Ernesto
Capobianco-Diritto e processo.it
Ordinario di Istituzioni di diritto privato
nell’Università del Salento
(Estratto da Diritto e Processo formazione n.4/2011)
Sommario: 1. Il superamento dell’idea della priorità
della giurisidizione e i meccanismi alternativi di
risoluzione delle controversie. 2. I vantaggi della
mediazione. 3. La c.d. mediazione ‹‹aggiudicativa›› o
‹‹valutativa›› e il preteso differente ruolo del
mediatore nella mediazione ‹‹facilitativa››. 4. Rilievi
critici e conseguenze in ordine alla determinazione dei
criteri per la formulazione della proposta.
1. – È
un segno della stagione relativamente recente quello del
progressivo superamento dell’idea della priorità della
giurisdizione ([1]). E non s’intende certo con questa
affermazione avallare l’opinione di chi, come le
cronache di questi giorni evidenziano, punta a
delegittimare il ruolo del potere giudiziario, quanto
segnalare come invece, nell’ottica di un complessivo
rafforzamento del sistema ‹‹giustizia›› nella sua
globalità ([2]), rivelino la loro utilità meccanismi
alternativi che, pur non impegnando i giudici,
consentano di dare una risposta all’esigenza, per i
cittadini, le imprese e le pubbliche amministrazioni, di
veder risolte le controversie che li riguardino. In
questa direzione si collocano gli ormai numerosi
meccanismi di soluzione conciliativa delle controversie
previsti nel nostro ordinamento che, sulla scia di un
trend internazionale e comunitario ormai cospicuo,
mostrano una decisa linea di tendenza orientata a
decisamente favorirli ([3]).
Per un
osservatore delle ‹‹novità›› in ambito civilistico è
infatti facile la constatazione, suscettibile del
beneficio dell’approssimazione, che negli ultimi tempi
non vi è legge nuova che non sia stata accompagnata da
norme che puntino a sottrarre al giudice, almeno in
prima battuta e sebbene con differenti e variegati
meccanismi, caratterizzati da diversa incisività, la
cognizione della controversia. Gli ambiti sono i più
vari. Tra questi possono essere ricordati, i settori dei
servizi di pubblica utilità, delle telecomunicazioni,
della subfornitura, del turismo, del diritto d’autore,
dei rapporti bancari, dei servizi d’investimento,
dell’affiliazione commerciale, del patto di famiglia,
dei rapporti di lavoro (sui quali, come è noto, si è di
recente registrato un ripensamento legislativo in ordine
all’obbligatorietà) e dei rapporti di consumo.
Nella
stessa direzione si colloca oggi l’intervento normativo
generale in materia di ‹‹mediazione finalizzata alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali››
(d.lg. 4 marzo 2010, n. 28) che, sebbene oggetto di
aspre critiche e severe valutazioni, probabilmente non
avrebbe dovuto ritenersi, per chi avesse più
oculatamente prestato attenzione all’evoluzione
normativa in atto, un provvedimento ‹‹sorpresa››.
Si
conferma così l’orientamento legislativo che punta a
preferire la soluzione concordata dalle parti a
soluzioni eteronome imposte da un terzo, giudice o
arbitro che sia ([4]). Prevale quindi l’idea del ricorso
al diritto ‹‹mite›› e ciò anche a fronte della
constatazione della possibilità che l’applicazione della
legge, cui il giudice è soggetto ai sensi dell’art. 101
cost., possa in concreto in taluni casi tradursi in una
sostanziale ingiustizia ([5]). Nella quale confluisce
certamente anche il caso della eccessiva durata dei
processi che rappresenta ormai una costante del nostro
sistema.
2. – Il
carattere mite dell’intervento, nel suo tratto comune
che si evince sia dal testo della direttiva comunitaria
2008/52/CE del 21 maggio 2008, sia dalla legge delega 18
giugno 2009, n. 69 (art. 60), sia dall’art. lett. a),
d.lg. n. 28 del 2010, individua finalisticamente la
mediazione come un procedimento comunque denominato,
finalizzato ad assistere due o più soggetti nella
ricerca di un accordo amichevole per la composizione di
una controversia.
