Premessa - La risposta dell’Unione
europea (EU) e dell’Unione monetaria europea (EMU) alla
crisi finanziaria del 2007-’09 e alla conseguente crisi
‘reale’ è stata, per molti versi, positiva. Dall’aprile
del 2009, il Parlamento e la Commissione europea hanno
operato per estendere l’area di regolamentazione e per
limitare gli eccessi speculativi nei mercati finanziari.
Inoltre, riprendendo i risultati
del gruppo de Larosière (2009), essi hanno realizzato un
nuovo assetto europeo di vigilanza macro- e
micro-prudenziale dei mercati finanziari che è diventato
operativo a inizio 2011. Infine, nella riunione di fine
marzo 2011, il Consiglio europeo ha portato a compimento
vari processi di riforma fiscale e macroeconomica e ha
gettato, così, le basi per una nuova governance
dell’EMU1. Il risultato è che, se ancora nell’autunno
del 2010 si avevano buone ragioni per stigmatizzare la
fragilità dell’area dell’euro in quanto fondata sulle
sole variabili monetarie, oggi - in questa stessa area -
sono stati costruiti presidi di armonizzazione fiscale e
di coordinamento macroeconomico.
Nonostante ciò, l’EMU sta
attraversando la fase di più grave difficoltà della sua
pur giovane storia. I più importanti Stati membri non
sembrano rendersi conto che, anche se la nuova
governance europea è compatibile con “equilibri
multipli”2, la realizzazione di tale governance
presuppone adeguati tassi di crescita. Sebbene denunci
ancora molte fragilità, dal secondo semestre del 2010 la
ripresa internazionale è diventata più rapida delle
attese. Eppure, l’EMU ha realizzato una performance
media modesta che è il risultato di una crescente
divergenza fra il robusto tasso di crescita di quasi
tutti i Paesi ‘forti’ (in primis, la Germania) e la
recessione di quasi tutti i Paesi periferici3.
L’accentuarsi di una simile frattura, che rischia di
diventare irreversibile, è – almeno nel breve termine –
soprattutto da imputarsi all’inefficiente gestione
europea della crisi dei debiti sovrani di molti Stati
membri periferici.
Nonostante il varo delle sue
recenti riforme, l’EMU rischia così di rimanere
intrappolata in un circolo vizioso. Il maggiore ostacolo
immediato alla crescita è rappresentato dalla crisi dei
debiti sovrani di alcuni degli Stati membri periferici.
D’altro canto il sostegno finanziario, offerto con
ritardo e in modo discrezionale dagli altri Paesi
dell’EU a quelli in difficoltà, si è accompagnato
all’imposizione di processi di aggiustamento e di
termini contrattuali così onerosi da risultare recessivi
nel breve-medio termine ed economicamente e socialmente
insostenibili nel lungo termine. Ne risulta che la
recessione dei Paesi in difficoltà impedisce di superare
la crisi del debito sovrano e la crisi del debito
sovrano impedisce a questi Paesi di ricollocarsi su un
sentiero di crescita.
2. I limiti di quel che è stato
fatto
Sarebbe ingeneroso sostenere che,
nell’ultimo anno, non si siano compiuti passi avanti
anche nella gestione del debito sovrano europeo.
Ancora a marzo del 2010, i Paesi
aderenti all’euro pensavano che qualsiasi intervento,
concordato all’interno dell’area per fronteggiare la
crisi del debito pubblico greco, avrebbe compromesso il
Trattato europeo. A metà 2010, l’Ecofin e l’Eurogruppo
hanno invece varato due meccanismi temporanei di
sostegno per gli Stati membri dell’EMU, che si trovano
in difficoltà per ragioni eccezionali e al di fuori del
loro controllo; e a dicembre del 2010, previa una
piccola modifica del Trattato europeo, il Consiglio
europeo ha varato un meccanismo permanente di
stabilizzazione dei debiti sovrani degli Stati membri in
difficoltà, denominato ESM, che diventerà operativo dal
giugno 2013 sostituendo l’attività dei due attuali
meccanismi temporanei. Il Consiglio europeo di fine
marzo 2011 ha consentito all’ESM di acquistare
direttamente titoli pubblici di nuova emissione da parte
dei Paesi in difficoltà appartenenti all’EMU (ossia, di
operare sul mercato primario anche se non su quello
secondario).
