente nel
linguaggio pratico e nella stessa giurisprudenza
ordinaria, ma non impiegata dal codice di procedura
civile, che preferisce parlare di “responsabilità
aggravata”. L’espressione tradizionale deriva dalla
circostanza che la fattispecie dell’articolo 96
introduce, in casi determinati e circoscritti, una
conseguenza patrimoniale aggiuntiva rispetto all’onere
delle spese, gravante sulla parte soccombente.
L’espressione contenuta
nell’articolo 246-bis, invece evoca, in modo più palese,
il motivo ispiratore della regola: occorre stigmatizzare
le condotte imprudenti e irresponsabili volte a
“sfidare” le altre parti e, in ultima analisi,
l’apparato della giustizia, messo in moto senza
plausibile giustificazione.
12. I proventi delle
sanzioni alimentano il bilancio della giustizia
amministrativa: la riparazione di un danno provocato al
sistema giudiziario? Una previsione che appanna
l’immagine di terzietà del giudice.
Ma, per comprendere meglio la
“nuova” filosofia della disposizione può essere utile
analizzare il secondo periodo dell’articolo, costruito
con la criticabile tecnica del rinvio “formale” “di
secondo grado”: si richiama, infatti, una disposizione
normativa, citata solo con i riferimenti numerici, che,
a sua volta rinvia ad un’altra, anche essa “muta” (“Al
gettito delle sanzioni previste dal presente comma si
applica l'articolo 15 delle norme di attuazione del
codice del processo amministrativo approvato con il
citato decreto legislativo n. 104 del 2010.”).
Il citato articolo 15 (Devoluzione
del gettito delle sanzioni pecuniarie) prevede che “il
gettito delle sanzioni pecuniarie previste dal codice è
versato al bilancio dello Stato, per essere riassegnato
allo stato di previsione del Ministero dell’economia e
delle finanze per le spese di cui all’ articolo 1, comma
309, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive
modificazioni.”
A sua volta, la norma richiamata,
più volte modificata, stabilisce che “il maggior gettito
derivante dall'applicazione delle disposizioni di cui ai
commi da 306 a 308 è versato al bilancio dello Stato,
per essere riassegnato allo stato di previsione del
Ministero della giustizia per il pagamento di debiti
pregressi nonché per l'adeguamento delle spese di
funzionamento degli uffici giudiziari e allo stato di
previsione del Ministero dell'economia e delle finanze
per le spese riguardanti il funzionamento del Consiglio
di Stato e dei tribunali amministrativi regionali, ivi
comprese quelle occorrenti per incentivare progetti
speciali per lo smaltimento dell’arretrato e per il
miglior funzionamento del processo amministrativo”.
In sintesi, in virtù del doppio
rinvio, solo apparentemente criptico, si stabilisce che
i proventi delle sanzioni vadano ad alimentare il
bilancio della giustizia amministrativa.
La previsione non è di per sé
irragionevole, anche se, purtroppo, la coincidenza tra
il soggetto che irroga le sanzioni pecuniarie e quello
che beneficia dei proventi evoca, in modo vago, le
disdicevoli prassi di certe amministrazioni locali che,
per fare cassa con i proventi delle contravvenzioni al
codice della strada, collocano gli apparecchi autovelox,
ben nascosti, nei luoghi più inaspettati, dove è assente
qualsiasi pericolo derivante da modesti eccessi di
velocità.
Ma, al di là di ogni possibile
lettura “maliziosa” della norma, resta il fatto che essa
muove dalla intima convinzione che l’abuso di ricorso
segna un costo “sociale” da monetizzare, il quale deve
essere “risarcito” non solo alla parte ingiustamente
coinvolta nella lite (sussistendone gli altri
presupposti), ma, in fondo, allo stesso apparato della
giustizia, che ne ha patito le conseguenze.
Una impostazione di questo genere,
seppure merita attenzione e rispetto, a ben riflettere,
non riesce affatto persuasiva, perché tocca, in modo
pericoloso, le dinamiche fisiologiche del rapporto tra
il giudice e le parti. In ogni caso, propone un delicato
problema di completa “imparzialità” e serenità della
decisione adottata dall’organo che deve applicare la
sanzione.
Anzitutto, deve restare
assolutamente ferma l’idea secondo cui la giustizia è un
“servizio” universale, aperto a tutti coloro che si
affermano portatori di un interesse meritevole di
protezione secondo l’ordinamento giuridico, alla luce
delle regole di rango costituzionale ed europeo, le
quali vincolano in modo assoluto, il legislatore
ordinario.
È certo possibile, anzi opportuno,
stabilire costi ragionevoli di accesso a tale servizio.
Quindi, in questa prospettiva, gli interventi diretti ad
incrementare le misure del contributo unificato sono in
linea di massima condivisibili, salve alcune riserve
sulla concreta quantificazione di tali oneri e sulla
loro modulazione relativa al tipo di processo.