Tra i
vantaggi che un siffatto sistema di risoluzione della
controversie presenta, rispetto ad altri, è ormai
consueto segnalare la sua attitudine ad una possibile
maggiore ampiezza di contenuti rispetto alle soluzioni
eteronome. Quest’ultime sono infatti presidiate dal
vincolo della corrispondenza tra il chiesto e il
pronunciato, mentre le prime, in considerazione della
circostanza che la risoluzione consensuale della
controversia proviene da soggetti muniti del potere di
disporre delle proprie situazioni sostanziali,
consentono che in sede conciliativa costoro possano
disporre non solo di quelle situazioni, ma anche di
altre situazioni sostanziali, estranee alla
controversia, magari neanche lontanamente immaginate
all’inizio della contesa ([6]). La mediazione appare
quindi come strumento preferibile in virtù della sua
‹‹maggiore duttilità rispetto ai reali interessi delle
parti›› e della sua conseguente ‹‹maggiore accettabilità
sociale›› ([7]).
In
questa prospettiva il ruolo del mediatore appare
significativo. La sua professionalità risiederà nella
capacità di acquisire, in ispecie nelle sessioni
separate, quelle informazioni che, opportunamente
utilizzate gli consentiranno una efficace messa a fuoco,
in prospettiva dinamica, degli interessi attuali delle
parti, talvolta differenti da quelli propri del momento
in cui la lite è insorta, normalmente cristallizzati,
invece, nella visione statica del processo
tradizionalmente inteso ([8]). Il contenuto dell’atto
risolutivo della controversia potrà, in tal caso e a
differenza di quanto accade quando esso sia di natura
eteronoma, essere caratterizzato da una certa atipicità
potendo investire diritti diversi da quello in
contestazione ([9]). E il mediatore potrà quindi essere
artefice di soluzioni nuove e creative, che stanno ad
attestare la ‹‹superiorità›› della risoluzione autonoma
rispetto a quella eteronoma ([10]).
3. – Le
affermazioni in discorso solitamente ‹‹reggono›› nella
prospettiva della mediazione c.d. facilitativa, quella
cioè corrispondente a quanto disposto alla prima parte
dell’ art. 1, lett. a), d.lg. n. 28 del 2010, che
riguarda la mediazione ‹‹finalizzata ad assistere due o
più soggetti … nella ricerca di un accordo per la
composizione di una controversia››. È dubbio se valgano
per la mediazione solitamente definita ‹‹aggiudicativa››
o ‹‹valutativa››, prevista nell’inciso finale della
stessa disposizione, che invece si risolve ‹‹nella
formulazione di una proposta per la risoluzione della
stessa››.
Va, al
riguardo, subito osservato che l’ultimo inciso della
proposizione, più che guardare, in prospettiva
finalistica alla formulazione della proposta, come il
cattivo tenore letterale della norma sembrerebbe
suggerire, guarda alla proposta come mero strumento per
la realizzazione di un obiettivo. Si vuol dire che la
formulazione della proposta non è attività fine a sé
stessa ma è ‹‹parte›› (eventuale) dello ‹‹svolgimento
della mediazione›› a seguito della quale si realizza il
risultato della composizione della controversia
(conciliazione) [art. 1, lett. c), d.lg. cit.].
L’adesione alla proposta del mediatore è, quindi,
anch’essa configurata come elemento di un ‹‹accordo››
conciliativo (art. 11, comma 3, d.lg. cit.).
Facilitativa o aggiudicativa che sia, la mediazione, in
prospettiva, guarda al momento conclusivo dell’accordo
conciliativo; ad essa è estranea qualsiasi tentazione
dell’eteronomia. L’accordo eventualmente concluso su
proposta aggiudicativa del mediatore resta quindi atto
di autonomia alla stessa stregua di un qualsiasi
contratto predisposto da un terzo e sottoscritto dalle
parti o il cui oggetto viene determinato per intervento
di un arbitratore (art. 1349 c.c.).
Come è
noto la disciplina generale sulla mediazione consente al
mediatore di formulare una proposta in caso di mancato
raggiungimento dell’accordo amichevole. Lo obbliga,
invece, nel caso di richiesta congiunta delle parti
(art. 11, comma 1. d.l.g. cit.) ([11]). È possibile,
inoltre, che la proposta del mediatore possa essere
anche ‹‹contumaciale›› ([12]). Il d.lg n. 28 non lo
esclude ([13]) e l’art. 7, comma 2, lett. b) del
regolamento attuativo approvato con d.m. 18 ottobre
2010, n. 180, facoltizza gli organismi di mediazione a
prevedere che la proposta possa essere formulata dal
mediatore ‹‹anche in caso di mancata partecipazione di
una o più parti al procedimento di mediazione››.
