I limiti del Piano Nazionale di
Riforma varato dal governo sono stati già messi in
evidenza su nelMerito.com dagli interventi di Gianfranco
Viesti e di Michele Grillo: obiettivi poco ambiziosi,
assenza di un progetto sistematico e carenza di linee di
azione incisive per sciogliere i nodi irrisolti che
ostacolano la crescita.
In questa nota propongo alcune
riflessioni su una delle azioni necessarie, non l’unica
ovviamente, ma di sicuro rilievo: come attivare una
ripresa degli investimenti infrastrutturali, un campo in
cui particolarmente accentuato è il gap tra l’Italia e i
principali paesi partner. Come cercherò di argomentare,
i tre tasselli di una strategia che prenda finalmente
“il toro per le corna” sono: (i) rilanciare il processo
di liberalizzazione e regolazione dei servizi di
pubblica utilità, per costruire un ambiente di mercato
entro cui le capacità e le risorse imprenditoriali
possano operare al meglio in un quadro di convenienze
orientato al perseguimento di obiettivi di pubblici;
(ii) rivalutare la funzione di programmazione dello
Stato, attrezzando le pubbliche amministrazioni con le
competenze tecniche necessarie a selezionare i progetti
e razionalizzando i processi decisionali, in modo che le
risorse pubbliche facciano da volano al coinvolgimento
di risorse private; (iii) attivare gli investitori
istituzionali di lungo termine di origine pubblica -
come, in primo luogo, CDP – per un verso come azionisti
delle grandi società di gestione delle reti nazionali e,
per altro verso, come investitori nei progetti
infrastrutturali che intervengono per strutturarne, in
una logica di mercato, il finanziamento in modo da
renderne il profilo temporale compatibile con l’apporto
prevalente di risorse finanziarie da parte degli altri
intermediari di mercato e dei risparmiatori. Ma andiamo
con ordine.
Sulla necessità di una ripresa
degli investimenti infrastrutturali, non mancano
ripetute affermazioni di principio e “liste” di opere da
realizzare, naturalmente assai lunghe dati i molti
fronti dove il nostro paese segna ritardi preoccupanti.
Manca invece una strategia che chiarisca come realizzare
gli investimenti necessari in un quadro di finanza
pubblica che nei prossimi anni risulterà inevitabilmente
restrittivo, condizionato come è dall’elevato debito
pubblico e dal tormentato contesto dei mercati
finanziari. L’affermazione diffusa che le limitate
risorse pubbliche andranno utilizzate come volano per il
coinvolgimento di risorse private è condivisibile, e non
solo per le ristrettezze del bilancio pubblico ma anche
per motivi di principio su cui tornerò alla fine di
questa nota. Ma raramente a questa affermazione si
accompagna la consapevolezza, da parte del governo e
dell’insieme delle forze politiche, delle innovazioni
che essa comporta nella definizione e attuazione degli
interventi di politica economica. Proviamo a chiarirle.
Il primo fondamentale tassello
necessario a sbloccare la realizzazione di investimenti
che colmino il ritardo infrastrutturale italiano sta
nella costruzione di un ambiente di mercato entro cui le
capacità e le risorse imprenditoriali possano operare al
meglio in un quadro di convenienze orientato al
perseguimento di obiettivi di interesse generale
individuati e sorretti dalle istituzioni pubbliche di
governo nazionale e locale. E’ questo il senso delle
riforme avviate dal centrosinistra nella seconda metà
degli anni novanta quando, pur attraverso un processo
segnato da contraddizioni, vennero impostate le
liberalizzazioni dei settori dell’energia e delle
telecomunicazioni, nel quadro di una riforma degli
strumenti e delle istituzioni di regolazione
(costituzione dell’Autorità dell’energia elettrica e del
gas e di quella delle comunicazioni): l’obiettivo era la
costruzione di un quadro forte e credibile di regole in
cui le imprese, pressate dalla concorrenza e dalla
regolazione, fossero spinte a guadagnare efficienza e a
programmare investimenti di sviluppo delle reti. I passi
avanti nei settori energetici e delle TLC non sono
mancati, anche se condizionati da un limite di cui dirò
fra breve. Sta di fatto però che negli ultimi dieci anni
il processo di riforma si è sostanzialmente fermato, con
conseguenze pesanti specie nei settori che meno sono
stati investiti dalle liberalizzazioni e in cui non sono
state costituite Autorità indipendenti di regolazione:
trasporti, idrico, rifiuti. Qui le rendite, nelle varie
forme in cui queste si manifestano, non sono state
toccate e il quadro di regole è rimasto indeterminato,
al punto che costituisce ormai un ostacolo paralizzante
per lo sviluppo degli investimenti infrastrutturali.
