1. Cenni storici sui diritti umani
La riflessione sui diritti umani ha
una lunga storia, affonda le sue radici nella cultura
filosofica occidentale del XVIII secolo, nella lotta
all’intolleranza religiosa ed all’assolutismo politico.
La mancanza di adeguate garanzie sul rispetto dei
diritti umani ha prodotto numerose sofferenze e quadri
politici caratterizzati da disordine ed instabilità, per
questo la necessità di tutela rappresentò uno fra i più
significativi obiettivi di politica internazionale.
Infatti, nel 1948, l'Assemblea Generale delle Nazioni
Unite ha proclamato a Parigi la “Dichiarazione
universale dei diritti umani”.2 Per la prima volta nella
storia dell’umanità, fu proclamato un documento che
riguardava tutte le persone del mondo, senza
distinzioni. E soprattutto, per la prima volta, veniva
riconosciuta l’esistenza dei diritti di cui ogni essere
umano deve poter godere per la sola ragione di essere al
mondo. La Dichiarazione dei Diritti Umani è un codice
etico di importanza storica fondamentale, è stato il
primo documento a sancire universalmente (cioè in ogni
epoca storica ed in ogni parte del mondo) i diritti e le
libertà che spettano ad ogni individuo. La Dichiarazione
non rappresenta solo una reazione ai disastri della
guerra appena conclusa, ma anche il punto di arrivo di
un lungo percorso iniziato nel Settecento ed il punto di
partenza di una sensibilità umanitaria che oggi si va
sempre più diffondendo. La Dichiarazione è senza dubbio
il documento che segna una tappa fondamentale
nell’affermazione dei diritti umani. Un percorso che
rappresenta il punto di arrivo di un dibattito
filosofico sull’etica ed i diritti umani e che, nelle
varie epoche, ha visto impegnati filosofi di vari
orientamenti. Tuttavia, non si può affermare che i
diritti umani siano nati nel 1948. La Dichiarazione è
frutto di un’elaborazione umana centenaria, che parte
dai primi principi etici classico-europei ed arriva fino
alla Dichiarazione d'Indipendenza statunitense, il Bill
of Rights3 e, soprattutto, la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino4 emanata nel 1789 durante la
rivoluzione francese. Inoltre, nel percorso che ha
portato alla realizzazione della Dichiarazione, furono
fondamentali i riferimenti ai Quattordici Punti5 di
Woodrow Wilson ed ai pilastri delle Quattro Libertà6
enunciati da Franklin D. Roosevelt.
Infine, i drammatici eventi ed i
milioni di vittime cagionate dalla seconda guerra
mondiale hanno contribuito all’affermazione dei diritti
umani. Alla Dichiarazione, redatta, tra gli altri, da
René Cassin7, sono poi seguiti il Patto internazionale
sui diritti economici, sociali e culturali ed il Patto
internazionale sui diritti civili e politici, elaborati
dalla Commissione per i Diritti dell’Uomo ed entrambi
adottati all'unanimità dall’ONU il 16 dicembre 1966.
La Dichiarazione è stata alla base
di molte conquiste civili della seconda metà del XX
secolo, ultima della quale è stata la proclamazione
della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea, confluita nel 2004 nella Costituzione europea8.
2. I diritti dell’uomo ed i diritti
delle donne
Il termine ''diritti umani delle
donne'' ha avuto un notevole impatto come strumento per
l’attivismo politico. Ha rappresentato, infatti, un
punto di convergenza, un terreno comune, al di là dei
confini geografici, per la realizzazione di concrete
strategie politiche volte al cambiamento e ha facilitato
la creazione di strategie collaborative per la
promozione e la difesa dei diritti umani in una
dimensione specificatamente di genere. In tutte le
società ed in tutti gli ambiti, le donne sono state
oggetto di disuguaglianze giuridiche e di fatto. Questa
situazione è stata causata ed aggravata dall’esistenza
di discriminazioni all’interno delle famiglie, delle
comunità e dei luoghi di lavoro. Se le cause e le
conseguenze variano da paese a paese, la discriminazione
nei confronti delle donne è largamente diffusa ed è
perpetuata dalla sopravvivenza di stereotipi e
tradizioni che vanno a scapito delle donne.
L’uguaglianza dei diritti delle donne è un principio
fondamentale delle Nazioni Unite9. Il Preambolo alla
Carta delle Nazioni Unite10 stabilisce come obiettivo
fondamentale la riaffermazione della fiducia nei diritti
umani, nella dignità e nel valore della persona umana,
negli uguali diritti degli uomini e delle donne11. Per
diritti umani, si intendono i diritti inalienabili che
spettano a tutti gli esseri umani e che, dunque, non
dipendono dalle leggi del singolo stato, ma dalla stessa
appartenenza al genere umano. Un genere umano concepito
come coacervo di uomini e di donne, diversi nel corpo e
nell’identità ma eguali nei diritti. Non è dunque
corretto, per definire tali diritti universali,
adoperare l’espressione diritti dell’uomo; ha senso
invece fare riferimento alle valutazioni espresse nel
1993 dalla Conferenza di Vienna12, imperniate
sull’universalità dei diritti. La parola “genere”, nella
definizione accreditata a livello internazionale, si
riferisce ai ruoli socialmente ideati per gli uomini e
per le donne. Tali ruoli, anche se basati su differenze
biologiche, cambiano continuamente e variano fra
culture, paesi e tradizioni.
La Dichiarazione Universale dei
diritti umani del ‘48, trascurando in gran parte la
dimensione di “genere”, è espressione di tale
marginalizzazione. Solo nell’ultimo decennio, è emersa
con chiarezza la necessità di una riconcettualizzazione
e la volontà di incorporare nell’ambito dei diritti
umani questioni cruciali per le donne, troppo a lungo
accantonate dalla legislazione internazionale, come lo
stupro, le ineguali opportunità nel campo
dell’istruzione e del lavoro, della salute, delle
politiche sociali e dello sviluppo.
La cornice iscritta nel termine
“diritti umani delle donne” fornisce la strada per
definire ed analizzare le loro esperienze di violenza,
degradazione e marginalità. Quest'idea fornisce un
terreno comune per lo sviluppo di una vasta gamma di
visioni e di concrete strategie tese al cambiamento. La
Dichiarazione esprime chiaramente il concetto che tali
diritti umani si applicano egualmente a tutti, uomini e
donne, "senza distinzione di alcun tipo, quale la razza,
il colore della pelle, il sesso, la lingua od altro
status13". Tuttavia, la tradizione, il pregiudizio,
l’interesse sociale, economico e politico hanno spesso
escluso le donne dalla generalità dei diritti umani e le
hanno relegate ad una posizione "secondaria" e
“marginale”. Il pregiudizio e la marginalizzazione hanno
contribuito a perpetuare uno status femminile
subordinato. Nel desiderio di limitare la giurisdizione
degli stati, alla base della Dichiarazione fu posta la
divisione tra pubblico e privato: le violazioni dei
diritti umani delle donne che avvenivano tra ''privati''
cittadini furono rese impercepibili cioè considerate al
di là della supervisione dello Stato. Il disinteresse
nei confronti delle violazioni dei diritti delle donne è
in gran parte legata all’esclusione della sfera privata
dal discorso dei diritti umani.14Questo perché le donne
sono tradizionalmente intese come legate alla sfera
"privata", concernente la casa e la famiglia, mentre il
cittadino "tipico" viene descritto come maschio. I
trattati sui diritti umani delle Nazioni Unite vennero
alla luce dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale
e si consolidarono durante la Guerra Fredda. Dal secondo
dopoguerra ad oggi, si è lottato molto per eliminare le
discriminazioni nei confronti delle donne e per
affermare i loro diritti. Negli anni '80 e '90 i
movimenti delle donne hanno formato network, reti e
coalizioni in tutto il mondo, sia per dare maggior
visibilità ai problemi che le donne fronteggiano ogni
giorno, sia per mostrare la centralità delle esperienze
femminili nei contesti economici, sociali, politici ed
ambientali. Sebbene le donne avessero da lungo tempo
sollevato la questione del perché i loro diritti fossero
visti come "accessori" ai diritti umani, l’impegno per
mutare questa inclinazione è stato realizzato
particolarmente durante la prima metà degli anni '9015.