In caso
di mancata accettazione, di rifiuto, o di semplice
silenzio sulla proposta, il mediatore forma processo
verbale con l’indicazione della proposta (art. 11, commi
3 e 4, d.lg. n. 28 del 2010). Intrapreso quindi il
giudizio, la proposta del mediatore sarà in questo caso
prodotta dalla parte interessata o acquisita dal giudice
per il tramite del responsabile dell’organismo (art. 8,
comma 3, d.m. 180 del 2010). Quando il provvedimento che
definisce il giudizio ‹‹corrisponde interamente al
contenuto della proposta, il giudice esclude la
ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice
che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo
successivo alla formulazione della stessa, e la condanna
al rimborso delle spese sostenute dalla parte
soccombente relative allo stesso periodo, nonché al
versamento all’entrata del bilancio dello Stato di
un’ulteriore somma di importo corrispondente al
contributo unificato dovuto›› (art. 13, comma 1, d.lg.
n. 28 del 2010).
Emerge,
dal contesto di queste disposizioni relative alla
proposta aggiudicativa e ai suoi effetti sul processo,
una volontà del legislatore di inserimento di elementi
‹‹in una certa misura di costrizione nella disciplina di
uno strumento di libertà›› ([14]) al deliberato scopo,
come si legge nella relazione illustrativa al decreto
legislativo, di porre la parte contraria alla proposta
al rischio di subire le severe conseguenze negative di
cui all’art. 13, realizzandosi, con una strumentazione
così congegnata, l’auspicio deflattivo della mediazione
([15]).
Nella
prospettiva di dare massima rilevanza a detto scopo da
taluno si prospetta un possibile differente modo di
atteggiarsi della proposta del mediatore. Si osserva
che, mentre nel caso della mediazione facilitativa
sarebbe irrilevante la fondatezza delle pretese – sicché
il mediatore non avrebbe vincoli di sorta nella
formulazione della stessa dovendo puntare semplicemente
ad assecondare il migliore assetto di interessi delle
parti, al di là delle pretese formalizzate – , nel caso
di mediazione aggiudicativa al mediatore sia imposto di
valutare la fondatezza delle rispettive pretese per
prendere posizione sulle stesse secondo regole di
diritto a norma dell’art. 113 c.p.c., con la ulteriore
conseguenza che la proposta dovrà vertere sul solo
rapporto dedotto in contestazione escludendo che essa
possa incidere su piani alieni rispetto a questo ([16]).
Il mediatore rivestirebbe così il ruolo di ausiliare,
sebbene in senso atecnico, dell’amministrazione della
giustizia, essendo ‹‹obbligato›› a rendere quella
proposta che, ai sensi dell’art. 13, potrà avere pesanti
conseguenze in punto di spese nell’eventuale futuro
giudizio ([17]). Obbligo che quindi non sarebbe
correttamente adempiuto ove non si potesse effettuare
una comparazione per ‹‹statuizioni›› omogenee (la
proposta del mediatore e il provvedimento che definisce
il giudizio) ([18]).
Non
mancano poi opinioni che, sempre nella prospettiva
dell’obbligo del mediatore di prendere posizione sulla
fondatezza delle ragioni giuridiche delle parti, non
escludono che nella formulazione della proposta si possa
utilizzare il criterio dell’equità ([19]), o posizioni
più blande che sembrano ritenere preferibile, o
quantomeno più adatta alla mediazione aggiudicativa, una
proposta che tenda ad ottenere l’effettiva applicazione
della norma applicabile al caso concreto ([20]).
Ulteriori opzioni interpretative, pur consapevoli del
particolare e differente ruolo del mediatore nel momento
valutativo, appaiono, di contro, meno interessate alla
corrispondenza tra la formulazione della proposta del
mediatore e l’ipotetica decisione ([21]) dovendosi
porre, diversamente, un serio problema di qualità e
giustizia dell’aggiudicazione ([22]).
4. – La
prospettiva che interpreta la disposizione dell’art. 11
del d.lg. n. 28 del 2010 relativo alla proposta del
mediatore in stretta connessione con il disposto del
successivo art. 13 sulle spese non appare convincente.