Il limite cui accennavo nei settori
energetici e delle TLC è stato principalmente costituito
dalla mancata separazione proprietaria del soggetto
gestore della rete dal soggetto in posizione dominante
nella erogazione del servizio. Solo nel settore
elettrico si è arrivati, a metà del decennio appena
trascorso, alla separazione proprietaria di TERNA da
ENEL, condizione per sbloccare gli investimenti di
potenziamento della rete. Qualcosa di analogo andrebbe
fatto per la rete nazionale del gas e per la futura rete
a banda larga nelle TLC. L’esperienza di TERNA - in cui,
dopo la recente cessione delle quote azionarie del
Tesoro, Cassa Depositi e Prestiti (CDP) detiene una
quota prossima al 30% - deve indurci a rivalutare il
ruolo strategico che per lo sviluppo delle reti può
svolgere la partecipazione azionaria di una società di
diritto privato a maggioranza pubblica: un soggetto,
come CDP, la cui mission consiste nel tradurre gli
obiettivi di interesse generale in linee di azione
calate entro le regole del mercato1.
Il secondo tassello riguarda la
capacità programmatoria delle amministrazioni pubbliche.
Un limite rilevante delle riforme degli anni novanta,
pur nella giusta enfasi allora posta sulla costruzione
di un nuovo quadro di regole per i mercati, fu la
“sordina” messa sulla funzione di programmazione che lo
Stato è chiamato a svolgere2. Si è trattato di una
contrapposizione fuorviante tra regolazione e
programmazione, che ha perso di vista il fatto che esse
sono ambedue funzioni essenziali che rispondono a due
distinte tipologie di “fallimento del mercato”: la
regolazione si misura con le ragioni che ostacolano
l’operare della concorrenza nei mercati delle utilities,
simulandone i risultati laddove essa non può operare e
promuovendola ovunque possibile; la programmazione si
misura a sua volta con la limitatezza dell’orizzonte
temporale e spaziale entro cui gli operatori di mercato
effettuano le loro scelte e con le esternalità di
produzione e consumo che il mercato non internalizza.
La “sordina” sui compiti di
programmazione ha lasciato, e lascia tuttora, il campo
aperto a un utilizzo dei fondi pubblici disorganico,
pressato dalle mille richieste provenienti da
amministrazioni centrali e locali e da gruppi di
interesse. E’ urgente uscire da questa situazione, tanto
più che nella fase attuale di ristrettezza delle risorse
di bilancio i compiti della programmazione sono quanto
mai impegnativi. Si tratta di superare la prassi
deleteria di programmi assemblati come sommatoria di
interventi disparati, di selezionare e dimensionare
correttamente le opere di cui c’è bisogno sottoponendole
a una analisi costi-benefici (essenziale per valutarne
la sostenibilità economica e fare dei fondi pubblici il
volano di un ampio coinvolgimento di capitali privati),
di dare certezza di risorse ai progetti di cui si avvia
la realizzazione superando la prassi di distribuirle su
una miriade di progetti di cui si avviano lavori che
resteranno incompiuti. Purtroppo siamo ancora lontani da
tutto ciò: gli esercizi programmatori allegati ai
documenti di finanza pubblica del governo sono tuttora
caratterizzati dall’assemblaggio di progetti non
selezionati e dalla dispersione delle poche risorse
disponibili.
Last but not least, sul fronte
della programmazione è urgente rivedere il processo
decisionale, stabilendo procedure di confronto tra
governo e autonomie locali vincolate nei tempi e
fissando in anticipo a livello centrale tetti di spesa
per le “varianti” e per le “opere compensative”, i primi
essenziali per evitare comportamenti opportunistici
delle imprese in sede di gara, i secondi per evitare il
continuo “rilancio” delle richieste degli enti locali
nel cui territorio l’opera è localizzata3. E’ giusto
segnalare che su questo terreno il recente Decreto sullo
sviluppo contiene (art. 4) prime misure che vanno in
questa direzione, purtroppo accanto ad altre meno
condivisibili.