L’apertura degli spazi per nuovi
dibattiti, dovuta al termine della Guerra Fredda, aveva,
infatti, facilitato lo scambio di idee ed esperienze fra
le donne di tutto il mondo, con lo scopo di rendere
maggiormente visibile le prospettive dei diritti umani
delle donne.
La Conferenza delle Nazioni Unite,
che si tenne a Vienna nel 1993, ha affermato che i
diritti delle donne sono diritti umani e come tali
inalienabili, indivisibili ed universali. La Conferenza
divenne il centro pubblico unificante della Campagna
Globale per i Diritti Umani delle Donne: un vasto ed
intenso sforzo di collaborazione per ottenere
l'avanzamento delle donne nell’ambito dei diritti umani.
La Campagna lanciò una petizione16
chiedendo che la Conferenza comprendesse i diritti umani
delle donne e riconoscesse la violenza di genere come un
fenomeno universale che assume varie forme ed attraversa
culture, razze e classi17.
La Dichiarazione di Vienna ed il
Programma d’Azione, elaborato dalla Conferenza come
segnale di accordo18 della comunità internazionale sullo
stato dei diritti umani, attesta che: "I diritti umani
delle donne e delle bambine sono un'inalienabile,
integrale ed indivisibile parte dei diritti umani
universali”.19.
Il Trattato Internazionale che ha
segnato una svolta storica nel percorso dei diritti
umani delle donne è la “Convenzione sull’eliminazione di
ogni forma di discriminazione verso le donne”
(CEDAW.)20.
Questa dà origine ad una nuova
frontiera del diritto internazionale che tenta di
combinare l’universalità dei diritti umani con la
differenza di genere, cioè con la specificità dei
diversi ruoli sociali, culturali e biologici di uomini e
donne. La CEDAW impegna gli stati ad adottare ogni
misura adeguata al fine di modificare gli schemi ed i
modelli di comportamento socio-culturali degli uomini e
delle donne e di giungere all’eliminazione dei
pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie basate sulla
convinzione dell’inferiorità o della superiorità
dell’uno o dell’altro sesso, o sull’idea di ruoli
stereotipati degli uomini e delle donne21. L’obiettivo
della CEDAW è di garantire quei diritti che vengono lesi
nei rapporti tra i sessi e che si concretizzano in
diversi crimini quali la violenza domestica, le
discriminazioni nell’accesso al lavoro, alle cariche
pubbliche etc.
La cornice dei diritti umani delle
donne, oltre ad essere stata molto utile negli sforzi
per ottenere cambiamenti legislativi e politici a
livello locale, nazionale ed internazionale, è stata
ugualmente importante per le organizzazioni di base. I
principi fondamentali dei diritti umani forniscono alle
donne uno strumento idoneo a descrivere le violazioni
dei loro diritti ed un criterio utile per esprimere le
loro esperienze di vita, condividerle con altre donne e
lavorare sinergicamente per il cambiamento. Tuttavia, in
una società globale come la nostra, la “cultura dei
diritti umani” deve percorrere contemporaneamente sia il
terreno dell’uguaglianza che quello della differenza:
dalla differenza di genere alle diversità fra persone,
classi, culture, religioni ovvero un intreccio fra
universalità dei diritti e riconoscimento delle
diversità.
3. I diritti delle donne nell’Islam
L’accesso delle donne islamiche ai
diritti sociali, civili e politici è stato storicamente,
ed è tuttora, mediato dalle reti di parentela e dalle
logiche patriarcali che si instaurano all’interno della
famiglia. Dietro il concetto di famiglia si cela una
varietà di significati, a seconda che ci si riferisca a
classi aristocratiche o ceti bassi, a realtà urbane o
rurali, ma anche in relazione a diverse comunità
religiose ed etniche. Dunque, per essere parte della
nazione che conferisce diritti e le responsabilità alla
cittadinanza, si deve appartenere ad una fede religiosa,
la quale a sua volta deriva dall’appartenenza ad una
rete di parentela definita da una discendenza
maschile22. Da questo tipo di sociètà patriarcale deriva
che i ruoli prefigurati per le donne sono legittimati
dalla religione e radicati nelle culture. La condizione
della donna nell’Islam varia molto da nazione a nazione.
La mappa delle diverse società presenta una grandissima
varietà di situazioni, di ordinamenti e di culture. In
ognuna di esse, le donne ricoprono posizioni e ruoli
diversi, a seconda delle tradizioni e dei costumi, dei
modi di vita, del grado di sviluppo economico e
tecnologico. Nella maggior parte dei paesi musulmani, le
norme di diritto di famiglia prevedono ruoli totalmente
diversi per l’uomo e per la donna nell’ambito familiare:
l’uomo gode di una posizione di netto vantaggio rispetto
alla donna23. Il nucleo della comunità musulmana è la
famiglia, unita dalla fede e dal rispetto della
tradizione islamica24. L’Islam ritiene che il ruolo
primordiale della donna sia di preservare l’unità della
famiglia.
Nell’Islam, la figura del
“cittadino” è influenzata da una serie di relazioni di
parentela e di comunità che lo pongono in una posizione
specifica rispetto allo stato, a seconda della posizione
che egli/ella occupa nella famiglia e nella comunità. E’
il tipo di relazioni sociali, religiose e familiari che
conferiscono determinati diritti ad un uomo ed una
donna. I diritti “relazionali” sono alla base delle
pratiche della cittadinanza e richiedono ai soggetti di
legarsi o appartenere a comunità subnazionali, quali
gruppi tribali e famiglie, al fine di guadagnare
l’accesso ai diritti ed ai privilegi della cittadinanza.
In gran parte dei paesi mediorientali, le leggi del
Codice di famiglia sono state il terreno di battaglia di
molti movimenti femministi, riformisti, islamisti e
laici.
Nei codici della famiglia sono
contenute norme importanti per la vita delle donne,
poiché regolano l’accesso delle donne a diversi diritti
quali il divorzio, la tutela e la custodia dei figli,
l’eredità e l’istituzione del contratto matrimoniale.
Infatti, le norme contenute nel codice dello statuto
personale sono l’ambito, al contempo simbolico e
materiale, in cui si istituzionalizza l’importanza della
famiglia e delle relazioni di genere. Molti stati
mediorientali hanno lasciato che l’ambito del codice
della famiglia venisse regolato dalle diverse fedi
religiose legalmente riconosciute nei vari paesi, spesso
non offrendo alternative civili25. La riforma dei codici
dello statuto personale sono stati il cavallo di
battaglia dei movimenti delle donne. Nel mondo arabo
musulmano, i movimenti di emancipazione sociale della
donna si sono affermati tra la fine del secolo scorso e
gli inizi di questo: tale periodo è noto come “periodo
del risveglio” e della ‘rinascita’, ovvero “Nahda”.
Tutte le donne si mobilitarono per chiedere con
manifestazioni, gruppi, forme di associazioni ed altre
forme di azione o rivendicazione il diritto
all’istruzione, al lavoro, le riforme legislative della
“sharia” e la laicizzazione delle istituzioni dello
stato26. In alcuni paesi come il Pakistan,
l’Afghanistan27, il Sudan e soprattutto l’Iran28 le
riforme sono state introdotte solo in parte. Molti paesi
arabi e musulmani sono firmatari della CEDAW anche se,
attraverso l’inserimento di specifiche clausole, essi
hanno mostrato riserve su alcuni importanti aspetti
considerati in contrasto con la shari’a. Dunque, anche
se gli stati sono firmatari di clausole e convenzioni
internazionali sui diritti umani ed i diritti delle
donne, rimane un forte substrato culturale patriarcale e
conservatore29.
Tuttavia, non bisogna dimenticare
che in tutte le grandi civiltà (cristiana, musulmana,
indiana e cinese) i rapporti fra uomo e donna sono stati
sempre improntati su due principi: la gerarchia fra uomo
e donna e la divisione del lavoro, i quali prevedono che
la donna si occupi della casa e della famiglia mentre
all’uomo spetta tutto il resto. Questi principi non sono
stati mai messi in dubbio, sono apparsi come fatti
naturali. Solo negli ultimi anni in Occidente30 questi
principi sono stati posti in discussione.