Ma non sembra convincente, invece,
l’idea di “patrimonializzare” ulteriormente il rapporto
tra il cittadino e l’apparato giudiziario, in funzione
dell’esito della lite e di un giudizio di responsabilità
collegato all’accertamento dell’abuso di ricorso. Questa
“anomalia” è ancora più grave ove si consideri che la
sanzione intende punire proprio le condotte consistenti
nella “ribellione” alle tesi interpretative
giurisprudenziali consolidate.
È vero che la norma dovrebbe
sanzionare solo alcune condotte patologiche, salva
l’aleatorietà dei concetti di “ragioni evidenti” e di
“orientamenti giurisprudenziali consolidati”. Tuttavia,
il principio che si vuole affermare con la previsione
della sanzione per lite temeraria indica una inversione
di tendenza piuttosto marcata rispetto alle acquisizioni
in tema di effettività della tutela.
E ci si potrebbe chiedere se una
regola di questo contenuto risulti compatibile con i
principi espressi in sede europea, con riguardo al
contenzioso in materia di procedure di affidamento dei
contratti pubblici.
Sembra che il legislatore muova da
un fraintendimento in ordine alla stessa individuazione
del contenuto dell’interesse generale che si deve
tutelare nel contenzioso dei contratti pubblici.
Gli interessi superindividuali da
proteggere, all’interno del processo, sono quelli delle
imprese alla concorrenzialità del mercato e quello
dell’amministrazione pubblica alla realizzazione
dell’opera o del servizio.
L’abuso di processo, allora, può
determinare senz’altro un elevato costo economico e
sociale, il quale deve essere riferito essenzialmente
alle parti protagoniste del processo, compresa la
stazione appaltante che esprime l’interesse pubblico
alla cui attuazione è preordinato il contratto in
contestazione.
Non meno preoccupante è la ricaduta
della norma sul principio di terzietà del giudice.
Le parti del processo sono
considerate, in fondo, come potenziali “imputati”,
sottoposti alla scure manovrata dallo stesso giudice di
quella lite. Se si accerta che hanno torto, la
soccombenza, oltre alle ordinarie conseguenze, può
comportare l’applicazione di una sanzione.
E, certamente, non gioca, a favore
della terzietà del giudice (quanto meno alla sua
immagine), la duplice circostanza che:
- l’illecito consiste proprio
nell’antitesi ai precedenti dello stesso giudice;
- i proventi delle sanzioni
finiscono per beneficiare il bilancio della giustizia
amministrativa.
13. Il rapporto tra la
sanzione per lite temeraria e la responsabilità
aggravata di cui all’articolo 26, comma 2 e 96, comma
terzo.
La norma chiarisce molto bene la
diversità degli obiettivi perseguiti e dei contenuti
previsti, rispetto alla previgente disciplina in materia
di responsabilità aggravata. Infatti, stabilisce subito
che “resta comunque fermo l’articolo 26 del codice”: si
tratta, quindi di una conseguenza del tutto diversa, e
aggiuntiva, rispetto a quelle riconducibili alla
responsabilità aggravata tradizionale.
Da notare, poi, che l’espressa
salvezza del solo articolo 26 (e non anche dell’articolo
96, comma terzo del cpc) crea un ulteriore incertezza.
Infatti, l’omissione sembra
evidenziare anche la convinzione che l’articolo 96,
comma terzo, non dovrebbe trovare (più) applicazione nel
processo amministrativo. Tuttavia, poiché l’articolo 26,
a sua volta, richiama l’articolo 96 del codice di
procedura civile, nella sua interezza, si potrebbe
sostenere anche l’opinione secondo cui la norma
processualcivilistica è tuttora applicabile.
Ne deriverebbe, allora, una
notevole confusione sistematica e, addirittura, la
“triplicazione” delle conseguenze sfavorevoli della lite
temeraria: articoli 96, comma terzo, 26, comma 2,
246-bis.
Ad ogni modo, è certo che, per il
legislatore del 2011, la nuova sanzione non cancella
affatto la responsabilità prevista dall’articolo 26,
comma 2.
È singolare, però, che le due
fattispecie descritte, rispettivamente, dall’articolo
26, comma 2, e dall’articolo 246-bis, siano disegnate in
modo perfettamente identico, nella parte in cui
individuano i presupposti per la loro applicazione.
In tal modo, le interferenze e
sovrapposizioni tra le due discipline sono destinate a
creare non poche difficoltà ricostruttive.
A stretto rigore, sono possibili
diverse “combinazioni” tra le due norme.
In astratto, il giudice potrebbe
ritenere sussistenti i presupposti per l’applicazione
della sanzione di cui all’articolo 246-bis, e carenti,
invece, i requisiti per l’operatività dell’articolo 26,
comma 2: la parte soccombente va punita, ma non deve
pagare nulla all’avversario vitotrioso. In tale ambito
potrebbe ricadere, anzitutto, l’ipotesi in cui non vi
sia stata costituzione in giudizio della parte convenuta
e la domanda proposta dall’attore sia stata respinta.