L’aggravarsi delle tensioni di
mercato sui titoli sovrani di alcuni degli Stati membri
periferici e le voci ricorrenti di una radicale
ristrutturazione del debito pubblico greco mostrano che
l’istituzione di tali meccanismi non è stata sufficiente
a risolvere il problema. La cosa non è sorprendente. Gli
interventi a favore della Grecia, dell’Irlanda e del
Portogallo sono stati erogati in ritardo, con modalità
discrezionali e a condizioni eccessivamente gravose
sotto il profilo sia degli aggiustamenti macroeconomici
che degli oneri finanziari imposti. Questi problemi si
accentueranno quando l’ESM diventerà operativo. A
differenza dei prestiti oggi erogati dai due meccanismi
temporanei, i crediti dell’ESM godranno infatti di una
posizione di seniority rispetto agli altri titoli del
relativo debito pubblico e la loro concessione potrà
essere subordinata a una ristrutturazione del debito
detenuto dai privati4; il che non incentiva certo gli
investitori di mercato ad acquistare o a continuare a
detenere titoli pubblici di Stati membri in difficoltà.
Inoltre, la scelta di posporre l’inizio dell’attività
dell’ESM alla seconda metà del 2013 ha rafforzato le
scommesse speculative contro la tenuta dei bilanci
pubblici dei Paesi periferici. Infine, la decisione di
permettere all’ESM acquisti sul mercato primario ma non
su quello secondario ha aggravato i rischi sopportati
dall’ECB che, dallo scoppio della crisi greca, ha
acquistato titoli del debito sovrano dei Paesi
periferici sul mercato secondario e ha accettato tali
titoli (al valore nominale) come garanzia per le
operazioni di mercato aperto a favore del settore
bancario europeo.
3. Gli ostacoli a soluzioni più
efficaci
Nell’ultimo anno il dibattito
economico ha messo in luce che la soluzione della crisi
del debito di alcuni Paesi periferici non presenta
problemi tecnici irresolubili, ma richiede scelte
politiche cooperative da parte degli altri Stati membri
dell’EMU5. In particolare, per fare sì che la nuova
governance europea possa essere attuata in un quadro
generale di crescita, basterebbe che tutti questi altri
Stati membri fossero pronti ad assumersi quattro
responsabilità: (1) la trasformazione dell’ESM in un
meccanismo immediatamente operativo, che effettui
finanziamenti senza seniority e a condizioni sostenibili
per i Paesi in difficoltà; (2) la concessione al nuovo
ESM della facoltà di comprare titoli pubblici di tali
Paesi anche nel mercato secondario, sostituendo o
affiancando la ECB nella sua funzione di supplenza; (3)
l’offerta di garanzie piene e congiunte - anziché pro
quota - sulle obbligazioni emesse dal nuovo ESM, in modo
da farne coincidere l’indebitamento con il potenziale di
finanziamento e acquisto; (4) la concessione agli Stati
membri in difficoltà della scelta di procedere a haircut
‘dolci’ del loro debito pubblico.
Se si realizzassero i punti
(1)-(4), vi sarebbero almeno tre conseguenze positive:
haircut dei debiti sovrani così modesti da non innescare
catene di insolvenza e, dunque, da non generare fattori
di instabilità nell’area dell’euro e nel settore
bancario europeo; una drastica caduta degli oneri
finanziari, corrisposti dai Paesi in difficoltà sui loro
debiti sovrani, che renderebbe più sostenibile il
servizio su questi debiti e il graduale aggiustamento
dei relativi bilanci pubblici; di conseguenza, una
sensibile diminuzione nelle probabilità di fallimento
dei debiti sovrani dei Paesi periferici, che
abbasserebbe - anche ex ante – il costo delle garanzie
congiunte concesse sulle passività del nuovo ESM. Si
noti che i tre risultati detti varrebbero anche per il
caso oggi più problematico, ossia quello della Grecia.