È pur
vero che la necessità di un allineamento della proposta
con una ipotetica soluzione giudiziale della vertenza è
necessaria ad assicurare il funzionamento del meccanismo
complessivo escogitato dal legislatore nella prospettiva
dell’obiettivo deflattivo del processo, sì che il
meccanismo è destinato a ‹‹saltare›› qualora il
mediatore si lanci in proposte non raffrontabili con il
provvedimento che definisce il giudizio. Ma è anche vero
che non pare questo l’obiettivo prioritario del
legislatore. Una lettura che guardi alle ragioni
profonde degli interventi normativi in materia di
mediazione e quindi anche alla sua genesi comunitaria,
sembra conduca nella direzione obbligata, attestata
espressamente dall’art. 1, lett. a), d.lg. n. 28 del
2010 e peraltro recepita anche nell’intitolazione della
legge, della finalizzazione della mediazione alla
‹‹conciliazione››. In questo senso va letto, come
innanzi precisato, anche il secondo inciso della citata
lett. a), relativo alla formulazione della proposta per
la risoluzione della controversia. Occorre cioè una
maggiore consapevolezza del fatto che la mediazione
andrebbe riguardata come qualcosa di avulso dal processo
([23]) e non come una fase di questo e che quindi essa
può e deve perseguire sue proprie finalità. La qualcosa
porta a privilegiare opzioni per soluzioni dettate da
constatazioni di intuitiva evidenza.
Si
faccia l’esempio del mediatore, il quale non sia
riuscito a conciliare le parti nella fase facilitativa e
ritenga plausibile che, in extremis, una certa soluzione
‹‹atipica›› possa essere condivisa dalle parti, mentre
sappia per certo che una soluzione ‹‹aggiudicativa››,
secondo diritto, non riscontrerà l’adesione (di una)
delle parti. In tale condizione, potrà proporre la prima
o sarà obbligato a formulare la seconda per perseguire
l’obiettivo della conformità della proposta
all’ipotetico provvedimento del giudice? La scelta è non
priva di rilevanti conseguenze. Nel primo caso la
controversia potrebbe risolversi, e subito; nel secondo
ci penserà il processo e non presto. Va quindi
privilegiato l’obiettivo del possibile raggiungimento
dell’accordo o quello, chimerico, di verificare se
risulta ‹‹azzeccato›› il pronostico per comminare una
improbabile sanzione al vincitore? Sulla preferibilità
della prima soluzione, che mira al risultato prioritario
della conciliazione, non pare lecito dubitare ([24]).
Anche perché l’eventualità di una effettiva o quantomeno
di una parziale coincidenza della proposta con il
provvedimento è meramente eventuale e il più delle volte
poco probabile ([25]).
Altri
argomenti militano nel senso della autonomia del
mediatore da vincoli che possano stringerlo a contenere
la sua proposta nei limiti dello stretto diritto e
all’ambito delle sole situazioni giuridiche dedotte
nella controversia.
Il
termine ‹‹proposta aggiudicativa››, volutamente in
questo scritto trattenuto sempre tra virgolette, è
termine fuorviante che guarda appunto a una ipotesi di
mediatore ‹‹giudice››, o ausiliario di questo ([26]). Il
mediatore non pare possa considerarsi tale, nella stessa
misura in cui non lo è, ad esempio l’arbitro per
biancosegno, che pure ‹‹decide››, con un lodo irrituale,
mediante un regolamento da scrivere su fogli
preventivamente sottoscritti in bianco, che ha efficacia
di contratto ([27]). E qui, si noti, la decisione
dell’arbitro è pure più ‹‹pesante›› di quella del
mediatore che rimane una mera proposta. Si vuol dire che
la proposta del mediatore è una proposta che resta - pur
se procedimentalizzata nell’ambito di un programma
legislativo di risoluzione di controversie - confinata
nell’ambito degli atti di autonomia privata. Essa è
destinata a sfociare in un accordo [artt. 1, lett. a) e
c), e 11 d.lg. cit.], e su di essa si può registrare
l’accettazione o il rifiuto delle parti (art. 11, commi
2 e 3, d.lg. cit.). Né può considerarsi un’ anomalia il
fatto che la proposta provenga da un terzo e non dalle
parti, trattandosi, questa, di una tecnica di
predisposizione e di formazione del contratto del tutto
in linea col sistema ([28]). Se quindi la proposta si
colloca nell’ambito degli atti di autonomia, dovrà
partecipare dei caratteri strutturali e funzionali di
questi.