In molti paesi a maggioranza
islamica, il divario tra condizione maschile e femminile
è notevole, ma per lo più si tratta di paesi in cui è in
atto un lento processo di alienazione religiosa e
culturale, un’occidentalizzazione rampante che ha
colonizzato una parte importante della produzione
simbolica di queste società. In esse si è fatto strada
il concetto che “maggiore libertà significa maggiore
occidentalizzazione” e di ciò fanno le spese proprio le
donne, che finiscono per essere strumentalizzate da
dittature sanguinarie ma "liberali perché laiche" e
perdono così la maggior parte dei diritti che Dio ha
loro concesso. Non a caso, le condizioni più critiche
riguardano proprio le donne appartenenti a tali società
"occidentalizzate", come la Tunisia, il Marocco e
l’Algeria. Inoltre, è sbagliato identificare l’Islam con
i modelli afgani o sauditi, poiché questi sistemi,
negando alle donne l’accesso alla conoscenza, sono in
opposizione con i principi dell’Islam. Infatti, l’Islam
non tollera coloro che sono inclini ai pregiudizi contro
le donne o che operano discriminazioni tra i sessi.
Secondo l’Islam, la donna musulmana è la compagna
dell’uomo, in nulla inferiore a lui. L’uomo non ha
potere sulla donna, tranne che nello specifico contesto
familiare. Inoltre, la donna può scegliere di diventare
musulmana indipendentemente dalla fede dei suoi parenti
più prossimi, ha la possibilità di scegliere
autonomamente se accettare un matrimonio, e, se non vi è
l’assenso di quest’ultima, il matrimonio non può essere
considerato valido. Come l’uomo, anche la donna viene
indirizzata alla conoscenza ed al perseguimento di
nobili qualità morali, quali la generosità, la
gentilezza, l’altruismo e la sincerità. Nessuno,
nell’ordine islamico, può porre ostacoli alla donna, la
quale è chiamata a contribuire al benessere generale ed
alla realizzazione degli obiettivi religiosi. Uno dei
diritti fondamentali della donna musulmana è quello di
non essere considerata un oggetto di piacere ad uso e
consumo degli uomini. La sua dignità può essere
osservata dalla modestia dell’abbigliamento. Il Corano
fa chiaramente intendere che la modestia
nell’abbigliamento, obbligatoria anche per l'uomo, ha il
compito di preservare l’integrità della donna ed il
rispetto nei confronti dell’uomo. Quindi, il punto di
vista islamico non è quello di vietare i rapporti tra
uomo e donna, ma di fare in modo che essi siano
improntati alla solidarietà ed alla mutua collaborazione
per la costituzione di una società pura e devota.
L’Islam non mira alla repressione ma all’educazione,
poiché tutto ciò che rappresenta un divieto inibisce la
condotta legittima dell'individuo.
Dunque, ogni limitazione
ingiustamente imposta alla donna tradisce lo spirito
dell’Islam. La conoscenza da parte della donna dei testi
sacri ed il suo livello d’istruzione fanno sì che l’uomo
non possa imporle con facilità la sua sola
interpretazione del Corano. Il riferimento autentico
all’Islam e la lotta all’ignoranza religiosa sono le
uniche forze in grado di vivificare la condizione umana,
femminile e maschile. Ciò che emerge da queste
considerazioni è che spesso la fonte delle
discriminazioni nei confronti delle donne non sta nella
religione, ma nella cultura e nelle tradizioni tribali
che ad essa si sono sovrapposte. Molte donne musulmane
subiscono le pressioni della cultura che le circonda e
non conoscono i diritti che la religione concede loro.
Le società nelle quali vivono, per una ragione o per
un’altra, non forniscono loro le condizioni per accedere
agli insegnamenti fondamentali. E' possibile ed è
auspicabile, invece, che la lotta delle donne per vedere
riconosciuti i propri diritti avvenga privilegiando
l’educazione, l’istruzione ed il lavoro. Solo questi
fattori sono in grado di riportare le società musulmane
all’antico splendore, al periodo in cui la luce
dell’Islam e degli insegnamenti del Profeta non ponevano
limiti alle possibilità degli uomini e delle donne.
4. Diritti e multiculturalismo. Il
dibattito in Europa
La storia dell’umanità è
caratterizzata dal movimento e dalla creazione continua
di reti ed intrecci tra persone provenienti da contesti
geografici, politici e religiosi diversi. Lo studio
delle relazioni interculturali è connesso al fenomeno
della globalizzazione, una nuova struttura relazionale
promossa dal mondo occidentale per fornire risposte ai
bisogni del commercio internazionale. Con il termine
globalizzazione si indica dunque un fenomeno di crescita
progressiva delle relazioni e degli scambi di vario
genere a livello mondiale ed in diversi ambiti, che si è
manifestato a partire dalla fine del XX secolo. Tale
termine non si riferisce solo ai mutamenti economici, ma
si contestualizza all’interno di mutamenti sociali,
tecnologici e politici. La globalizzazione, i flussi
migratori, le guerre ed il colonialismo hanno portato
alla nascita di società culturalmente eterogenee
costituite da diversi gruppi etnici. Anche se alcune
società tendono ad essere culturalmente omogenee che
propugnano il monoculturalismo31, la maggior parte delle
società moderne è definita “multiculturale” poiché è
costituita da un alto grado di differenza culturale
interna.
Con il termine “multiculturalismo”
si intende la coabitazione di diversi gruppi
linguistici, culturali e religiosi che vivono nel
medesimo spazio territoriale. Tale termine è stato
impiegato alla fine degli anni ‘80 negli Stati Uniti,32
per indicare una società dove più culture potessero
convivere nel reciproco rispetto, ma fuori da ogni
dominazione ed assimilazione alla cultura dominante.
Negli anni ‘80 è sorta la necessità di costruire una
società multiculturale, collegando questa esigenza alla
democrazia ed alla globalizzazione.
Il multiculturalismo rappresenta
l’aspirazione dei rappresentanti dei vari gruppi
minoritari ad affermare la legittimità delle proprie
differenze ed ad ottenere il riconoscimento dei loro
tratti culturali.
L’aspetto problematico del
multiculturalismo sta nella difficoltà di tenere insieme
il riconoscimento di eguale dignità e rispetto dovuto a
ciascun essere umano e l'identità particolare dei
diversi gruppi.
Il diritto all’identità culturale
rappresenta oggi una delle sfide con cui gli ordinamenti
di matrice liberale si sono confrontati. Il bisogno di
difendere la propria identità culturale può essere
ricondotto a due cause. Innanzitutto, indebolendosi il
senso di appartenenza nazionale a causa della
globalizzazione, gli attori sociali sentono il bisogno
di riaffermare le proprie origini comunitarie, etniche e
nazionali. In secondo luogo, essendo ormai
universalizzato il principio dell’eguaglianza, si è
consapevoli del diritto di veder riconosciuta la propria
diversità.33
Nel costituzionalismo
contemporaneo, in cui si è assistito al passaggio da una
visione individuale ad una visione sociale della
persona, si è sviluppata una correlazione stretta tra i
diritti civili e sociali, cioè tra i diritti connessi al
principio di libertà ed i diritti connessi al principio
di uguaglianza. In tale contesto, il più recente
riconoscimento del pluralismo e delle diversità ha
permesso una tutela della persona come parte di un
gruppo, un’entità intermedia che si interpone tra il
singolo e lo stato34.
Nella società contemporanea, il
modello occidentale prevale sia sul piano economico che
culturale, ma contemporaneamente si intensificano le
rivendicazioni a difesa della propria identità nazionale
ed etnica. Infatti, spesso, i rapporti tra culture sono
caratterizzati da asimmetrie di potere. La crescente
diversità dei gruppi umani, la loro coesistenza
all’interno di uno stesso spazio socio-politico e
l’influenza che deriva dal contatto tra più culture e
persone che perseguono valori, progetti, credenze e
stili di vita differenti rappresentano le
caratteristiche principali del multiculturalismo che si
va diffondendo nelle società culturalmente più avanzate.
