L’ultimo duello tra politica e
magistratura si è consumato lunedì scorso a Palermo, in
occasione di un Convegno svoltosi nell’aula bunker del
carcere dell’Ucciardone - significativamente intitolato
“Giovanni e Paolo, due italiani” - dedicato alla memoria
di due uomini simbolo della lotta alla mafia: Giovanni
Falcone e Paolo Borsellino.
Parlando della riforma
costituzionale della giustizia promossa dall’esecutivo,
il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso ha
infatti affermato che non si tratta di una riforma della
magistratura bensì dell’assetto dei poteri dello Stato,
e che “non è facile porgere l’altra guancia a chi ci
schiaffeggia quotidianamente additandoci come un cancro
da debellare”; il Guardasigilli Angelino Alfano ha
replicato che il Governo intende preservare l’autonomia
della magistratura, ricordando altresì come Falcone
fosse un fautore della separazione delle carriere
requirenti e giudicanti.
Mettendo da parte pregiudizi e
livori che ormai da quasi due decenni contrappongono
politica e magistratura, e ignorando infelici sortite e
slogan propagandistiche, bisognerebbe davvero cogliere
l’essenza del messaggio di Falcone, l’eredità lasciata
da un magistrato che, da vivo e soprattutto nell’ultimo
periodo della sua esistenza, non è stato molto amato dai
suoi colleghi, nonostante la glorificazione postuma.
Candidato al CSM nel 1990, non
viene eletto nonostante l’indiscussa autorevolezza (e
popolarità) raggiunta; accolto l’invito del Ministro
della giustizia pro tempore Claudio Martelli di
trasferirsi a Roma quale direttore degli Affari penali,
è oggetto di critiche da parte delle toghe e del mondo
politico per la sua vicinanza al Partito socialista.
Biasimato per aver sfruttato la sua notorietà al fine di
ottenere incarichi prestigiosi e, probabilmente, per una
incipiente carriera politica, finisce davanti al CSM, ma
come “imputato”, al culmine della stagione dei veleni
palermitana che, di fatto, sancisce la fine del pool
antimafia e determina il completo isolamento di Giovanni
Falcone nella sua terra d’origine. Si fa strada persino
il dubbio che l’attentato alla sua residenza estiva
dell’Addaura, avvenuto il 21 giugno 1989, sia tutta una
messa in scena da lui abilmente orchestrata.
Ed invece Falcone nella Capitale
cerca soltanto di mettere a frutto la sua esperienza e
le sue capacità investigative per gettare le basi di più
efficaci strumenti di contrasto alla criminalità
organizzata. Primo fra tutti, l’istituzione della
“Superprocura”, la Procura nazionale antimafia cui era
naturalmente destinato: il progetto però suscita una
levata di scudi da parte dell’ANM, che paventa una
lesione dell’autonomia della magistratura ed un
pericoloso assoggettamento all’esecutivo. Ieri come
oggi, verrebbe da dire. E la sua candidatura è
fortemente avversata proprio dall’interno, trovando
insperato sostegno in Francesco Cossiga, Presidente
della Repubblica e del CSM, che dichiara: “mi debbono
spiegare perché un illustre sconosciuto come Cordova
oggi sia migliore di Falcone”.
Da magistrato cresciuto nella
cultura nordamericana del processo, quel processo
accusatorio che il nostro ordinamento ha accolto oltre
vent’anni fa, Giovanni Falcone era decisamente
favorevole alla separazione delle carriere, e non certo
per fini reconditi: “un sistema accusatorio parte dal
presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e
coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel
corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte
in causa”, mentre il giudice, in questo quadro, si
staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra
delle parti“, afferma in un’intervista a La Repubblica
del 3 ottobre 1991, sottolineando come contraddica tale
visione “il fatto che, avendo formazione e carriere
unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili,
giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni
dagli altri“. E conclude amaramente osservando che “chi,
come me, richiede che siano, invece, due figure
strutturalmente differenziate nelle competenze e nella
carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza
del magistrato, un nostalgico della discrezionalità
dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il
controllo dell’Esecutivo. È veramente singolare che si
voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la
specializzazione del pm con questioni istituzionali
totalmente distinte“.
Un magistrato controcorrente,
insomma, un uomo scomodo, forse anche per questo
lasciato pericolosamente soloPericolosamente perché,
come egli stesso ammonisce profeticamente in una delle
sue ultime interviste, “si muore generalmente perché si
è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande.
Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie
alleanze, perché si è privi di sostegno“, ed è quello
che accade anche in Sicilia, dove “la mafia colpisce i
servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a
proteggere“. O, magari, che lo Stato non vuole più
proteggere. |