Sotto il profilo economico le
resistenze, palesate dalla Germania e dai suoi satelliti
rispetto ai punti (1)-(4), appaiono quindi paradossali:
una ristrutturazione “non pilotata” del debito greco o
del debito di uno degli altri Paesi periferici
rischierebbe di scatenare gravi effetti “contagio”6. Al
riguardo, basti gettare uno sguardo sull’attuale
situazione del settore bancario dell’EMU.
Più ancora di quelle statunitensi e
britanniche, molte banche dell’area euro denunciano tre
debolezze: hanno attivi rischiosi perché ancora gravati
da titoli privati problematici e da titoli pubblici dei
Paesi periferici, hanno un’insufficiente
patrimonializzazione, hanno difficoltà (almeno di costo)
nel rinnovare le proprie passività perché troppo
dipendenti dai mercati all’ingrosso e dai finanziamenti
agevolati dell’ECB. Tale stato di cose non caratterizza
solo le banche greche, irlandesi o portoghesi; esso
incide pesantemente anche sulle banche cooperative e
sulle Landesbanken tedesche, sulle casse di risparmio
spagnole e su alcune banche francesi, olandesi, belghe e
austriache. Del resto, anche le più tradizionali banche
dell’EMU - incluse quelle italiane - soffrono di
elementi di fragilità che ne raccomandano una sollecita
ricapitalizzazione: crescita delle sofferenze,
innalzamento nei costi della raccolta, deterioramento
nella qualità del patrimonio. Assetti così fragili non
sarebbero in grado di assorbire, senza traumi, l’impatto
di un fallimento di debiti sovrani. A ciò si aggiunga
che, in un’eventualità del genere, la stessa ECB
dovrebbe ricorrere a una nuova ricapitalizzazione e
limitare le operazioni di mercato aperto.
4. Conclusioni
Il rischio di una ristrutturazione
“non pilotata” del debito pubblico greco aumenta il
rischio di collasso di parti rilevanti del settore
finanziario europeo e il conseguente rischio di
“contagio” dell’intera area dell’euro. E’ quindi
stupefacente che molti economisti e policy maker
europei diano per scontato il fallimento del debito
pubblico greco, portoghese e – forse – irlandese; e che,
pur di sottrarsi alle proprie responsabilità politiche,
la Germania e i suoi satelliti preferiscano rischiare la
catastrofe della costruzione europea piuttosto che
pagare il prezzo politico dell’attuazione di semplici
soluzioni tecniche. Gli insegnamenti del caso Lehman
sembrano già dimenticati.
1. Si veda al riguardo: M. Messori,
“La nuova governance per l’UE? Un passo positivo ma
ancora non basta”, nelmerito, 1 aprile 2011.
2. Il riferimento agli equilibri
multipli mi è stato suggerito da Paolo Guerrieri in un
Convegno, tenutosi a Roma presso il Cnel. Il concetto è
utilizzato, ma in una accezione diversa, anche da: P. De
Grauwe, “The governance of a fragile eurozone”, CEPS
Working Document, n. 346, May 2011.
3. Gli Stati membri periferici
includono i Paesi che hanno già fatto ricorso al
sostegno degli altri Paesi dell’EMU e dell’EU (ossia
Grecia, Irlanda e Portogallo), i Paesi che rischiano di
doverlo fare nei prossimi mesi (Spagna) e i Paesi che
sono vulnerabili a causa del loro elevato rapporto
debito pubblico/PIL (Italia e Belgio).
4. La clausola presenta elementi
di ambiguità: la Germania tende a interpretare il
“potrà” come un effetto automatico del sostegno
dell’ESM; la Francia ritiene, invece, che l’eventuale
ristrutturazione del debito privato vada discussa caso
per caso. Oltre ad ampliare il potenziale di
finanziamento dell’ESM, il Consiglio europeo di fine
giugno 2011 dovrebbe dirimere la controversia.
5. Rimando per esempio al mio
scritto: “Come potrebbero funzionare gli eurobonds”, nel
merito, 11 febbraio 2011.
6. Ciò è tanto più vero se si
considera che, a marzo 2011, si è già attuata – sebbene
in sordina - una ristrutturazione pilotata del debito
pubblico greco: la durata dei prestiti bilaterali,
concessi dagli altri Stati membri dell’EMU, è stata
estesa a sette anni e mezzo e i relativi tassi di
interesse sono stati ridotti da 5,2% a 4,2% circa. |