L’incontro tra culture diverse ha avuto inizio con le
massicce migrazioni e con l’interdipendenza economica
dei paesi che hanno facilitato il sistema degli scambi
internazionali e delle comunicazioni. Tale compresenza
di gruppi eterogenei portatori di culture distinte
comportano adeguate misure regolative da parte del
governo e della società ormai miscela di culture. Il
governo e la società dovranno intraprendere la strada
per il riconoscimento di diritti umani universali che
tutelano l’individuo rispetto alla comunità di
appartenenza e dovranno favorire un clima di conforto e
di dialogo tra le diverse etnie coabitanti nel medesimo
territorio35. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 e
la guerra in Afghanistan ed in Iran, alcuni paesi
occidentali si sono dovuti confrontare con un nuovo
fenomeno: la difesa dei valori moderni e democratici
(come i diritti umani e la liberal –democrazia) contro
un “nemico” religioso e culturale ben identificato
ovvero la religione e l’Islam. Nel mondo occidentale,
l’insediamento della cultura islamica rappresenta una
delle sfide per le società europee. Di fronte a tali
diversità etniche e culturali prevale negli occidentali
un sentimento di conservazione della propria integrità
culturale e linguistica, ovvero la difesa della propria
identità nazionale. Gli attentati terroristici hanno
riproposto la difficile questione tra Islam ed
Occidente. Dopo l’11 settembre, la relazione tra mondo
islamico e mondo occidentale diviene soprattutto una
relazione tra islamisti “radicali- terroristi” ed
occidentali. Infatti, dopo l’11 settembre cresce la
diffidenza nei confronti dell’Islam ed, in particolare,
del velo islamico, che nel nostro immaginario è
percepito come un simbolo di “aggressività” ed innesca
in molte persone reazioni di intolleranza e di sospetto.
In seguito agli avvenimenti che hanno causato la guerra
in Afghanistan, i gruppi di popolazione immigrata che
risiedono in Europa, hanno assistito ad un peggioramento
della propria condizione sociale a causa di
atteggiamenti discriminatori che hanno accentuato
fenomeni come la segregazione, la marginalizzazione e la
ghettizzazione36.
Il massiccio spostamento delle
persone comporta inevitabilmente un incontro tra culture
diverse, caratterizzate ciascuna da norme differenti,
quali norme giuridiche, religiose, etiche, sociali e
comportamentali.
La scuola è il primo spazio
pubblico in cui queste differenze oggi si rendono più
visibili. Oggi la scuola assume un ruolo strategico per
la trasformazione delle comunità locali, un tempo
monoculturali e monoreligiose, ora multiculturali e
multireligiose. In ambito scolastico, la tutela della
libertà religiosa (ad esempio, il velo islamico o
simboli confessionali come il crocifisso) pone
molteplici problemi sia sotto il profilo dei diritti
individuali, sia dal punto di vista dei diritti
collettivi. Il principio di laicità viene sempre più
riproposto sia nella legislazione dei singoli Stati, sia
nella giurisprudenza delle Corti nazionali sia europee.
La questione sull’esposizione dei
simboli religiosi ruota attorno al presupposto che
un’effettiva tutela del diritto di libertà religiosa
richiede oltre al riconoscimento del diritto di non
dover dichiarare la propria fede di appartenenza, anche
quello di non subire alcuna forma di limitazione
nell'esternare la propria fede. Gli ultimi anni sono
stati teatro di accese dispute e dibattiti tra Occidente
ed Islam, in particolare sulla questione del velo
islamico.
I paesi europei hanno adottato
legislazioni ed atteggiamenti culturali differenti sul
velo islamico ed in particolare sul velo integrale. Il
dibattito sul velo, in particolare il chador, ha avuto
luogo in Francia nel 1989, quando alcune ragazze
rifiutarono di togliersi il velo nella scuola. Da
allora, il suo uso si è esteso alle ragazze ed alle
donne musulmane in Europa e nello stesso mondo
musulmano. Dopo un acceso dibattito che ha coinvolto non
solo la società francese, ma anche quella europea e
mondiale, il Parlamento di Parigi ha votato una legge
che vieta l’uso del velo islamico37 e l'esibizione dei
simboli religiosi nelle scuole38. Nel 2008, anche in
Turchia39 è stata approvata la legge sul divieto di
indossare negli uffici pubblici simboli di appartenenza
religiosa, ispirandosi a quanto stabilito dalla
Costituzione laica di Kemal Ataturk40. In Italia, l’ex
presidente del Consiglio Romano Prodi41
intervenne in un’intervista al
giornale inglese “Reuters” nel dibattito sorto in
Francia sul divieto del velo e proseguito poi nel Regno
Unito42. Prodi invitò le donne musulmane in Italia a non
indossare il velo integrale, in modo che il volto delle
donne fosse visibile e se ne consentisse
l’identificazione. In Italia,43 non esiste una legge
specifica sul velo poiché la legge 152 del 1975
“Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico” si
riferisce al divieto nei luoghi pubblici di una
copertura totale del volto. L’Italia assume nei
confronti della questione del velo una posizione
intermedia tra chi è del tutto contrario al velo come
gli Stati laici della Turchia, della Tunisia e del
Marocco e chi impone l’uso del velo alle donne come
l’Arabia Saudita, l’Iran e l’Afghanistan. Tariq
Ramadan44 sostenne che imporre il velo ad una donna è
contro i principi dell'Islam ma vietarlo è una
violazione ai diritti dell’uomo.
Nel fluire della modernità, il velo
assume significati e valori diversi rispetto ai quali è
bene interrogarsi, articolando un dialogo con le
diversità che smentisca futili allarmismi e vada oltre
una retorica dell’identità che per affermarsi esaspera e
demonizza le differenze.
5. Per una conclusione
Come abbiamo visto, queste due
grandi civiltà, islamica ed occidentale, si intrecciano,
si incontrano e si scontrano nel corso della storia. Si
tratta di due mondi in piena trasformazione, inquieti
circa il proprio futuro. Nella fase attuale, si registra
da parte di queste civiltà una tendenza a rappresentarsi
vicendevolmente come pericolo, minaccia e sospetto. Come
è noto, le relazioni fra Islam ed Occidente sono
diventate più complesse a causa degli attacchi
terroristici. In questa situazione chi ne ha pagato le
conseguenze sono proprio le donne. Molte donne musulmane
tentano di legittimare le proprie rivendicazioni di
parità e di piena cittadinanza, come progetti in
sintonia con il messaggio della propria religione
islamica, nel tentativo di contrastare coloro che
attaccano i diritti delle donne definendoli alieni
all’Islam. Queste lotte hanno come obiettivo quello di
sconfiggere le posizioni islamiste più radicali che sono
contrarie alle riforme, con lo scopo di un’apertura ed
un’acquisizione dei diritti da parte delle donne.
Percorrendo la storia del velo e della tradizione
islamica, possiamo inquadrare un Islam diametralmente
opposto a quell’immagine negativa su cui siamo spesso
abituati a fondare le nostre opinioni45. Come abbiamo
detto, il velo assume la valenza di un simbolo dietro il
quale si celano una pluralità di significati. Può
assumere connotati di un simbolo religioso, emblema
della tradizione ma anche rappresentazione di una
modernità diversa da quella occidentale. In realtà, sono
molte le ragioni per cui una donna indossa il velo. La
difficoltà maggiore risiede nello stabilire quando la
donna sceglie liberamente di indossarlo o quando invece
vi è costretta.
Dopo gli attacchi dell’11 settembre
2001, si apre un capitolo nuovo nel divenire delle
relazioni tra Islam ed Occidente. In seguito a questi
avvenimenti, stiamo assistendo ad un processo di
demonizzazione e criminalizzazione dell’Islam che
potremmo definire “islamofobico”. Infatti, negli ultimi
anni, le immigrate musulmane hanno subito un
peggioramento della loro condizione; queste sono spesso
soggette a pregiudizi, intolleranza, sospetto e ad
un’analisi superficiale e riduttiva per quanto concerne
l’uso del velo. Nonostante viviamo in una società
globale e multiculturale, assistiamo ancora a numerosi
episodi di intolleranza e di discriminazione. In molti
casi, infatti, quando ci capita di incontrare una donna
che indossa il velo, la nostra reazione è di sospetto,
di pregiudizio o di curiosità. Spesso, fondiamo le
nostre opinioni sulle immagini trasmesseci dai media. Ci
viene presentata l’immagine di una donna completamente
coperta di nero e sottoposta al potere degli uomini.
