di Martino Conserva
I ministri finanziari sembrano per
ora preferire un nuovo accordo con adesione volontaria
dei creditori. La BCE contraria alla ristrutturazione
morbida. E Fitch taglia il rating di Atene di 3 livelli.
Rescheduling, restructuring,
reprofiling… che significano esattamente questi termini,
e qual è la differenza fra di essi?
Non si tratta di una domanda tratta
da un test di lingua e filologia inglese, ma del
contenuto dell’acceso dibattito svoltosi nelle giornate
del 16 e 17 maggio a Bruxelles, nel corso dei vertici
dei ministri finanziari della zona euro e dell’Unione
Europea.
L’animale raro, in questo contesto,
è il reprofiling. Il termine – a memoria di chi scrive –
fa per la prima volta la sua comparsa nel lessico
economico-finanziario. Pare sia stato estratto pari pari
da manuali di chirurgia estetica. E in effetti su una
cosa vi è assoluta unanimità di opinioni: la situazione
fiscale della Grecia è brutta a vedersi e qualsiasi
correttivo è il benvenuto.
Fonti ben informate precisano
tuttavia che la scelta sarebbe caduta su reprofiling in
quanto (secondo alcuni dei membri dell’Ecofin) il
termine restructuring non troverebbe una traduzione
fedele in alcune lingue europee. Il lettore italiano è
più fortunato: la ristrutturazione del debito è un
termine d’uso corrente nel gergo finanziario. Chi non
ricorda l’ondata di ristrutturazioni del debito sovrano
nei primi anni ‘80? Il fenomeno coinvolse quasi l’intera
America Latina e diversi paesi allora membri del
Comecon. Quindi nulla di nuovo sotto il sole.
Più raro e confinato agli addetti
ai lavori è il rescheduling, che è invalso tradurre con
riscadenzamento. Termine che suona ostico ma che traduce
fedelmente l’originale. Si tratta infatti dello
spostamento delle scadenze originarie del credito o
dell’obbligazione: ad esempio, da quattro a otto anni,
magari con i primi due anni esenti dal pagamento di
interessi (è il cosiddetto grace period, termine che non
necessita di traduzione).
La differenza rispetto alla
ristrutturazione è puramente tecnica. Il rescheduling si
limita a indicare, appunto, lo spostamento (cioè
l’allungamento, l’estensione) delle scadenze. Quando si
parla di restructuring, in senso stretto, si allude a
qualcosa di più, a qualche altro elemento del debito
originario che viene cambiato. Differenza, ripetiamo, di
natura strettamente tecnica, perché poi nel gergo
mediatico rescheduling e restructuring tendono ad essere
usati come sinonimi.
Ricapitoliamo. Se alla fin fine
rescheduling e restructuring indicano pressoché la
stessa cosa, ossia nuovo profilo delle scadenze del
debito, in che si distinguono dal reprofiling?
La domanda andrebbe rivolta
direttamente ai ministri finanziari dell’Ecofin.
Ma abbandoniamo le questioni
terminologiche e vediamo di chiarire l’intricata
situazione che ruota attorno al debito pubblico della
Grecia.
A un anno di distanza dal bail-out
del valore di 110 miliardi di euro, concesso dall’UE e
dal Fondo Monetario in contropartita dell’impegno di
Atene ad un gravoso programma di aggiustamento fiscale,
è giocoforza riconoscere che la ricetta non ha
funzionato. La Grecia non è oggi in migliori condizioni
rispetto ad allora. Al contrario. Nonostante una cura di
austerità forzata senza precedenti, il disavanzo fiscale
è arrivato – secondo le ultime stime – al 10,5% del
prodotto interno lordo, mentre una pesante recessione
riduce il gettito dalle imposte. Sono necessari 30
miliardi di euro, si calcola, per rifinanziare le
passività in scadenza nel 2012, ma le probabilità di
accedere in tempo a finanziamenti di mercato sono pari a
zero. Si rafforzano in parallelo le pressioni per una
massiccia liquidazione di attivi pubblici, forse
dell’ordine di 50 miliardi di euro.
Nella scorsa settimana una missione
trilaterale in Grecia, composta da rappresentanti
dell’UE, della Banca centrale europea e del Fondo
Monetario Internazionale, è tornata con notizie per
nulla incoraggianti riguardo alla volontà o alla
capacità del governo di Atene di dare il via ad
ulteriori operazioni di privatizzazione o a nuove misure
anticrisi. Le une e le altre si scontrerebbero con la
dura opposizione dell’opinione pubblica e rischierebbero
di fare degenerare una protesta sociale mai sopita. La
conclusione è evidente: continuare a puntare sul rigido
rispetto delle condizioni dell’accordo UE-FMI, sperando
che questo sia sufficiente a restituire all’economia
greca un adeguato livello di affidabilità entro tempi
ragionevoli, non è più un’ipotesi realistica.
Questo ha costretto le autorità
europee a riportare l’attenzione sulla situazione
debitoria del paese e sulle prospettive di un intervento
mirato a modificare il profilo delle scadenze. Da cui il
dibattito, in apparenza bizantino, sulla terminologia
più adeguata per presentare la natura dell’intervento ai
mercati e in particolare gli investitori privati.