Ne è
prova la specifica previsione che la proposta del
mediatore e l’accordo non possano porsi in contrasto con
le norme imperative e l’ordine pubblico [art. 14, comma
2, lett. c); art. 12, comma 1, d.lg. cit.], previsione
questa che da un lato sarebbe inutile se il mediatore
dovesse applicare il diritto, dall’altro si colloca in
assonanza coi requisiti della causa del contratto (art.
1343 c.c.) ([29]); e che dimostra, peraltro, che l’unico
esplicito richiamo a norme da non disattendere da parte
del mediatore si limita a questo; mentre laddove il
legislatore avesse voluto vincolare il mediatore ad
altre norme (ad es. all’art.113 c.p.c.), avrebbe dovuto
dirlo espressamente, come ad esempio ha fatto anche per
l’arbitrato (art. 822 c.p.c.).
Peraltro configurare per il mediatore un obbligo di
‹‹aggiudicare›› secondo diritto, significherebbe
giungere alla paradossale conclusione di spingere
quest’obbligo all’interno dei doveri di corretto
svolgimento dell’incarico (art. 3, comma 2, d.lg. n. 28
del 2010), con conseguenti problemi di eventuale
responsabilità dell’organismo (e del mediatore) che non
abbia tenuto, quale prestatore d’opera, la necessaria e
professionale diligenza nell’applicare le norme di
diritto nell’ipotesi che il pronostico formulato risulti
sconfessato dal provvedimento del giudice ([30]).
Non
solo, ma il mediatore non è necessariamente un giurista
potendo rivestire la qualità di mediatore il soggetto in
possesso di una qualsiasi laurea triennale, o l’iscritto
in qualsiasi ordine o collegio professionale [art. 4,
comma 3, lett. a), d.m. n. 180 del 2010]; sicché pare
del tutto assurdo pretendere che chi abbia poca
dimestichezza con codici e leggi possa poi (proporre di)
aggiudicare la controversia, vestendo impropriamente i
panni del giudice, senza peraltro da un lato
‹‹beneficiare›› delle corrette garanzie del
contraddittorio e della rigorosa acquisizione della
prova, dall’altro della riepilogazione, soprattutto in
diritto, delle conclusive difese delle parti che solo
nel processo può essere assicurata. In nessun punto, del
resto, la legge sembra chieda al mediatore di (per
quanto detto sommariamente) aggiudicare, ma semmai solo
di risolvere, nell’unico modo che può, e cioè provocando
l’accordo, la controversia. E l’accordo lo si riempie
con clausole e non con norme e, di regola, neppure con
l’equità.
Spetta
al mediatore quindi, indipendentemente dalla sede in cui
opera, se cioè in quella facilitativa, o in quella
propositiva, prestarsi perché le parti possano
raggiungere una soddisfacente sistemazione dei loro
interessi, senza porsi la prospettiva (o senza indulgere
nella tentazione) di distribuire ragioni e torti. Per
altro verso, deve emergere la piena consapevolezza che
solo un approccio con le dovute cautele al caso concreto
potrà suggerire la soluzione più idonea da sottoporre
alle parti. Giocheranno in tal caso una serie di
variabili delle quale non potrà certo non tenersi conto
nell’orientare il compito del mediatore. Da un lato il
tipo di controversia in esame e le sue peculiarità,
dall’altro la circostanza che la proposta sia
sollecitata dalla richiesta congiunta delle parti o
determinata dalla libera scelta del mediatore o in
qualche modo condizionata dalle scelte regolamentari
dell’organismo. Particolarmente delicata sarà, ad
esempio, la formulazione della proposta da parte del
mediatore in assenza della richiesta congiunta o, in
ipotesi di mediazione ‹‹contumaciale›› nella quale
ultima, prudenza vorrebbe, indipendentemente dalla
sussistenza del giustificato motivo di assenza dal
procedimento, che il mediatore si astenesse dalla
proposta in difetto della percezione di un qualsivoglia
elemento che possa consentire di poggiare la stessa su
solide basi. Diversamente la stessa potrebbe apparire
una forzatura estrema se non una vera e propria
aberrazione ([31]).
Il
compito è delicato e l’attenzione al caso concreto e
agli interessi in gioco dovranno guidarne lo svolgimento
secondo i criteri dell’adeguatezza e della
ragionevolezza.