Tuttavia, in una società multiculturale come la nostra
non è più possibile ignorare la presenza di altre
culture e soprattutto non è possibile rivolgersi ad esse
con una mentalità etnocentrica. L’etnocentrismo è un
termine utilizzato per designare la tendenza a giudicare
le altre culture ed interpretarle in base ai criteri
della propria, proiettando su di esse il nostro concetto
di evoluzione, di progresso, di sviluppo e di benessere.
Tale presunzione di superiorità è da annoverarsi tra le
principali cause del colonialismo. La tendenza ad
universalizzare i propri modelli culturali costituisce
un ostacolo insormontabile alla comprensione dei modelli
di altre culture. Finché il nostro sguardo sarà quello
di un osservatore occidentale che giudica l’alterità e
le diversità come sinonimo di inferiorità, sarà
impossibile qualsiasi tipo di comunicazione e di
contatto che non siano prevaricatori e distruttivi.
In opposizione all’etnocentrismo ed
alle gerarchizzazioni di stampo evoluzionista, fra
culture superiori ed inferiori, la scuola antropologica
americana elaborò il cosiddetto “relativismo culturale”.
Come abbiamo visto, il relativismo nasce all’interno
della concezione pluralistica della cultura promossa da
Boas. Secondo tale concezione, gli elementi di una data
cultura vanno compresi e valutati nell’ambito del gruppo
sociale a cui essi appartengono. Questa prospettiva
afferma le pari dignità di tutte le culture e facilita
una profonda comprensione di usi e costumi diversi.
Tuttavia, il relativismo non è concepibile in una
società come la nostra che si è indirizzata verso una
prospettiva multiculturale ed interculturale. Parlare di
società multiculturale significa riferirsi alla
compresenza, in uno stesso territorio, di culture
differenti. La nostra società è in continua evoluzione
grazie alla presenza massiccia di immigrati portatori di
diversità economiche, politiche, religiose e culturali.
In un contesto sociale globalizzato
e multiculturale dove l’interdipendenza umana, le
migrazioni a livello mondiale, il ruolo primario dell’
economia globale, dei mass media e delle nuove
tecnologie sono in continua crescita, l’attenzione deve
essere necessariamente volta alla comunicazione tra
culture diverse. Limitarsi all’incontro tra diverse
culture non pone le basi per un’effettiva educazione
interculturale: occorre rimuovere principalmente gli
ostacoli sociali ed economici che molti soggetti
incontrano nella società, affinché questi possano
disporre di pari opportunità sociali.
L’interculturalismo è il termine
utilizzato per indicare il contatto, la conoscenza e lo
scambio tra culture diverse. Grazie al contatto e la
relazione tra culture si verificano i seguenti fenomeni:
interazione, mutamento, reinterpretazione ed
assimilazione di modelli culturali altrui. In tale
contesto, un passo importante da compiere è il
riconoscimento dei diritti ed il pieno rispetto
dell’identità di ciascun popolo. La storia dell’ umanità
è costellata da fusioni di gruppi e culture diverse.
Bisogna, quindi, scardinare ogni giudizio xenofobo,
razzista, etnocentrico e qualsiasi fondamentalismo
religioso che possano rendere difficile una convivenza
pacifica e democratica.
Gli avvenimenti dell’11 settembre
2001, la guerra in Afghanistan ed in Iraq, e la
crescente tensione in Medio Oriente confermano quanto
sia necessario intraprendere, nella nostra società,
iniziative come quella dell’“Anno internazionale del
dialogo tra culture”46. Questo documento attesta
l’importanza della comunicazione fra culture ed il
rispetto delle pluralità culturali.
L’ Anno europeo ha l’obiettivo di:
promuovere il dialogo tra le
culture, quale strumento atto ad aiutare i cittadini
europei ad acquisire le conoscenze e le capacità che
consentano di vivere in un contesto più aperto e più
complesso;
sensibilizzare i cittadini
europei al rispetto delle diversità culturali e dei
valori comuni.
Negli ultimi anni, la presenza in
Europa dei musulmani è sempre più radicata, fa parte
della quotidianità della vita degli Europei. La presenza
attualmente in crescita delle donne musulmane nella
nostra società impone la necessità di una conoscenza più
seria ed approfondita della cultura e del velo islamico,
evitando così la disinformazione ed i luoghi comuni che
sono spesso causa di discriminazione ed esclusione
sociale delle donne musulmane. Superare il pregiudizio è
indispensabile per avviare un cambiamento culturale ed
affrontare queste tematiche in rapporto al diritto di
cittadinanza ed all’ esercizio delle libertà
fondamentali per le minoranze culturali e religiose.
In conclusione, a mio avviso, il
rispetto delle diversità culturali e la promozione di un
comune patrimonio culturale è più che mai indispensabile
in un mondo in via di globalizzazione.
BIBLIOGRAFIA
AHMED LEILA, “Oltre il velo. La
donna nell’Islam da Maometto agli ayatollah”, La nuova
Italia, Firenze, 1995.
BALLAMAN EDOUARD, “Piccola guida
alla cultura islamica”, Grafiche Sedran Snc, San Vito al
Tagliamento (PN), 2005.
BARTOLONI STEFANIA, “A volto
scoperto, donne e diritti umani”, Manifesto libri srl,
Roma, 2002.
BOAS FRANZ, “L’uomo primitivo”,
Laterza, Bari, 1972.
COMMISSIONE NAZIONALE PER LA
PARITA’ E LE PARI OPPORTUNITA’ TRA UOMO E DONNA, Pechino
1995, Dichiarazione e Programma d’azione adottati dalla
quarta conferenza mondiale sulle donne: azione per
l’uguaglianza, la pace e lo sviluppo, Presidenza del
Consiglio dei Ministri, Roma, 1996.
CRESPI FRANCO, “Manuale di
sociologia della cultura”, Laterza, Roma, 2003.
DASSETTO FELICE, “L’Islam in
Europa”, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1994.
DASSETTO FELICE, “L’incontro
complesso, mondi occidentali e mondi islamici”, Città
Aperta s.r.l., Troina (Enna), 2004.
DIPARTIMENTO PARI OPPORTUNITA’,
Terzo rapporto del governo italiano sull’ applicazione
della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di
discriminazione contro le donne, Roma, 1997.
FABIETTI UGO, “Storia
dell’antropologia”, Zanichelli S.P.A., Bologna, 2001.
GALLI CARLO, “Il multiculturalismo,
ideologie e sfide”, il Mulino, Bologna, 2006.
HADDAD WADIH GEORGES, “La donna in
Medio Oriente, storia e prospettive confronto con
l’Occidente”, Marietti S.P.A., Genova- Milano, 2006.
HUNS KUNG, “Islam. Passato,
presente e futuro”, BUR saggi (biblioteca universale
Rizzoli), Milano, 2007.
KOUIDER SAMIA, “La donna nella
religione musulmana” in "Le figlie di Abramo. Donne
Sessualità e religione" a cura M.A. Sozzi, Guerini,
collana percorsi femminili nel novecento, Milano, 1998.
LATOUCHE SERGE,
“L'occidentalizzazione del mondo”, Bollati Boringhieri,
Torino, 1992.
MARAINI TONI, “Aspetti storici ed
attuali nel mondo islamico” , Agenda “Di Marzo In Marzo.
Ragazze d’Europa, a cura del Comitato Internazionale 8
Marzo, Donne del Mondo, Perugia, 2009.
MERNISSI FATIMA, “Le donne del
profeta. La condizione femminile nell'Islam”, ECIG,
Genova, 1992.
PICCARDO ROBERTO HAMZA, “Il Corano
versione integrale”, prefazione Di Franco Cardini,
introduzione Pino Blasone, revisione e controllo
dottrinale U.C.O.I.I., Newton & Compton, Roma, 2008,
pp.87-107.
RAMADAN TARIQ, “Islam e libertà”,
Einaudi, Torino, 2008.