Tuttavia, né l’art. 26, comma 2, né l’art. 96, comma
terzo, subordinano la condanna della parte soccombente
alla circostanza che l’atra sia costituita in giudizio.
E poiché, secondo gli insegnamenti della Cassazione, il
danno da lite temeraria comprende anche i pregiudizi “da
stress”, per l’ingiustificata pendenza della lite,
indipendentemente dalle spese affrontate per sostenere
il giudizio, la mancata costituzione non sembra
l’elemento discriminante fra le due disposizioni.
Con maggiore cautela, si potrebbe
considerare il caso in cui il giudice, pur reputando di
applicare la sanzione prevista dall’articolo 246-bis,
ritenga, che, nel suo complesso, non si sia verificato
alcun apprezzabile squilibrio patrimoniale tra le parti,
tale da giustificare la condanna del soccombente al
pagamento di una somma in favore della controparte.
Ancora, si deve considerare il caso
in cui la stessa posizione della parte vittoriosa in
giudizio sia stata anche essa, in senso ampio,
“temeraria” o imprudente: si pensi alle eventualità in
cui le uniche difese si siano incentrate
sull’allegazione di presupposti di fatto inesistenti o
alla prospettazione di tesi giuridiche avventate.
Non si potrebbe escludere, poi,
nemmeno l’ipotizzabilità della situazione opposta: il
giudice potrebbe condannare la parte soccombente al
pagamento di una somma di denaro in favore dell’altra,
ma decidere di non applicare alcuna sanzione.
Ciò si potrebbe verificare in
diversi casi.
Anzitutto, se si ritiene che
l’articolo 96, comma terzo, sia applicabile,
residualmente, nel processo amministrativo, dovrebbe
prospettarsi l’eventualità in cui, seppure la decisione
non dipende da ragioni evidenti o dall’applicazione di
indirizzi ermeneutici pacifici (e, quindi, non vi siano
i presupposti per applicare la sanzione di cui
all’articolo 246-bis), sia comunque individuabile una
responsabilità aggravata della parte soccombente, sulla
base di diversi parametri.
Ancora, si potrebbe considerare
che, in base alla lettura prettamente “equitativa” della
norma contenuta nell’articolo 26, il giudice potrebbe
ravvisare situazioni in cui sia opportuno ripristinare,
almeno parzialmente, la posizione patrimoniale della
parte vittoriosa in giudizio, ancorché la parte
soccombente non meriti un’ulteriore sanzione “pubblica”.
Non si deve trascurare, poi, che il
carattere facoltativo della condanna di cui all’articolo
26, a fronte della doverosità delle sanzioni, potrebbe
finire per orientare molto pragmaticamente, la decisione
del giudice amministrativo, ai fini di un dosaggio
congruo delle conseguenze patrimoniali derivanti, nel
loro complesso, dalla soccombenza.
E così, in relazione a vicende di
poco spessore, ma decise sulla base di “ragioni
evidenti”, il giudice potrebbe limitarsi
all’applicazione della sanzione pecuniaria. Viceversa,
in relazione a situazioni più rilevanti sul piano
sociale ed economico, la “punizione” a carico della
parte soccombente potrebbe essere congruamente
inasprita, mediante la condanna equitativa al pagamento
di una somma ulteriore in favore dell’altra.
Si deve notare, tuttavia, che, in
questo modo, la pur comprensibile esigenza di non
vessare in modo illogico e sproporzionato la parte
soccombente si tradurrebbe, alla fine, in un sacrificio
(parziale) del diritto della parte vittoriosa ad
ottenere la prevista riparazione pecuniaria.
Pertanto, l’uso “correttivo” del
potere di condanna previsto dall’articolo 26, comma 2,
deve essere utilizzato con molta parsimonia e,
certamente, è del tutto fuori luogo quando l’interessato
abbia formulato una domanda di applicazione della norma.
Pur con queste precisazioni,
tuttavia, si deve ritenere, molto più realisticamente,
invece, le due norme, nella generalità dei casi, siano
destinate ad operare congiuntamente, e in via
cumulativa: accertata la sussistenza dei presupposti
indicati (decisione incentrata su ragioni evidenti o su
principi giurisprudenziali assodati), la parte
soccombente sarà condannata, contestualmente:
a) al pagamento di una somma in
favore della controparte;
b) al pagamento di una sanzione
pecuniaria, versata all’erario.
14. Il cumulo tra la
sanzione pecuniaria e la responsabilità aggravata: il
preteso carattere plurioffensivo dell’abuso di processo.
Un esito così severo, per quanto
parzialmente temperabile dalla “saggezza” applicativa
del giudice amministrativo, risulta sproporzionato
rispetto alle finalità perseguite.