([1])
Nel senso che la priorità della giurisdizione
‹‹costituisce un antico retaggio, che oggi mal si
concilia con una realtà che si fonda essenzialmente sul
principio di sussidiarietà, in base al quale
l’intervento autoritativo giurisdizionale – che resta
pur sempre possibile e costituzionalmente dovuto – deve
essere considerato come l’ultima delle chance a
disposizione, alla quale si deve ricorrere quando le
altre non riescono allo scopo›› F.P. Luiso, La
conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, p. 1201.
([2])
Si sottolinea, correttamente, che i mezzi alternativi di
risoluzione delle controversie sono essenziali anche
quando la giurisidizione statale offra un servizio di
buon livello: R. Caponi, La conciliazione stragiudiziale
come metodo di ADR (‹‹Alternative Dispute Resolution››),
in Foro it., 2003, V, c. 172; G. Canale, Il decreto
legislativo in materia di mediazione, in Riv. dir.
proc., 2010, p. 617.
([3])
Per una utile ricognizione dei riferimenti normativi
internazionali, comunitari e nazionali cfr. M. Julini,
La mediazione nelle controversie civili e commerciali,
Forlì, 2010, p. 1 ss.
([4])
Non mancano opzioni favorevoli, nella prospettiva di
maggiore efficienza del sistema giustizia, a forme di
arbitrato obbligatorio: P. Perlingieri, Arbitrato e
costituzione, Napoli, 2002, p. 39, il quale, in
posizione critica rispetto alle pronunce della Corte
Costituzionale sull’illegittimità dell’arbitrato
obbligatorio (Corte cost., 21 aprile 2000, n. 115, in
Riv. arb., 2000, p. 275 ss.; Corte Cost., 8 giugno 2005,
n. 221, in Giur. Cost., 2005, p. 1923), ritiene che la
formula non sia incompatibile con la disciplina
costituzionale potendo anche l’arbitrato strutturarsi in
maniera tale da assicurare la realizzazione dei valori
di fondo sui quali è costruito il patto costituzionale e
cioè il rispetto della persona e i diritti alla
giustizia e al giusto processo.
([5])
A. Proto Pisani, Appunti su mediazione e conciliazione,
in Foro it., 2010, V, 142. Sul diritto mite G.
Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia,
Torino 1992.
([6])
Ad es. U. Carnevali, La nuova mediazione civile, in
Contratti, 2010, 437. Detta possibilità è anche
caratteristica della transazione: in tal senso, Cass., 9
luglio 2003, n. 10794, in Dir. fam., 2004, p. 81.
([7])
In questo senso, espressamente, la relazione
illustrativa al d.lg. n. 28 del 2010, sub art. 1.
([8])
C. Vaccà, in C. Vaccà e M. Martello, La mediazione delle
controversie, Milanofiori Assago, 2010, p. 110.
([9])
F.P. Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei
diritti, cit., p. 1201.
([10])
F.P. Luiso, op. loc. cit.
([11])
Non manca chi ritiene che il mediatore, motivando, possa
astenersi dalla formulazione della proposta anche in
caso di richiesta congiunta delle parti quando non
emergano informazioni rilevanti: in questo senso A.
Santi, in C. Covata, M. Di Rocco, C. Marucci, G.
Minelli, A. Santi e P. Tarricone, La mediazione per la
composizione delle controversie civili e commerciali, a
cura di M. Bove, Padova, 2011, p. 280.
([12])
Fortemente critico in ordine a tale possibilità M.
Fabiani, Profili critici del rapporto fra mediazione e
processo, in Società, 2010, p. 1147, nota 30, il quale
osserva : ‹‹quando si tratta di giudicare si può fare a
meno della parte che non ha voluto difendersi, ma quando
si tratta di mediare non vedo come questa attività si
possa svolgere con una sola parte››.
([13])
V. l’art. 11, comma 4.
([14])
M. Bove, in C. Covata, M. Di Rocco, C. Marucci, G.
Minelli, A. Santi e P. Tarricone, La mediazione, cit.,
p. 21.
([15])
Relazione illustrativa, sub art. 11. Sul carattere
‹‹severo›› delle conseguenze, v. la medesima Relazione,
sub art. 13. Nel senso che l’art. 13 sia ‹‹rivelatore
della linea guida che regge tutto il collegamento
mediazione-processo in caso di insuccesso della prima››
v. L. Zanuttigh, Mediazione e processo civile, in
Contratti, 2011, p. 205.