RIVERA ANNAMARIA, “La guerra dei
simboli. Veli postcoloniali e retoriche sull’alterità”,
Dedalo, Bari, 2005.
RIVERSO EMANUELE, “Capire l’Islam”,
Prohemio, Firenze Atheneum, Firenze, 2003.
ROSSI PIETRO, “Tylor, Boas, Lowie,
Kroeber, Malinowski, Murdock, Linton, Bidney, Kluckhohn,
Herskovits: il concetto di cultura. I fondamenti teorici
della scienza antropologica”, Einaudi, Torino, 1970.
RUBA SALIH, “Musulmane Rivelate,
Donne, Islam, modernità”, Carocci S.P.A., Roma, 2008.
SAID EDWARD, ”Orientalismo.
L’immagine europea dell’ Oriente”, Feltrinelli, Milano,
2002.
SEMPRINI ANDREA, “Il
multiculturalismo. La sfida della diversità nelle
società contemporanee”, Franco Angeli, Milano, 2001.
SGRENA GIULIANA, “Il prezzo del
velo, la guerra dell’Islam contro le donne”,
Feltrinelli, Milano, 2008.
TAVOLA ROTONDA, “I volti
dell’Islam”, documento realizzato in esclusiva per Aspen
Institute Italia, Milano, 3 dicembre 2007.
Quotidiani ed articoli
giornalistici :
LOPAPA CARMELO, “Velo si, ma non
celate i volti, invito di Prodi alle musulmane”,
<<Repubblica>> pubblicato il 18 ottobre 2006.
MAGDI ALLAM, “Abu Dhabi vieta il
velo alle impiegate” <<Corriere della Sera>>, 8 giugno
2005.
MAZZA VIVIANA, “I burqa fatti in
Cina, ultima moda Afgana”, <<Corriere della Sera>>, 6
febbraio 2008.
SANTONI SIMONA, “Venezia, turista
con il velo lasciata fuori dal museo”, <<Donna
Moderna>>, 26 agosto 2008.
WOLF NAOMI, “La sessualità velata”,
<<New York Times>>, 30 settembre 2008.
Siti WEB consultati:
www.dirittiumani.donne.aidos.it:
sito web dell’Aidos, associazione italiana donne per lo
sviluppo ed i diritti umani.
www.islam.com: i principi cardine
dell’Islam.
www.pz.rawa.org.it : sezione
italiana del sito Rawa.
www.vitadidonna.it: dibattiti sui
temi riguardanti i diritti e le culture delle donne
www.wikipedia.it: le differenze tra
i diversi tipi di velo.
2 La Dichiarazione fu approvata
dall’Assemblea generale dell’ONU il 10 dicembre 1948 al
termine della seconda guerra mondiale da 48 stati (oggi
189). I trenta articoli di cui si compone, sanciscono i
diritti individuali, civili, politici, economici,
sociali e culturali di ogni persona. Molti paesi hanno
compendiato i termini della Dichiarazione entro la
propria costituzione. In base alla Carta delle Nazioni
Unite gli stati membri si impegnano ad intervenire
individualmente o congiuntamente, per promuovere il
rispetto universale e l'osservanza dei diritti dell'uomo
e delle libertà fondamentali.
3 Il Bill of Rights è un documento
stilato dal parlamento britannico nel 1689 e ed è
considerato uno dei cardini della costituzione del Regno
Unito. Esso limitava fortemente le prerogative regie,
assegnando al parlamento il controllo delle finanze,
escludendo ogni interferenza del re nell'amministrazione
della giustizia e garantendo piena libertà di parola ai
membri del parlamento.
4 Testo giuridico elaborato nel
corso della rivoluzione francese, da inserire nella
futura costituzione, nell'ottica del passaggio dalla
monarchia assoluta dell'Ancien Régime ad una monarchia
costituzionale. La Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e
del Cittadino si compone di un preambolo e di 17
articoli, contenente una solenne elencazione dei diritti
fondamentali dell’uomo e del cittadino e le norme
fondamentali che regolano la vita dei cittadini tra di
loro e con le istituzioni. Tale documento ha ispirato
numerose carte costituzionali ed ancora oggi il suo
contenuto costituisce uno dei più alti riconoscimenti
della libertà e dignità umana.
5 Nel gennaio del 1918 il
presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson dopo la
vittoria alla fine della prima guerra mondiale, espose
al Senato degli Stati Uniti d'America i suoi Quattordici
Punti ai quali si sarebbe ispirata la sua azione nella
futura conferenza per la pace. Wilson intendeva
promuovere una pace senza vincitori, poiché era convinto
che una pace imposta con la forza avrebbe contenuto in
sé gli elementi di un'altra guerra. Doveva trattarsi di
una pace basata sull'eguaglianza delle nazioni,
sull'autogoverno dei popoli, sulla libertà dei mari e su
una riduzione generalizzata degli armamenti.
6 Il 5 novembre 1940 Roosevelt
istituì il Comitato Nazionale di Difesa ed espose al
congresso degli Stati Uniti la dottrina delle quattro
libertà. Esse sono la libertà di parola, di espressione,
di culto e la libertà di sfuggire alla paura. Secondo
Roosevelt l’obiettivo degli Usa deve essere il
perseguimento di tali libertà a livello mondiale.
7 René Samuel Cassin è stato un
giurista, magistrato e diplomatico francese. Presidente
della Corte Europea dei diritti dell'uomo. Nel 1968 ha
ricevuto il Premio Nobel per la pace.
8 Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione Europea proclamata a Nizza nel 2000 ed
incorporata nel Trattato che istituisce una Costituzione
per l'Europa. La carta si divide in 54 articoli
raggruppati in 7 capi i cui titoli enunciano i valori
fondamentali promossi dall’Unione europea: dignità,
libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e
giustizia.
9L'Organizzazione delle Nazioni
Unite (ONU) è un’organizzazione internazionale ed
intergovernativa. Le Nazioni Unite perseguono la
cooperazione internazionale in ambito economico e
socioculturale, i diritti umani e la sicurezza
internazionale. Relativamente alla sicurezza
internazionale ha come fine il mantenimento della pace
mondiale anche attraverso efficaci misure di prevenzione
e repressione delle minacce e violazioni ad essa
rivolte.
10 E' il documento che ha fondato
l'Onu nel 1945 al termine della guerra. E' stata
ratificata dall'Italia (dopo che il nostro Paese fu
ammesso nell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel
1955) con legge 17 agosto 1957 n. 848. Tutti gli stati
membri delle Nazioni Unite hanno l'obbligo legale di
impegnarsi per la piena realizzazione dei diritti umani
per tutte le persone.
11Art. 1. Uno degli obiettivi della
Carta è la cooperazione a livello internazionale per la
promozione e l'incoraggiamento del rispetto per i
diritti umani e per le libertà fondamentali di tutti gli
individui.
12 Dal 14 al 25 giugno 1993, si è
tenuta a Vienna la Conferenza Mondiale delle Nazioni
Unite sui diritti umani. I rappresentanti di 171 Stati
hanno approvato con votazione unanime, una Dichiarazione
ed un Programma d'Azione per la promozione e la tutela
dei diritti umani nel mondo. La Dichiarazione ed il
Programma d'Azione di Vienna sono il risultato di un
lungo processo di valutazione e di discussione sullo
stato dei diritti umani nel mondo. Questi segnano
l'inizio di un rinnovato impegno per rafforzare e
sviluppare l'insieme degli strumenti giuridici posti a
tutela dei diritti umani, costruiti con grande fatica
sin dal 1948 sulla base della Dichiarazione Universale
dei Diritti Umani.
13 Art. 2. della Dichiarazione
Universale.
14 Per esempio in India non esiste
un codice civile uniforme rispetto al diritto di
famiglia ed ogni comunità religiosa applica leggi
proprie, spesso con gravi conseguenze per le donne che
subiscono trattamenti diversi, solitamente iniqui, in
materia di divorzio, custodia dei figli ed eredità a
seconda del gruppo religioso a cui appartengono.
Stefania Bartoloni “A volto scoperto. Donne e diritti
umani”, Manifesto libri srl, Roma, 2002, cfr. al testo
di Elisabetta Vezzosi “Una storia difficile”, pp. 41-64.