Solo con qualche sforzo
ricostruttivo, la spiegazione logica di questo cumulo
pieno deriverebbe da alcune premesse di ordine
sistematico.
a) Il
pregiudizio subito dalla parte vincitrice in giudizio si
collega al rapporto giuridico sostanziale dedotto in
giudizio, mentre la sanzione presuppone il vulnus
inferto all’apparato pubblico della giustizia
amministrativa; in altri termini, l’abuso di processo
integra una condotta naturalmente “plurioffensiva”, la
quale, pertanto, richiede una doppia reazione
dell’ordinamento.
b) Non a
caso, del resto, gli stessi criteri di quantificazione
previsti dalle due disposizioni risultano notevolmente
diversi. L’uno è ampiamente equitativo (art. 26, comma
2), l’altro è parametrato al contributo unificato,
moltiplicato per un coefficiente variabile tra il doppio
e il quintuplo (art. 246-bis).
c) La
condanna prevista dall’articolo 96, comma terzo, e
dall’articolo 21, comma 2, è sempre facoltativa (almeno
nei casi in cui manchi la domanda di parte), mentre
l’applicazione della sanzione è, senza eccezione,
obbligatoria, una volta riscontrati i presupposti
normativi, ferma restando la larga discrezionalità
valutativa riconosciuta, in punto di fatto, al giudice.
d) La
sanzione può operare, senz’altro, anche nel caso di
mancata costituzione in giudizio dell’altra parte,
mentre la responsabilità aggravata di cui all’articolo
26, comma 2, sembra presupporre sempre la presenza nel
processo (ancorché, come si è detto, ciò non sia
stabilito espressamente e, anzi, la più recente
giurisprudenza ordinaria, che indica tra le voci
risarcibili anche quelle legate al disagio psichico
conseguente alla pendenza del giudizio, potrebbe
condurre ad una opposta soluzione).
Pur tenendo conto di questi
rilievi, tuttavia, resta evidente che, in concreto, la
previsione dell’articolo 246-bis è destinata, in ultima
analisi, a duplicare le pesanti conseguenze patrimoniali
già previste per i casi di responsabilità contemplati
dal codice di procedura civile e dal codice del
processo.
15. L’ambito oggettivo di
applicazione della disciplina. Le controversie in
materia di contratti pubblici: incertezze e dubbi di
ragionevolezza.
Anche al di là dei dubbi di fondo
sulla impostazione generale della norma e sulla sua
ratio, vi sono, comunque, diversi problemi
interpretativi.
Anzitutto, non risulta del tutto
chiaro l’esatto ambito oggettivo di applicazione della
norma.
Questo sembrerebbe coincidere, in
linea di massima, con le controversie di cui
all’articolo 120 del codice. Tuttavia, la formula
linguistica utilizzata potrebbe anche essere intesa in
senso più ampio, comprendendo tutte le controversie che
riguardano contratti pubblici di lavori, servizi o
forniture (anche se non soggette al rito speciale di cui
all’articolo 120).
Si è anche prospettato il dubbio
che la norma, per la sua portata generale, potrebbe
comprendere anche le controversie, riguardanti la fase
di esecuzione dei contratti pubblici, devolute alla
cognizione del giudice ordinario. Tuttavia, il
riferimento al codice del processo amministrativo
contenuto nel secondo periodo dell’articolo rende
scarsamente credibile questa opzione ermeneutica.
La tesi, peraltro, pone in luce una
grave incongruenza della norma, destinata ad operare
solo nel processo amministrativo. È noto, infatti, che,
in base all’analisi compiuta dall’AVCP sul contenzioso e
sui suoi effetti, il rallentamento o la stasi delle
opere pubbliche si verificano, sempre più spesso,
proprio in dipendenza di controversie riguardanti la
fase esecutiva del rapporto contrattuale, affidate alla
cognizione del giudice ordinario o degli arbitri. E,
forse, il problema dell’abuso di ricorso è più urgente
in tale ambito, piuttosto che in quello del processo
amministrativo.
In ogni caso, risulta difficilmente
giustificabile, sotto diversi profili, la previsione
dell’ambito oggettivo circoscritto alle sole
controversie in materia di contratti pubblici, di cui
all’articolo 120, anche in relazione alle stesse
finalità prese di mira dal legislatore del 2011.
Il perimetro disegnato dal
legislatore risulta, per un certo aspetto troppo ampio,
mentre, per l’altro, appare troppo stretto.
Infatti, stando alla lettera della
disposizione, nel suo ambito rientrano tutte le
controversie in tema di contratti, a prescindere dal
loro valore. Non ne fanno parte, invece, le controversie
in materia espropriativa, ancorché collegate alla
realizzazione di opere pubbliche. Tale dimenticanza
colpisce, poiché, non di rado, i fenomeni di ricorsi
“strumentali” o dilatori sono stati individuati proprio
in relazione alle controversie sugli atti “a monte”
della procedura di selezione del contraente e
riguardanti la localizzazione degli interventi
infrastrutturali.