Al di là delle questioni lessicali,
che riflettono più che altro opinioni e preferenze
personali dei soggetti coinvolti nella difficile
decisione, allo stato attuale la soluzione che pare
prendere corpo è quella – nonostante tutto – di un nuovo
accordo con partecipazione volontaria dei creditori
privati. Il piano contemplerebbe la richiesta agli
investitori – soprattutto banche internazionali – di
mantenere la propria esposizione verso il paese e la
contemporanea erogazione di un nuovo pacchetto di
finanziamenti, sempre da parte di Bruxelles e del FMI.
Non è chiaro quali mezzi verrebbero
usati per convincere i detentori di titoli greci a non
liquidare (molti l’hanno già fatto) né quanto UE e FMI
siano disposti a concedere stavolta. Secondo
dichiarazioni non confermate, tale piano sarebbe in ogni
caso ritenuta preferibile alla “ristrutturazione
morbida”, ossia all’estensione delle scadenze dei titoli
sovrani greci, che comporterebbe una svalutazione dei
titoli greci e farebbe scattare il pagamento
obbligatorio dei contratti di assicurazione contro
l’eventuale inadempienza del debitore (credit-deafult
swaps).
Usiamo la forma condizionale, in
quanto un effettivo accordo sulla questione non esiste.
Nei due giorni di infuocata discussione in sede di
Eurogruppo ed Ecofin si sono scontrate posizioni
diverse. Se il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude
Juncker, ha esplicitamente parlato, appunto, di
“ristrutturazione morbida”, e se il commissario per gli
affari esteri Olli Rehn gli ha fatto eco, parlando di
reprofiling, ossia di rescheduling su base volontaria,
il Ministro delle finanze francese Christine Lagarde
(oggi candidato numero uno alla successione a Dominique
Strauss-Khan alla guida del FMI) ha escluso tale
ipotesi: «una ristrutturazione o rescheduling, tali da
costituire un evento di default, per quanto mi riguarda,
sono fuori discussione». E la sua controparte tedesca,
Wolfgang Schäuble, ha avanzato la proposta di “ulteriori
misure” a carico della Grecia. In via non ufficiale,
peraltro, la maggioranza dei ministri finanziari hanno
riconosciuto di ritenere inevitabile una
ristrutturazione del debito greco.
Non è del medesimo parere la Banca
Centrale Europea. Il giudizio negativo su quest’ultima
ipotesi è stato espresso martedì scorso dallo stesso
Jean-Claude Trichet. La posizione è ovviamente gradita
ad Atene e il messaggio è stato trasmesso al premier
greco George Papandreu da un intermediario qualificato,
l’ex vicepresidente della BCE ed attuale consigliere
economico di Papandreu, Lucas Papademos.
Il punto di vista di Eurotower è
stato ribadito dalle dichiarazioni di Jens Weidmann,
principale negoziatore per la Germania ai vertici del G8
e G20 e prossimo presidente della Bundesbank. Weidemann
ha tenuto a precisare che il reprofiling non potrà
comunque sostituire il rispetto del programma di
aggiustamento concordato con UE e FMI. Non solo:
«un’estensione delle scadenze dei titoli di stato greci,
in un contesto nel quale prevalgono i dubbi riguardo
alla sostenibilità della situazione finanziaria
pubblica, renderebbe impossibile accettare tali titoli
quale collaterale nelle operazioni di rifinanziamento
nell’ambito delle regole attuali dell’eurosistema». In
parole povere, la “ristrutturazione morbida” taglierebbe
fuori la Grecia dall’accesso ai fondi europei. La BCE è
preoccupata anche per il proprio bilancio: è stimato fra
45 e 50 miliardi di euro il valore dei titoli greci
entrati nel portafoglio di Eurotower nel quadro del
programma di acquisto di eurobbligazioni; a queste vano
aggiunte altre decine di miliardi di esposizione
indiretta, nella forma di titoli greci sin qui accettati
quale collaterale.
A non avere dubbi in proposito è
l’agenzia Fitch ratings, che venerdì scorso ha ridotto
il giudizio di affidabilità del sovereign debt greco di
tre livelli, da BB+ a B+. Siamo già tre scalini al di
sotto del cosiddetto investment grade, ossia del livello
che permette di considerare come non speculativa la
finalità dell’investimento. Fitch ha inoltre avvertito
di possibili ulteriori riduzioni del rating, affermando
in termini molto netti che il giudizio attuale
«incorpora l’aspettativa di un sostanzioso apporto di
nuovi fondi da parte dell’UE e del FMI» tale da evitare
che i titoli del debito pubblico greco siano oggetto di
soft restructuring o re-profiling. Viceversa,
«un’estensione delle scadenze dei titoli originari sarà
considerata come un evento di default e la Grecia e le
sue obbligazioni saranno valutate di conseguenza».
Al di là della soluzione specifica
che verrà adottata nelle prossime settimane, quanto
avevamo anticipato in un precedente commento si sta
realizzando. La ristrutturazione del debito estero da
parte di un paese membro dell’eurozona non è più un
tabù, come titolavano in questi giorni diversi mezzi di
informazione. Non è più un tabù, quindi, il fatto che
gli operatori possano incorrere in perdite in
conseguenze di un investimento in strumenti finanziari
denominati in euro.
La via è quindi aperta e la vera
incognita è fino a che punto i dirigenti dell’eurozona
siano disposti a percorrerla, anche considerando la
crescente impopolarità dei piani di salvataggio presso
l’opinione pubblica e gli elettori europei. Il caso
della Finlandia – dove le recenti votazioni hanno
premiato un partito dichiaratamente euroscettico e
contrario a nuovi bail-out – è il primo serio campanello
d’allarme. |