15Negli anni 90 ci sono state tre
conferenze mondiali che si sono occupate dei diritti
umani, quali la Conferenza dei diritti umani di Vienna
(1993),la Conferenza sulla popolazione e sullo sviluppo
del Cairo (1994) e la Conferenza sulle donne di Pechino
(1995).
16La petizione fu tradotta in 23
lingue ed usata da oltre mille gruppi che raccolsero
mezzo milione di firme a suo sostegno in 124 paesi. La
petizione e le sue richieste diedero inizio alla
discussione sul perché i diritti delle donne e la
violenza fossero lasciate fuori dalle considerazioni
generali sui diritti umani.
17 La lotta alla violenza contro le
donne è diventata il terreno sul quale sperimentare una
nuova dimensione dei diritti umani. Giuriste, politiche,
associazioni di donne, organizzazioni non governative,
istituzioni internazionali femminili (l’Unifem), la
commissione sulla condizione delle donne ed il Fondo
delle Nazioni Unite si impegnarono affinché la violenza
da chiunque praticata, venga riconosciuta come una
violazione del diritto all’integrità fisica, alle
libertà fondamentali, quali la libertà di movimento, il
diritto alla salute, ovvero diritti tutelati da
convenzioni “universali” concepite per uomini e donne
indistintamente.
18 È importante precisare che gli
accordi che le conferenze hanno steso non hanno valore
giuridico vincolante. Molti di essi hanno rappresentato
rilevanti strumenti politici, utilizzati sia dai governi
che dai movimenti delle donne di tutto il mondo, sia a
livello internazionale che nelle proposte politiche a
livello nazionale e locale. Questi documenti sono stati
utilizzati per rinforzare ed interpretare i trattati
internazionali che, sottoscritti da uno Stato, assumono
lo status di legge internazionale.
19 Dichiarazione di Vienna. I, 18,
1993.
20 Dopo la sua adozione nel 1979,
il processo di ratifica della Convenzione CEDAW da parte
degli stati fu piuttosto rapido, consentendo così la sua
entrata in vigore il 3 settembre 1981. Il 22 settembre
2000 l’Italia ha ratificato il protocollo opzionale
della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme
di discriminazione contro le donne (CEDAW)
aggiudicandosi il merito di aver permesso al Protocollo
di entrare in vigore appena un anno dopo la sua
approvazione da parte dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite (1979). Il Protocollo, sorta di
regolamento di attuazione della CEDAW, consente alle
associazioni ed alle donne di ricorrere al comitato
sull’eliminazione delle discriminazioni contro le donne
denunciando situazioni di discriminazione.
21 Art. 5. della CEDAW.
22 Ruba Salih, “Musulmane
rivelate”, Carocci, Roma, 2008, pp. 79-82.
23 Secondo l’interpretazione
tradizionalista, la diversità biologica tra uomo e donna
determina i diversi ruoli e differenti responsabilità
all’interno della società: l’uomo, dotato di forza,
lavora fuori casa, si occupa di affari e politica ed in
famiglia è il capo assoluto, mentre il ruolo della
donna, dotata di sensibilità, si svolge esclusivamente
all’interno della famiglia in qualità di moglie e madre.
Invece, secondo l’interpretazione modernista, in Islam
gli uomini e le donne hanno uguali diritti e doveri e la
reclusione femminile raccomandata nei versi coranici si
riferiva esclusivamente alle mogli del Profeta. Tratto
da “La donna nella religione musulmana” di Samia
Kouider, cfr. al capitolo del volume "Le figlie di
Abramo - Donne Sessualità e religione” a cura M.A.
Sozzi, Guerini, collana percorsi femminili nel
novecento, Milano, 1998.
24Il nucleo della società detta
"moderna" è l'individuo che deve essere ad ogni costo
indipendente dagli altri dal punto di vista finanziario.
25 Fino a pochi anni fa solo la
Turchia, la Tunisia e lo Yemen avevano istituito codici
di famiglia civili, ma anche quest’ultimi erano plasmati
dalle norme religiose. Un caso estremo è quello del
Libano, dove vi sono 18 fedi religiose riconosciute
ufficialmente a cui è consentito di regolamentare i
propri codici di famiglia.
26 Tutto ciò fu esemplarmente
ottenuto in Turchia, con la riforma del 1923 di Ataturk
che abolì la sharia e laicizzò lo stato.
27 RAWA (Revolutionary Association
of Women of Afghanistan), l'associazione rivoluzionaria
delle donne dell’Afghanistan, nacque nel 1977 a Kabul
come organizzazione socio-politica indipendente di donne
afghane in lotta per i diritti umani e la giustizia
sociale. Fu fondata da un gruppo di donne intellettuali
afghane guidate da Meena, assassinata nel 1987 a Quetta,
in Pakistan, dagli agenti afghani dell' KGB. L'obiettivo
di RAWA era di coinvolgere un crescente numero di donne
afghane in attività politiche e sociali volte ad
ottenere diritti umani per le donne e contribuire alla
lotta per la recostituzione in Afghanistan di un governo
basato su valori democratici e secolari. Nonostante
l'opprimente atmosfera politica, l’associazione fu ben
presto coinvolta in molteplici attività in ambito
socio-politico, comprendenti sia l’istruzione, la
sanità, l’economia e l’attività politica.
28Negli ultimi anni l’Iran sta
diventando un esempio di progresso, restando però
tenacemente attaccato ai principi basilari della
religione. Le donne iraniane hanno condotto numerosi
cambiamenti per riformare le leggi di famiglia e
guadagnare maggiore visibilità nella sfera pubblica e
politica a tutti i livelli. Appellandosi alla
reinterpretazione dei testi esse sono riuscite a
guadagnare riforme limitate ma significative, come il
diritto al salario per il lavoro domestico ed il
pensionamento anticipato. Le donne partecipano alla vita
sociale, culturale e sportiva ed il numero di
parlamentari donne è superiore a quello di molti paesi,
anche occidentali.
29 Secondo l’ultimo rapporto sullo
sviluppo umano nel mondo arabo curato dall’UNDP (United
Nations Development Programme) e dedicato allo status
delle donne, le leggi di statuto personale mantengono un
retaggio conservatore e resistente al cambiamento. Ad
esempio la nazionalità è determinata in via patrilineare
nella maggioranza dei paesi (come in Tunisia ed in
Giordania), dove i figli possono acquisire la
nazionalità della madre soltanto se il padre è apolide o
sconosciuto.
30 Fino al 1974 erano recepiti nel
nostro diritto di famiglia e recitati agli sposi
all’atto del matrimonio. Solo attualmente viene sancita
la piena parità tra uomo e donna nell’ordinamento
giuridico e nei principi teorici.
31 La prospettiva "monoculturale"
impone l'idea di uguaglianza come radicale
neutralizzazione delle diversità. In questa prospettiva
le differenze etniche e culturali sono ritenute causa di
un pericoloso sgretolamento della società; al contrario,
il pluralismo culturale ammette l'esistenza delle
differenze etniche e culturali. Queste differenze devono
esprimersi in ambito privato e non in quello pubblico.
Un gruppo minoritario può così conservare alcuni dei
tratti culturali specifici ma gli viene richiesto di
adeguarsi e di condividere un certo numero di valori e
di norme comuni. Il pluralismo culturale pone
l'attenzione sui diritti individuali, legittimati dal
fatto che ogni essere umano al di là della sua singolare
appartenenza ad un gruppo sociale, ad una classe, ad una
razza e ad un’etnia condivide con gli altri una
sostanziale uguaglianza.
32 Negli Stati Uniti tutto è
iniziato con le battaglie sui programmi scolastici,
ossia l’insieme dei classici della letteratura e del
pensiero occidentale che si studiavano nelle scuole. Le
battaglie svolte per una riforma scolastica richiedevano
un ampliamento dei programmi scolastici in modo da far
posto anche ad espressioni artistiche e letterarie di
altre culture. Venne messo sotto accusa il carattere
eurocentrico della storia e della letteratura,
discriminante sul piano etnico nei confronti degli
studenti americani non provenienti dalla tradizione
occidentale europea, ma dall’Africa, dal Messico,
dall’America Latina e dall’Asia. Su questo aspetto si è
scatenata una polemica vastissima, che ha visto
contrapposti i sostenitori delle differenze e del
multiculturalismo da un lato, ed i difensori della
tradizione, dall’altro.