Parimenti, il rigido collegamento
con il contributo unificato determina palesi
incongruenze, o, comunque, forti iniquità del disegno,
dal momento che le sanzioni restano del tutto sganciate
dalla effettiva rilevanza economica della controversia,
pur tenendo conto dei margini di manovra tra il minimo e
massimo edittali, ai fini della quantificazione concreta
della sanzione.
16. Lo spazio temporale
di applicazione della norma e il diritto transitorio: il
principio tempus regit actus e l’inapplicabilità ai
giudizi pendenti.
Ancora, la struttura tipicamente
sanzionatoria della previsione induce a ritenere che
debba valere il principio tempus regit actus per
definire il regime di diritto intertemporale, in
relazione all’an e al quantum della sanzione stessa.
In linea di massima, deve
escludersi il carattere retroattivo delle sanzioni, le
quali, pertanto dovrebbero applicarsi solo ai giudizi
proposti dopo l’entrata in vigore della norma (e si
dovrà chiarire se debba farsi riferimento alla notifica
del ricorso, come sembra preferibile, o al suo
deposito).
Tuttavia, va notato che né
l’articolo 246-bis, né l’articolo 21, comma 2,
definiscono l’ambito temporale di operatività delle
nuove norme.
Potrebbe essere coerente (oltre che
equo) applicare, allora, la regola fissata dalla legge
n. 69/2009, in forza delle quali le nuove norme
introdotte nel codice di procedura civile (compreso
l’articolo 96, comma terzo) si applicano solo ai giudizi
introdotti, in primo grado, dopo la sua entrata in
vigore.
Non sembra condivisibile, invece,
la tesi secondo cui l’abuso di processo integrerebbe un
illecito permanente, sicché andrebbero severamente
colpite anche le condotte di chi non abbia adeguato il
proprio atteggiamento processuale alla nuova normativa
sanzionatoria.
Con riferimento al quantum delle
sanzioni, poi, dovrà considerarsi l’ulteriore duplice
complicazione derivante dalla circostanza che, in sede
di conversione, il massimo della sanzione è stato
elevato al quintuplo del contributo unificato e che,
successivamente, quest’ultimo è stato portato da duemila
a quattromila.
L’inasprimento delle sanzioni,
allora, dovrebbe essere applicato soltanto nei giudizi
introdotti dopo l’entrata in vigore delle relative
norme.
17. Gli ulteriori
problemi interpretativi. La commisurazione della
sanzione, il parametro del contributo unificato e il
concetto di “soccombenza”.
In concreto, la norma introduce una
vera e propria nuova “sanzione”, il cui ammontare è
commisurato al contributo unificato (moltiplicato da 2 a
5 volte).
Ancorché il rinvio al parametro del
contributo unificato possa risultare, almeno in prima
battuta, univoco, restano molti i problemi applicativi
proposti dalla norma, in relazione al preciso calcolo
della sanzione che deve essere irrogata alla parte.
Non è chiaro, intanto, se possa o
debba applicarsi la sanzione (ed eventualmente come vada
esattamente commisurata) nel caso in cui siano stati
proposti molteplici motivi di censura o plurimi mezzi di
difesa, alcuni dei quali soltanto risultino poi,
all’esito del giudizio, privi di fondamento “per ragioni
evidenti”.
Secondo un possibile lettura
“severa”, se lo scopo della norma è quello di
scoraggiare, comunque, l’abuso di processo, la sanzione
sembrerebbe giustificata, a stretto rigore, anche nel
caso in cui il ricorso, pur contenendo alcune tesi
“opinabili” sia stato appesantito anche da motivi, o da
difese, assolutamente inconsistenti, ma il cui esame e
valutazione siano stati comunque necessari. In sostanza,
la temerarietà andrebbe riferita alle singole questioni
prospettate dalle parti.
È evidente, però, che si debba
optare per una opposta soluzione semplificatrice, e meno
inflessibile, che tenga conto del solo esito finale
della lite, per individuare la parte soccombente, e che
eviti di moltiplicare la sanzione per il numero delle
questioni decise sfavorevolmente (ancorché, per ipotesi,
tutte).
Non si può trascurare, comunque,
che, in questo modo, l’aleatorietà dell’accertamento
della lite temeraria diventa molto accentuata. Spetterà
al giudice stabilire il peso specifico di argomenti
palesemente privi di pregio e di motivi infondati, ma
non irragionevoli, per decidere, in concreto, sulla
temerarietà della lite.
È preconizzabile, peraltro, che,
per impedire la configurabilità della lite temeraria,
sia sufficiente la proposizione di una sola tesi
“credibile”, sebbene accompagnata da altri argomenti
radicalmente inconsistenti.
