Così mentre svolgerò la
funzione di giudice dell’esecuzione ci sarà un altro
oscuro principio con cui dovrò fare i conti.
L’opera propria del
giudice, di interpretazione e di applicazione della
legge, dovrà svolgersi non solo tenendo conto delle
insidie che si annidano dietro e dentro taluni canoni
normativi soggetti a una pluralità di significati. Per
non parlare del tecnicismo proprio della procedura
esecutiva, più o meno meglio definito con la riforma del
2005, che ha sostanzialmente codificato quanto
faticosamente i giudici dell’esecuzione andavano
rendendo più fluido e conforme alla logica e allo
spirito dell’espropriazione forzata: le cosiddette
prassi virtuose. Quindi, dicevo, non solo dovrò fare i
conti con le esigenze di tutela del debitore esecutato,
del creditore e dell’aggiudicatario, ma, d’ora in poi,
dovrò fare i conti niente meno che con la mia tutela:
dovrò applicare la legge facendo attenzione a non
compiere una violazione “manifesta del diritto”.
In sostanza l’estensione della responsabilità dei
giudici anche a tale ipotesi è o completamente inutile o
pericolosa, in primo luogo per i cittadini. Ma, per
farlo comprendere è necessario chiarire qualche punto
sulla questione che ora vede la politica e la
magistratura al centro di un vero e proprio scontro.
Tuttavia, il vero
significato dell'attuale dibattito sulla responsabilità
civile dei magistrati non deve essere ridotto allo
slogan “chi sbaglia paga”, che certamente fa effetto
sull’opinione pubblica, ma che, in realtà, raggiunge
l'obbiettivo di fuorviare i cittadini dal contenuto
proprio dell’attuale normativa.
Il principio della
violazione manifesta del diritto, infatti, pone il
giudice in un’ottica innanzi tutto di tutela di se
stesso, con la conseguenza che necessariamente non potrà
compiere l’opera connaturata all’esercizio della
funzione giurisdizionale, che è di interpretazione e di
applicazione della legge.
In realtà il punto di
equilibrio tra l’esigenza di garantire i beni e i
diritti dei cittadini vittime di errori giudiziari e di
quella di evitare condizionamenti al magistrato
nell’esercizio delle sue funzioni è già stato ampiamente
raggiunto con la legge 18 aprile 1988, n. 117,
intitolata “risarcimento dei danni cagionati
nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e
responsabilità civile dei magistrati”, laddove concede
una tutela “ad hoc” per coloro i quali ritengono
di essere stati danneggiati ingiustamente dall’esercizio
delle funzioni giudiziarie.
E’ vero che il giudice
si costituisce in giudizio nella persona dello Stato,
ma, del resto, il filtro dello Stato è addirittura
previsto dalla legge che disciplina la responsabilità
civile degli insegnanti pubblici, per i quali è prevista
l’azione contro l’amministrazione e non contro la
persona dell’insegnante; e poi l’amministrazione agisce
in rivalsa nei confronti dell’insegnante.
In realtà non vi è nulla
da aggiungere al quadro normativo già esistente, anche
perché con la citata legge n. 117/88 si è già data
attuazione completa all’art. 28 della Costituzione che
fissa la regola, valida per i funzionari e i dipendenti
pubblici, della loro responsabilità diretta per “gli
atti compiuti in violazione di diritti”, secondo “le
leggi penali, civili ed amministrative” .
L’ultimo comma di detto
articolo 28 precisa che la responsabilità civile si
estende allo Stato e agli enti pubblici.
L’art. 2 della legge del
1988 citata prevede che “chi ha subito un danno ingiusto
per effetto di un comportamento, di un atto o di un
provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato
con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni
ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo
Stato per ottenere il risarcimento dei danni
patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che
derivino da privazione della libertà personale”.
Cosa vuol dire, allora,
gridare nei messaggi mediatici che il giudice deve
rispondere personalmente, se non far passare una sorta
di supertutela al cittadino che suona “guarda che noi ti
proteggiamo dagli errori del giudice che, con la nostra
legge, sarà più attento perché risponderà
“personalmente”, non solo, ma per qualunque “violazione
manifesta del diritto”?!
Niente di più falso. E
bisogna spiegare che i motivi non sono solo quelli, di
salvaguardia dell’indipendenza e quant’altro segnalato
dagli organi rappresentativi della magistratura, ma
trovano giustificazioni di tipo squisitamente
tecnico-giuridico, al punto che l’innovazione
legislativa costituirebbe una vera e propria stortura
del diritto.
Il principio del filtro
statuale nella responsabilità civile, previsto nella
Costituzione per i funzionari pubblici, è addirittura
imprescindibile per i magistrati proprio in rapporto
alla natura della funzione giudiziaria che è funzione
statuale; non si deve, non si può dimenticare la portata
costituzionale della figura del magistrato secondo cui
egli è organo-potere, impersonale, ed è organo che rende
concreto il comando che lo Stato ha indicato nella legge
mediante l’applicazione delle norme astratte nei casi
concreti: la responsabilità civile resta personale,
della persona fisica –giudice che ha commesso l’errore,
ma è lo Stato che compare in giudizio attraverso la
Presidenza del Consiglio dei Ministri, che rappresenta
il magistrato. E chi altri se il magistrato è
l’espressione del potere giudiziario dello Stato?
