L’annuale Rapporto Istat sulla
situazione del paese 2010, diffuso lo scorso lunedì 23
maggio, obbliga, ancora una volta, a confrontarci con
l’entità ed il peso della sostanziale non crescita del
nostro paese.
Alla luce di tale situazione, il
Rapporto chiude con la messa a fuoco del contributo che
potrebbe derivare dall’adozione della strategia europea
2020, una strategia finalizzata ad una crescita di
qualità fondata sulla promozione della ricerca e, con
essa, del capitale umano. Pur condividendo l’urgenza di
attivare la crescita, in questo articolo, ci si
interroga, anche sulla base dei dati offerti nel
Rapporto, se la via non debba essere quella di un più
radicale ripensamento del tipo di crescita da ricercare.
Incominciamo da alcuni dati sui
costi attuali della non crescita. L’Italia sembra meglio
di altri paesi avere tamponato la disoccupazione,
passata dal 6,7% del 2008 all’8,4% del 2010 (contro un
incremento nel complesso dei paesi UE dal 7,1% al 9,6%).
Il merito va, però, essenzialmente alla CIG, non alla
crescita. Al contempo, il tasso di inattività è salito
al 37,8%, un valore quasi doppio di quello registrato
nella UE. In contro-tendenza, altresì, con quanto
avviene in Europa, gran parte del calo occupazionale ha
riguardato le professioni qualificate e tecniche. Il
recupero in atto dell’occupazione investe, inoltre,
soprattutto contratti a tempo determinato e a tempo
parziale (involontario) e l’inflazione rischia di
erodere i pur limitati incrementi delle retribuzioni che
hanno avuto luogo l’anno passato.
Dentro questi dati aggregati, il
Rapporto sottolinea, poi, la penalizzazione subita dai
giovani (a prescindere dal livello di studio), il cui
tasso di disoccupazione ha raggiunto, lo scorso marzo,
il 28,6%. I NEET, giovani fra i 15 e i 29 anni, né
occupati né coinvolti in processi formativi, sono ormai
il 22,1% di quella classe di età (oltre due milioni di
soggetti). Da notare, dato particolarmente preoccupante,
che la maggioranza dei NEET rilevati nel 2010 si trovava
nella medesima condizione in almeno due dei tre anni
precedenti: il che indica un fenomeno perdurante, con
rischi di “cicatrici permanenti” nella carriere
lavorative.
Il Rapporto segnala, infine,
l’ampliamento del divario di genere nell’overeducation,
il 40% delle laureate ha un lavoro con una qualifica più
bassa rispetto al titolo posseduto, ed il peggioramento
subito dai lavoratori autonomi, dopo un decennio di
miglioramento rispetto al lavoro dipendente, nonché dai
lavoratori stranieri, esposti ad una riduzione del tasso
di occupazione più che doppia rispetto a quello degli
italiani, con una penalizzazione tanto più marcata
quanto maggiore ne era la concentrazione territoriale.
Più stabile, invece, risulta la condizione delle
lavoratrici straniere.
La strategia 2020 potrebbe,
certamente, comportare miglioramenti. Ciò nondimeno, si
pongono diversi motivi intrinsici di perplessità, a
prescindere da quelli più contingenti relativi sia al
costo finanziario sia alle radicali trasformazioni che
sarebbero richieste al nostro apparato produttivo, pena
un mismatch altrimenti inevitabile fra domanda e offerta
di lavoro. Rispetto al costo, ad esempio, in un contesto
di vincoli finanziari rigidi come gli attuali, come
realizzare gli obiettivi fissati di portare al 3% del
PIL la spesa per ricerca, al 10% gli abbandoni
scolastici, al 40% la quota di popolazione tra i 30 e i
34 anni con istruzione universitaria e al 75% il tasso
di occupazione (il che, come indicato più avanti,
richiederebbe un forte espansione della spesa a sostegno
delle responsabilità familiari)?1
Concentrandoci sui motivi
intrinseci, la strategia 2020 implica misure di
investimento sociale, dai frutti differiti nel tempo.
Appare, dunque, inadeguata nei confronti delle domande
di assorbimento, oggi, della non occupazione e di
sostegno, oggi, ai redditi sia esso nel momento in cui
si lavora (ma non si riesce a guadagnare abbastanza,
data la domanda di lavoro) oppure nel passaggio da
un’occupazione ad un’altra o ancora quando si andrà in
pensione, i trasferimenti pensionistici, in un regime
contributivo, mimando le dinamiche del mercato del
lavoro. Si tratta di domande oggi insoddisfatte a
seguito delle ben note carenze, documentate dallo stesso
Rapporto, nel nostro sistema di ammortizzatori.