Un diverso problema, connesso a
quello appena illustrato, riguarda la commisurazione
delle sanzioni nel caso in cui siano stati proposti
motivi aggiunti, contenenti domande nuove. In tale
eventualità, la parte è tenuta a versare un ulteriore
contributo unificato. Va osservato che, in concreto,
l’eventualità dei motivi aggiunti con domanda nuova è
molto frequente: si pensi al caso della impugnazione
della determinazione che respinge la richiesta di
autotutela formulata con l’informativa preventiva
dell’intento di proporre ricorso.
In tali eventualità, per
determinare la sanzione, si deve considerare il
contributo unificato complessivamente dovuto dalla parte
o solo quello per il ricorso introduttivo?
La soluzione più semplice sembra
essere quella secondo cui, considerando l’unitarietà del
giudizio, la sanzione vada sempre commisurata al solo
contributo unificato previsto per il ricorso
introduttivo.
E ciò sia per impedire una crescita
geometrica delle sanzioni, sia per evitare la palese
ingiustizia derivante dalla circostanza che se la parte
ha proposto cumulativamente più domande con lo stesso
ricorso introduttivo, il contributo unificato resterebbe
fissato in euro quattromila.
Più macchinosa, ancorché non del
tutto implausibile, potrebbe essere, tuttavia,
l’opinione in forza della quale, la sanzione andrebbe
applicata, separatamente, in relazione a ciascuna delle
domande proposte, tenendo conto delle ragioni della
soccombenza indicate dal giudice per ciascuna di esse.
18. Il presupposto
soggettivo di applicabilità della sanzione.
l’accertamento necessario della colpa concreta della
parte soccombente. Un’ipotesi di responsabilità
oggettiva per il caso di decisione fondata su
orientamenti giurisprudenziali consolidati?
Poco chiaro, poi, è il coefficiente
soggettivo di imputabilità della responsabilità
richiesto dalla norma. I problemi posti dall’articolo
96, comma terzo, del cpc e dall’articolo 26 del codice
del processo amministrativo sono, in questo caso
accentuati.
La correzione “equitativa”
operabile nell’applicazione dell’articolo 26, in questo
caso diventa molto più difficile, poiché l’applicazione
della sanzione è stabilita come doverosa e non
facoltativa.
Emerge, in particolare, il problema
della “automatica” sanzionabilità delle condotte
processuali volte a sostenere tesi contrastanti con la
giurisprudenza consolidata.
È inevitabile pervenire ad un
temperamento interpretativo che valorizzi la diligenza
“argomentativa” della parte: un ricorso che,
onestamente, chieda, con ragionamenti nuovi, di rivedere
un indirizzo o di puntualizzarne alcuni aspetti della
giurisprudenza consolidata, ovviamente, non potrebbe
essere sanzionato.
Ma è innegabile l’effetto
dissuasivo che conserva la norma, diretta senz’altro a
scoraggiare “fughe in avanti” verso tesi innovative.
Non si deve dimenticare che anche
clamorosi revirements della giurisprudenza sono avvenuti
attraverso un puro e semplice capovolgimento delle
precedenti tesi interpretative, oppure non sono dipesi
dalle argomentazioni nuove prospettate dalle parti.
È certo, comunque, che il codice
del processo amministrativo intende valorizzare,
nell’interesse generale, il principio della unità
interpretativa del diritto, esaltando, fra l’altro, la
funzione nomofilattica della Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato.
Questo rafforzamento della unità
della giustizia opera essenzialmente come previsione di
una serie di regole di comportamento imposte allo stesso
giudice: si pensi al vincolo determinato del principio
espresso dall’Adunanza Plenaria, che può essere superato
solo provocando una diversa decisione dello stesso
organo.
Ma non sembra affatto necessario,
né opportuno, corredare questo insieme di regole con
obblighi e sanzioni imposti alle parti del giudizio, se
non nei limiti in cui le condotte processuali abbiano
effettivamente determinato un pregiudizio alle
controparti.
19. Il procedimento di
irrogazione delle sanzioni: il silenzio del legislatore.
La norma non detta alcuna regola
particolare in ordine al procedimento di irrogazione
delle sanzioni. La stessa lacuna, peraltro, si riscontra
con riguardo alla condanna di ufficio di cui all’art.
246-bis.
Si ripropongono, in questa parte,
molti dei dubbi emersi con riguardo al tema delle
sanzioni alternative alla inefficacia del contratto, di
cui all’art. 123 del codice del processo amministrativo.
In tale ambito, si precisa che
l’irrogazione delle sanzioni deve essere comunque
ispirata al principio di tutela del contraddittorio,
richiamando espressamente la previsione dell’articolo 73
del codice, allo scopo di assicurare il contraddittorio
tra le parti e l’esercizio del diritto di difesa.
La nuova disciplina non compie tale
esplicito riferimento, ma è ragionevole ritenere che la
previsione dell’articolo 73 dovrà trovare comunque
applicazione, trattandosi di regola generale del
processo.