Il terzo tassello di una strategia
di ripresa degli investimenti infrastrutturali riguarda
il finanziamento. Si tratta qui di attivare forme di
intervento che, in presenza di un quadro coerente di
regolazione e di una programmazione efficace da parte
dei poteri pubblici, facilitino il coinvolgimento di
risorse private in investimenti caratterizzati da
ritorni economici in tempi lunghi. A questo riguardo,
possono giocare un ruolo importante investitori
istituzionali di lungo termine di origine pubblica, come
CDP, al fine di strutturare il finanziamento in modo da
renderlo attrattivo per gli altri intermediari
finanziari e per i risparmiatori: si tratta di offrire
finanziamenti che abbiano una durata o un profilo di
ammortamento in grado di rafforzare la fattibilità
finanziaria dei progetti rendendola, sul versante dei
tempi di rientro, compatibile con l’apporto di capitali
privati. Va in questa direzione la costituzione della
cosiddetta Gestione Separata 2 di CDP, con cui la Cassa
può finanziare, in forma complementare agli altri
intermediari finanziari, le imprese che realizzano
progetti di investimento promossi da enti pubblici – è
il caso degli investimenti nei servizi di pubblica
utilità – od offrire garanzie per conto dell’ente
pubblico promotore. Va in direzione analoga la proposta
di project bonds recentemente avanzata dalla Commissione
Europea e dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI):
si tratta di un meccanismo di condivisione del rischio
tra Commissione e BEI volto a migliorare il merito di
credito dei progetti infrastrutturali.
Il ruolo di CDP e BEI ora
richiamato rappresenta un importante completamento della
funzione di programmazione dal lato delle forme di
finanziamento delle infrastrutture. La differenza di
principio, rispetto alla programmazione che le
amministrazioni pubbliche svolgono (o dovrebbero
svolgere) direttamente attraverso le scelte di
allocazione delle risorse di bilancio, sta nel fatto che
qui abbiamo a che fare con soggetti di mercato che, in
base a una mission di natura pubblica, operano come
investitori di lungo termine. Il loro compito è di
contribuire, con risorse raccolte sul mercato, al
finanziamento di progetti che, una volta promossi dai
soggetti pubblici competenti, devono essere valutati in
relazione alla loro sostenibilità economica e alla loro
fattibilità finanziaria. Nel caso della programmazione
da parte delle amministrazioni pubbliche, il compito è
quello di definire i progetti di investimento di cui il
paese ha bisogno e di stabilire l’eventuale apporto di
risorse di bilancio che dovesse risultare necessario a
rendere sostenibile il progetto. Nel caso degli
investitori di lungo termine con mission pubblica, il
compito è quello di contribuire a una strutturazione del
finanziamento che, ove il progetto sia sostenibile, ne
renda il profilo temporale compatibile con l’apporto
prevalente di risorse private.
Per concludere, vorrei tornare su
una questione accennata all’inizio di questa nota, la
desiderabilità o meno del coinvolgimento di risorse
private negli investimenti infrastrutturali. Accennavo
sopra come questa, oltre a derivare dalle esigenze di
rientro del debito pubblico, abbia ai miei occhi anche
una giustificazione di principio. Intendo dire che è
interesse della collettività orientare l’allocazione
complessiva delle risorse verso obiettivi di interesse
pubblico, ossia costruire un sistema di convenienze che
porti il mercato a servire gli interessi della
collettività. In altri termini, la questione del
coinvolgimento di risorse private negli investimenti
infrastrutturali fa emergere una questione più generale:
il governo pubblico dei mercati.
1. Questa valutazione positiva fa
riferimento alla partecipazione azionaria di CDP in
società di rete. Non affronto invece il tema
controverso, cui nelMerito ha già dedicato diversi
interventi, dell’estensione dell’intervento di CDP ad
altre società disposta dall’art. 7 del DL 34 del 31
marzo scorso.
2. Per una ricostruzione
dell’evoluzione del rapporto tra Stato programmatore,
Stato regolatore e Stato imprenditore in Italia, si veda
l’ampia disamina condotta in E. Barucci e F. Pierobon,
Stato e mercato nella Seconda Repubblica, Bologna, Il
Mulino, 2010.
3. Per una organica proposta di
riforma delle procedure di programmazione e
localizzazione delle opere pubbliche si rinvia ad
Astrid, Programmazione, decisione e localizzazione degli
impianti e delle infrastrutture strategiche,
www.astrid.eu. Sul tema della semplificazione
amministrativa, si veda l’intervento di Giuseppe Coco su
nelMerito.com del 6 maggio scorso. |