([16])
F. Delfini, La mediazione per la conciliazione delle
controversie civili e il ruolo dell’avvocatura, in Riv.
dir. priv., 2010, 131 ss. Nel senso che nella sua
formula ‹‹aggiudicativa›› la mediazione implichi
l’affidamento al terzo di un ‹‹di un `giudizio' […]
sulle ragioni delle parti››, V. Cuffaro, Spontaneità
della conciliazione e obbligatorietà della mediazione,
in Corr. mer., 2011, p. 5.
([17])
F. Delfini, op. loc. cit. Nel senso che il mediatore in
tal caso debba formulare una proposta di decisione della
controversia G. Monteleone, La mediazione forzata, in
www.judicium.it. Secondo L. Boggio, in P.A. Amerio, E.M.
Appiano, L. Boggio, D. Comba, G. Saffirio, La mediazione
nelle liti civili e commerciali. Metodo e regole,
Milano, 2011, p. 281, un obbligo in tal senso potrebbe
configurarsi solo quando il mediatore sia tenuto a fare
la proposta perché richiesto dalle parti o dal
regolamento dell’organismo e non abbia potuto acquisire
elementi idonei che gli suggeriscano l’utilizzo di
criteri diversi, né alcunché sia specificato nel
regolamento o stabilito dalle parti.
([18])
F. Delfini, op. loc. cit.
([19])
M.M. Andreoni, sub art. 11, in A. Castagnola e F.
Delfini, La mediazione nelle controversie civili e
commerciali, Padova, 2010, p. 177.
([20])
L. Dittrich, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n.
28 del 4 marzo 2010, in Riv. dir. proc., 2010, p. 579.
([21])
Ad es. C. Vaccà, in C. Vaccà e M. Martello, La
mediazione delle controversie, cit., 110; M. Fabiani,
Profili critici del rapporto tra mediazione e processo,
cit. 1148.
([22])
F. Cuomo Ulloa, Lo schema di decreto legislativo in
materia di mediazione e conciliazione, in Contratti,
2010, p. 212.
([23])
Prezioso in tal senso il suggerimento di M. Fabiani,
Profili critici del rapporto tra mediazione e processo,
cit., 1143.
([24])
Sulla essenziale rilevanza della qualità della proposta,
nella prospettiva della sua idoneità a riavviare il
dialogo interrottosi tra le parti, ad onta delle
tendenza a ridurla ad una ‹‹mini sentenza››, C. Vaccà,
in C. Vaccà e M. Martello, La mediazione delle
controversie, cit., p. 111.
([25])
La constatazione è abbastanza diffusa. Ad es. U.
Carnevali, La nuova mediazione civile, cit., p. 437.
([26])
F. Delfini, La mediazione, cit., p. 131.
([27])
Cass., 6 febbraio 1987, n. 1209, in Arch. civ., 1987, p.
489.
([28])
Sul punto sia consentito il rinvio a E. Capobianco, Il
contratto. Dal testo alla regola, Milano, 2006, p. 56
ss.
([29])
Il riferimento frettoloso del legislatore alle norme
imperative e all’ordine pubblico trascura invece quello
al buon costume e alla meritevolezza di cui all’art
1322, comma 2, c.c. che ad ogni buon conto debbono
ritenersi implicitamente inclusi nel richiamo, salvo a
voler – diversamente opinando – consentire che con la
mediazione si possano realizzare accordi che per diversa
via sarebbero vietati.
([30])
Sicché l’esercente attività di mediazione professionale
dovrebbe considerarsi, nella prospettiva qui criticata,
alla stregua di un professionista incaricato della
formulazione di un parere pro veritate, col conseguente
rigore che in tal caso la giurisprudenza ricollega
all’eventuale inadempienza, giungendo a configurare una
obbligazione pressoché di risultato: così Cass., 14
novembre 2002, n. 16023, in Danno resp., 2003, p. 256,
con nota di A. Fabrizio-Salvatore, L’avvocato e la
responsabilità da parere.
([31])
In questi termini A. Santi, in C. Covata, M. Di Rocco,
C. Marucci, G. Minelli, A. Santi e P. Tarricone, La
mediazione, cit., p. 282.
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