Si prospettano, poi, i dubbi
riguardanti l’impugnabilità della decisione che applica
la sanzione.
Nel caso in cui il Tar abbia
ritenuto di non disporre alcuna sanzione, non è
prospettabile una impugnazione specifica, poiché nessuna
delle parti sarebbe a ciò legittimata, per evidente
carenza di interesse.
Ovviamente, nel giudizio di
appello, il Consiglio di Stato ben potrà stabilire se
irrogare la sanzione, ma solo in relazione a tale fase
del giudizio, senza poter considerare la fase di primo
grado. Ciò risponde ad elementari esigenze di tutela del
principio di difesa, ma comporta, anche, una forte
limitazione della reale efficacia dissuasiva delle norme
sanzionatorie.
Nell’eventualità in cui, invece, il
TAR abbia applicato la sanzione, il relativo capo della
sentenza sarà impugnabile dalla parte interessata e il
relativo giudizio si svolgerà secondo le regole del
relativo processo di appello.
Nel caso, invece, in cui le
sanzioni siano applicate per la prima volta in grado di
appello l’ordinamento non prevede alcuno strumento di
tutela per la parte.
La lacuna è piuttosto evidente e
non è agevole superarla in via interpretativa.
Infatti, l’analogo problema
prospettato con riferimento alla applicazione delle
sanzioni alternative all’inefficacia del contratto da
parte del Consiglio di Stato potrebbe essere risolto
osservando che il giudice di appello definisce,
comunque, nella sua interezza, una vicenda che è passata
al vaglio di due giudici, richiamando il consolidato
principio secondo cui il doppio grado di giudizio non
richiede necessariamente che tutte le questioni possano
subire un duplice giudizio.
In questo caso, però, la situazione
è diversa. Si pensi, per esempio, al caso di un appello
ritenuto palesemente tardivo, senza alcuna
giustificazione in fatto o in diritto. La sanzione
inevitabilmente applicata all’appellante soccombente non
sarebbe in alcun modo contestabile dalla parte che
invochi, al contrario, l’assenza di un indirizzo
giurisprudenziale consolidato in materia.
20. Il correttivo al
codice del processo: l’eliminazione della speciale
responsabilità aggravata; la generalizzazione della
sanzione per lite temeraria e il sospetto di un eccesso
di delega.
Lo schema di decreto correttivo al
codice interviene ulteriormente (per la quarta volta, in
due anni!) sul tema dall’abuso di ricorso, confermando
la convinzione che la materia soffre di evidente
instabilità.
Sotto il profilo formale, si
preferisce, intanto, spostare la norma in materia di
lite temeraria all’interno del codice del processo, con
la conseguente abrogazione dell’articolo 246-bis.
Ciò dipende, peraltro, dalla scelta
di ridisegnarne l’ambito applicativo e di delineare
meglio la regolamentazione della responsabilità
aggravata nei rapporti intercorrenti tra le parti del
giudizio.
Resta, però, l’impressione che, in
questo modo, il codice si sia “contaminato” con una
regola che risulta molto lontana dai suoi capisaldi
essenziali.
La correzione, che non viene in
alcun modo spiegata nella relazione illustrativa di
accompagnamento, ma solo parafrasata, è piuttosto
significativa.
In particolare, l’intero comma 2
dell’articolo 26 viene sostituito con una nuova
disposizione che riproduce pedissequamente il contenuto
dell’articolo 246-bis, esteso, però, all’intero ambito
della giustizia amministrativa e non più circoscritto al
solo settore dei contratti pubblici.
In questo modo, si intende
superare, in primo luogo, il problema della inevitabile
duplicazione delle conseguenze sanzionatorie, collegate
alla circostanza che la decisione si basi su ragioni
evidenti o su indirizzi consolidati della
giurisprudenza.
Secondo il correttivo, in tale
eventualità, non vi è più la possibilità di condannare
la parte al pagamento di una somma di denaro in favore
dell’altra, ai sensi dell’articolo 26, comma 2.
La scelta compiuta sembra muovere
dall’idea secondo cui l’abuso di ricorso non è più una
condotta plurioffensiva, ma un illecito monoffensivo.
Così, il cumulo viene eliminato, ma
in danno della parte vittoriosa e a vantaggio del
soggetto percettore delle sanzioni pubbliche.
Tuttavia, il rischio del cumulo, a
ben vedere, è soltanto in minima parte attenuato, ma
resta intatto nella sua parte più consistente.
Infatti, l’articolo 26, comma 1,
conserva il richiamo all’intero articolo 96 del cpc
(compreso il terzo comma): ne deriva che la stessa
condotta serbata dalle parti può determinare la
sottoposizione alla condanna di ufficio ai sensi del cpc
e l’applicazione delle sanzioni di cui all’articolo 26
comma 2.
A prima vista, sembra, invece,
meritevole di maggiore apprezzamento la scelta di
estendere le sanzioni per lite temeraria a tutto il
processo amministrativo, senza limitarle più alla sola
materia del contenzioso sui contratti pubblici,
eliminando una specificità che risulta scarsamente
comprensibile.