La strategia rischia, inoltre, di
sottostimare le sfide poste dall’evoluzione più
complessiva del mercato del lavoro. In sintesi, anche se
avessimo raggiunto le finalità ricercate, le occupazioni
precarie nei servizi alla persona rischiano, comunque,
di crescere e, anche se non si condivide il pessimismo
di Brown, Lauder e Ashton nel loro recente The Global
Auction (Oxford University Press, 2010), anche Cina ed
India stanno progressivamente investendo in capitale
umano, con la conseguenza di una crescente appetibilità
della delocalizzazione delle stesse occupazioni a
maggiore intensità di istruzione. Il problema del
sostegno ai redditi resta, pertanto, inevitabile anche
nel medio periodo.
Infine, resterebbe aperta la
questione delle altre domande sociali oggi
insoddisfatte, (a prescindere dal sistema degli
ammortizzatori), in primis, le domande di cura, cui lo
stesso Rapporto dedica alcuni interessanti
approfondimenti in tema di sperequazione territoriale
degli interventi pubblici (informazioni da tenere ben
presenti nel contesto dell’attuazione del federalismo
municipale) e di reti informali di cura. A quest’ultimo
riguardo, vale la pena ricordare il potenziamento del
ruolo supplettivo delle famiglie allargate (soprattutto
delle nonne) registratosi nella cura dei bambini e
l’indebolimento, invece, registratosi nei confronti del
sostegno agli anziani. All’inizio degli anni 80,
documenta il Rapporto, le famiglie con un bambino e
madre occupata erano al quinto posto fra i beneficiari
di cure informali, mentre oggi occupano il primo posto.
Al contempo, sono oggi sostanzialmente senza aiuto due
milioni di anziani che vivono soli o con altre persone
con problemi di salute. Nel complesso, benché negli
ultimi venticinque anni sia aumentata la quota di
popolazione che presta aiuto ad altre famiglie (dal 20,8
% del 1983 al 26,8% del 2009), diminuisce sia il numero
delle famiglie aiutate (dal 23,3% al 16,9%) sia il
numero medio di ore prestate.
Certamente, anche nei confronti di
alcune di queste domande, la strategia 2020 offrirebbe
alcuni antidoti. Basti pensare al sostegno pubblico alla
cura dei bambini, strumento essenziale al potenziamento
dell’offerta di lavoro femminile. Inoltre, la strategia
richiede una significativa riduzione del numero dei
poveri (misurati sulla base di diversi indicatori). Ciò
nondimeno, la cura ai figli rischia di essere
organizzata in funzione precipuamente del lavoro dei
genitori, nella sottovalutazione delle esigenze di
sviluppo dei bambini in quanto persone e cittadini
nonché dell’esercizio della cura stessa: un tasso di
occupazione del 75% appare difficilmente conciliabile
con la cura (a meno di riforme molto significative nel
mercato del lavoro). Resterebbero poi aperte le altre
domande relative alla perequazione territoriale e alla
cura nei confronti degli individui anziani e dei non
auto-sufficienti. Ancora, non si dimentichi l’entità di
altre domande non trattate nel Rapporto, dalla più
complessiva cura degli spazi comuni allo sviluppo di una
cittadinanza multi-culturale.
Data questa realtà, la domanda è se
la crisi attuale non debba spingere ad un ripensamento
più radicale sul tipo di crescita da ricercare. Il
timore è che, anche a prescindere dalle difficoltà
contingenti, la promozione della ricerca, dello sviluppo
e del capitale umane rappresenti una qualificazione
insufficiente del processo di crescita. Urge, al
contrario, mettere al centro una diversa distribuzione
delle risorse, senza la quale il sostegno ai redditi
rischia di risolversi in integrazioni minimali al
massimo alla soglia di povertà, ed una domanda
collettiva tesa a perseguire obiettivi di star bene
generale in termini di accesso ad opportunità
fondamentali, cura dei beni comuni, sviluppo di
relazioni civili. Peraltro, una posizione di questo tipo
faciliterebbe anche l’altro obiettivo centrale della
strategia 2020, la riduzione delle emissioni inquinanti.
Oltre al miglioramento dell’efficienza energetica e
all’aumento delle fonti rinnovabili richiesto dalla
strategia 2020, la via più diretta è, infatti, quella
della modificazione della domanda a favore di consumi
collettivi di qualità sociale.
Come procedere non è, ovviamente,
semplice. Esistono, però, spezzoni/laboratori di
riflessione che andrebbero potenziati2, pena il
continuare ad essere intrappolati nelle maglie del PIL,
nonostante le tante obiezioni mosse a tale misura.
1. Come indica sempre il Rapporto,
i valori attuali sono rispettivamente 1,23% per quanto
concerne la spesa per R&S; 19,2 % per quanto concerne
gli abbandoni; poco sotto al 20% per quanto concerne
l’istruzione terziaria e 56,9% per quanto concerne il
tasso di occupazione.
2. Cfr., ad esempio, l’ultimo
numero della Rivista delle politiche sociali (e, in
esso, sul tema del rapporto fra welfare e ambiente, il
bel saggio di Crouch) nonché le riflessioni in corso in
Gran Bretagna nella NEF. |