33Crespi Franco, “Manuale di
sociologia della cultura”, Laterza, Roma, 2003, pp.
198-199.
34Carlo Galli, “Il
Multiculturalismo, ideologie e sfide”, cfr. al “Diritto
all’identità culturale come diritto fondamentale dei
singoli e dei gruppi” a cura di Stefano Ceccanti e
Susanna Mancini , il Mulino, Bologna, 2006, pp. 167-170.
35Andrea Semprini, “Il
multiculturalismo. La sfida della diversità nelle
società contemporanee”, Franco Angeli, Milano, 2001.
36 In Francia nei 750 quartieri a
più densa presenza di popolazione immigrata si
registrano un tasso di disoccupazione giovanile intorno
al 50% con problemi di scolarizzazione, segnalazioni ai
servizi sociali tre volte superiori che nel resto del
territorio. In questi quartieri abbandonati dallo stato,
dai comuni e dai servizi pubblici si è creata una
situazione di apartheid economico e sociale tale per cui
si parla di ghetti. Tale situazione che è il risultato
del razzismo istituzionale che caratterizza non solo la
Francia ma tutta l’Europa, ha provocato una rivolta
nelle banlieue (periferie, sobborghi) che alimenta una
produzione reattiva di etnicità e rivendicazioni
identitarie.
Annamaria Rivera, “La guerra dei
simboli”, Dedalo, Bari, 2005, pp.17-21.
37 Nel 2003 la disputa sul velo si
riaccende in seguito all’espulsione da un liceo di
Aubervillers di due studentesse Alma e Lila Levy che si
erano rifiutate di togliere il foulard in classe.
38 Il documento sul quale il
Parlamento francese ha basato le sue decisioni è il
"Rapporto sulla Laicità", che è stato elaborato dalla
“Commissione Stasi” voluta dal Presidente Jacques
Chirac. Il Rapporto sostiene i grandi principi della
laicità: neutralità dello Stato e libertà di coscienza.
Lo Stato neutrale deve difendere la libertà di coscienza
ed impedire che un credo religioso si imponga sugli
altri, deve tutelare l'uguaglianza dei cittadini e la
parità dei sessi, soprattutto nei luoghi pubblici come
la scuola, l’università, la pubblica amministrazione,
nelle carceri, negli ospedali, sui luoghi di lavoro,
nello sport e nella giustizia. La legge approvata dall’
Assemblea Nazionale e dal Senato il 15 marzo 2004 è
entrata in vigore il 2 settembre 2004.
39 Nel 2007, prima
dell’approvazione della legge approvata dal parlamento
turco, il partito Akp (partito per la giustizia e lo
sviluppo, islamico-conservatore), dopo la vittoria
elettorale contro il partito Chp (partito repubblicano e
del popolo), promosse varie proposte di carattere
islamico tra cui la reintroduzione dell’uso del velo da
parte delle studentesse nelle università. Tra i due
partiti si crearono forti opposizioni, in quanto le
proposte di legge presentate dall’Akp si ponevano in
contrasto con il principio di laicità dello stato, su
cui la Turchia moderna è stata fondata dopo la prima
guerra mondiale. A seguito delle proposte di legge
presentate da quest’ultimo, in diverse città turche si
organizzarono delle manifestazioni che portarono
all’abrogazione da parte della Corte Costituzionale
della legge promossa dall' Akp.
40 La Repubblica turca nacque nel
1923 e pose fine all’impero ottomano. Ataturk designato
come “il padre dei Turchi” è stato il primo presidente
della Repubblica ad aver fondato uno stato autoritario,
centralista e laico sul modello degli Stati nazionali
europei dell’Ottocento. Egli ha contribuito alla
creazione, attraverso un programma di ammodernamento del
paese, di una nuova direttiva di sviluppo volta
all’edificazione di una nuova economia, cultura e
comunità. Il programma fu adottato con lo scopo di
modernizzare la cultura nazionale attraverso un pieno
controllo della sfera religiosa da parte dello stato. Il
governo presieduto da Ataturk modificò le leggi,
incoraggiando le donne a svelarsi, ad entrare in
parlamento, nelle università e nelle professioni.
41Carmelo Lopapa, “Velo si, ma non
celate i volti, invito di Prodi alle musulmane”,
<<Repubblica>>, 18 ottobre 2006.
42 In Gran Bretagna non ci sono
leggi che vietano il velo islamico, compreso il burqa,
ma le scuole possono avere un proprio codice di
abbigliamento che vieta di indossare determinati abiti.
Per quanto riguarda le aule del tribunale, nel 2006, il
governo ha stabilito che è consentito indossare il velo,
sempre però che questo non interferisca con la giustizia
e possa rendere il volto irriconoscibile. Jack Straw, ex
ministro britannico, dichiara di essere contrario al
velo islamico, lo definisce un ostacolo alla
comunicazione. Il premier britannico Tony Blair
appoggiando la tesi di quest’ultimo, sostenne la
necessità di conciliare il diritto di indossare il velo
con l’integrazione nella nostra società.
43 Nelle carceri italiane, dal
dicembre 1998, il Ministero di Grazia e Giustizia ha
autorizzato i musulmani detenuti a seguire il ramadan,
accogliendo la richiesta dell’U.C.O.I.I. (Unione delle
Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia) di
garantire a tutti i reclusi di fede islamica la
possibilità di rispettare le regole ed i ritmi del
periodo del digiuno sacro. Sono anche autorizzate le
preghiere comunitarie del Venerdì, precedute dalle
abluzioni rituali.
44Tariq Ramadan, intellettuale
musulmano europeo, è intervenuto nel dibattito nato
negli ultimi anni tra Islam ed Occidente. Egli è un
precursore di un incontro sincero e pacifico tra mondo
islamico e civiltà europea. Nel dibattito sul velo nelle
scuole pubbliche che scoppiò in Francia nel 2004,
Ramadan si schierò affinché fosse lasciata la libertà di
scelta alle donne musulmane di indossare il velo.
45Dopo aver approfondito ed
analizzato alcuni aspetti sociologici ed antropologici
della tradizione islamica e della pratica del velo, ho
ritenuto necessario prendere coscienza personalmente
degli usi e dei costumi della popolazione islamica. La
mia indagine si è svolta in Turchia ed in particolare
nella città di Istanbul. La Turchia è divenuta nel 1923
uno stato laico. La costituzione laica promulgata da
Kemal Ataturk vietò di indossare simboli di appartenenza
religiosa negli uffici pubblici (compresi gli atenei).
In Turchia, l’Islam è professato dal 99% della
popolazione, il restante 1% si divide fra cristiani ed
ebrei. La religione islamica è ancora parte integrante
della popolazione. La pratica del velo è tuttora
osservata dalla maggioranza delle donne. La complessità
della questione del velo si riscontra nella molteplicità
dei motivi per cui una donna decide di indossarlo: il
desiderio di conservare la propria identità, di
rispettare la tradizione dei genitori, di esternare la
propria compostezza, ma può anche essere frutto di una
libera scelta. Grazie a questa esperienza ho potuto
constatare che in realtà, le donne sono libere di
passeggiare da sole per strada, di indossare o meno il
velo, di lavorare, di studiare e non sono soggette a
restrizioni e limitazioni da parte degli uomini.
46 Il 5 ottobre, la Commissione
europea ha adottato una proposta di decisione del
Parlamento europeo e del Consiglio volta a dichiarare il
2008 “Anno europeo del dialogo tra le culture”. Questa
idea era stata prospettata inizialmente, nel settembre
2004, dal commissario europeo, Ján Figel’, incaricato
all’ istruzione, formazione, cultura e multilinguismo.
L’Anno europeo farà leva sulla ricchezza e sulla
diversità di una serie di progetti concreti che saranno
realizzati dal 2008 tramite programmi ed altre azioni
comunitarie. Gli ambiti della cultura, dell’istruzione,
della gioventù, dello sport e della cittadinanza saranno
quelli maggiormente interessati. |