Tuttavia, in questo modo, si
prospetta un nuovo problema di fondo, mentre restano
aperti gli altri dubbi di ragionevolezza della
previsione.
a)
Infatti, non pare compatibile con i limiti della delega
l’estensione di un trattamento sanzionatorio
circoscritto, in origine, al solo campo dei contratti;
in altri termini, la possibile violazione dei principi
costituzionali di eguaglianza e di ragionevolezza,
derivante dalla previsione, introdotta dal Decreto
Sviluppo, di un trattamento sanzionatorio limitato solo
a determinati ambiti, rischia di essere corretta con una
– probabile – ulteriore illegittimità per eccesso di
delega.
b) La
circostanza che le sanzioni siano ora estese a tutto il
processo amministrativo lascia intatta una incongruenza
di maggiore spessore: infatti, risulta difficile
spiegare perché solo nel giudizio dinanzi ai TAR e al
Consiglio di Stato si ponga l’esigenza di sanzionare la
lite temeraria. Si tratta di un tema comune a tutte le
esperienze processuali, che richiede una disciplina
coerente e unitaria anche dinanzi agli altri giudici.
21. Conclusioni: la
scarsa utilità dell’istituto della sanzione per lite
temeraria.
In questa prospettiva, allora, sono
troppi i dubbi sulla reale utilità del nuovo istituto
sanzionatorio per lite temeraria, tanto nella sua
attuale formulazione contenuta nell’articolo 246-bis,
quanto in quella prefigurata dal correttivo al codice.
Probabilmente la normativa in tema
di responsabilità aggravata di cui all’articolo 96 del
cpc, risulta, allo stato, più che sufficiente per
realizzare un efficace contrasto all’abuso di processo.
Non sembra affatto necessario
introdurre una disciplina speciale limitata al processo
amministrativo.
Ancor meno giustificata è una
regola incentrata sull’applicazione di una sanzione
obbligatoriamente posta a carico della parte
soccombente.
Proprio l’ampia flessibilità dei
poteri del giudice e il carattere equitativo del
procedimento di determinazione della sanzione disegnati
dall’articolo 96, comma terzo, permettono di adeguare la
responsabilità della parte soccombente a tutte le
circostanze del caso concreto, senza alcuna necessità di
aggiungere anche una nuova sanzione meramente punitiva e
non riparatoria.
A margine di queste considerazioni
si deve anche osservare che la nuova previsione di una
sanzione “pubblica” a carico delle parti che agiscono o
resistono in giudizio (anche prescindendo dalla
destinazione dei proventi) radicalizza un dibattito
delicato e complesso, che dovrebbe essere affrontato in
modo più sereno e approfondito. Infatti, ci si potrebbe
chiedere se sia opportuno che la traduzione in termini
di sanzioni economiche per le violazioni deontologiche
in ambito processuale debba operare unilateralmente,
solo in danno delle parti, per il pregiudizio arrecato
all’apparato della giustizia amministrativa.
In questa logica, infatti, sarebbe
logico aspettarsi anche uno speculare inasprimento delle
“sanzioni” inflitte all’appartato della giustizia
statale (o quanto meno delle conseguenze patrimoniali
sfavorevoli) in dipendenza dei danni subiti dalle parti,
per esempio in caso di ritardata decisione o di pronunce
in contrasto, anche esse, con ragioni evidenti od
orientamenti consolidati.
[1] Articolo 4 del decreto legge 13
maggio 2011, n. 70, Semestre Europeo - Prime
disposizioni urgenti per l'economia, convertito in
legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della
legge 12 luglio 2011, n. 106.
[2] Articolo 37, concernente
“Disposizioni per l'efficienza del sistema giudiziario e
la celere definizione delle controversie”, del decreto
legge 6 luglio 2011 n. 98 (Disposizioni urgenti per la
stabilizzazione finanziaria), convertito in legge, con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 15
luglio 2011, n. 111.
[3] Si deve aggiungere che già nel
2006, era stata introdotta una specialissima norma,
limitata al giudizio di Cassazione: articolo 385, comma
quarto del codice di procedura civile, secondo cui
“Quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di
cui all'articolo 375, la Corte, anche d'ufficio,
condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a
favore della controparte, di una somma, equitativamente
determinata, non superiore al doppio dei massimi
tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o
vi ha resistito anche solo con colpa grave” (Comma
aggiunto dall'art. 13, D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e
poi abrogato dal comma 20 dell’art. 46, L. 18 giugno
2009, n. 69, con i limiti di applicabilità previsti
dalle disposizioni transitorie di cui all’art. 58 della
stessa legge.)
[4] Articolo 4, comma 2, lettera
ii), del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70, nel testo
integrato dalla relativa legge di conversione 12 luglio
2011, n. 106. |