Personalizzare la responsabilità del giudice, allo
stato, non significa altro che minare in modo tangibile
l’opera del giudice con altre insidie nell’applicazione
delle leggi; un’insidia, che senz’altro incide sulla sua
capacità di lavorare ispirato al primario canone
dell’imparzialità: e come potrebbe se deve tutelare se
stesso?
In realtà la legge sulla
responsabilità civile esiste già, e gli avvocati più
preparati che la conoscono la fanno anche valere,
citando in giudizio il giudice che ha commesso un errore
con colpa grave per il risarcimento dei danni. Il
giudice, del resto, è assicurato per far fronte a tale
evenienza, connaturata all’esercizio della funzione.
Ma perché il giudice
risponde solo per colpa grave? Ecco cosa deve essere
chiarito al cittadino-utente della giustizia e non al
cittadino-elettore. Spero di esporlo nel modo più
semplice; anche perchè davvero non è un concetto facile
da esporre e trasmettere: le norme del codice di
riferimento primario sono due (artt. 1176 e 2236 c.c.),
dalle quali emerge il principio, come approfondito dalla
giurisprudenza, secondo cui per le professioni
intellettuali si risponde in due modi diversi, a seconda
dell'attività esercitata: la responsabilità risarcitoria
scatta in ogni caso per il professionista quando il
danno è cagionato per negligenza, imprudenza e
imperizia, quindi per la canonica colpa; scatta, invece,
solo per colpa grave quando si tratta di affrontare
questioni di particolare complessità. Ossia, quando
l'errore è più grave perchè era sufficiente il minimo di
prudenza e diligenza (colpa grave significa che si
risponde per l'errore stupido che non poteva essere
commesso); così se il medico fa morire un paziente per
un raffreddore deve rispondere secondo le normali regole
di perizia e di diligenza (perchè ha commesso un errore
molto grave in rapporto alla semplicità della malattia),
se invece lo fa morire in un delicato intervento
chirurgico, la responsabilità si limita alla colpa grave
che, al contrario di quanto può sembrare dalla parola
"grave", si ha se ha commesso un errore grossolano che
poteva evitare con il minimo della diligenza. Allora è
evidente che il magistrato deve rispondere solo per
colpa grave, essendo ontologicamente la funzione
giudiziaria particolarmente complessa; ed è in ragione
di tale complessità, propria dell'interpretazione e
dell’applicazione della legge che sono previsti i tre
gradi di giurisdizione.
Del resto, gli stessi
avvocati -per consolidata giurisprudenza della Suprema
Corte di Cassazione, che ha ribadito il principio già
emergente dalle due norme sopra indicate (artt. 1176 e
2236 del codice civile)- rispondono nei confronti del
cliente per violazione della normale prudenza e
diligenza quando si tratta di accertare un danno
connesso all’attività svolta nell’esercizio della
professione in virtù del rapporto di mandato
conferitogli dal cliente, ma risponde solo per colpa
grave nell’interpretazione della legge, proprio perché
questa è attività di particolare complessità!
Ma la richiamata legge
del 1988 ha già equiparato il magistrato agli altri
professionisti secondo il regime di responsabilità
vigente in materia di colpa nelle prestazioni d’opera.
Estendere la responsabilità del magistrato fuori dalla
colpa grave significa creare una inspiegabile disparità
di trattamento che non giova al cittadino.
Allora, il concetto di
manifesta violazione del diritto significa troppo,
perchè sotto il profilo tecnico-giuridico non significa
nulla: "manifesta violazione" è tutto ciò che appare
“ictu oculi” (immediatamente) come “contra ius”
(contrario al diritto). Ma se ciò che è manifestamente
violato già rientra, per ciò stesso, nel canone della
colpa grave (perché è facile comprendere che si sta
commettendo una violazione, in quanto manifesta), e
quindi è inutile ribadirlo, non si può comprendere,
invece, cosa non si deve violare. Si parla, infatti, di
manifesta violazione "del diritto". Ma diritto è tutto
ciò che risponde a regole ordinamentate : quale diritto?
Quello, ad esempio, di vedere tutelata la privacy mentre
si tiene udienza? No, non solo quello. Forse allora
quello di cui si controverte? E come si individua il
diritto controverso quando ancora non si sa a chi
spetta? Quando, ad esempio, la tutela in via d'urgenza
appare dell'una parte e poi nel merito della cognizione
piena risulta della controparte? Quale diritto non deve
essere manifestamente violato? Forse quello
costituzionale dell'uguaglianza di trattamento? E come
farà poi il giudice a cambiare orientamento in un
momento successivo quando si accorga della possibilità
di un’interpretazione meno rigorosa di una norma e
possa, dunque, decidere in senso più favorevole al
cittadino??!!
Il richiamo alla Corte
di giustizia Europea che in questi giorni leggo è
altrettanto deviante.
Quando viene divulgato
che la Corte nel 2006 ha precisato che “il diritto
comunitario osta a una legislazione nazionale che limiti
la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di
dolo o di colpa grave del giudice” NEI CASI “in cui sia
stata commessa una violazione manifesta del diritto
‘vigente’”, deve essere chiarito che questa formulazione
è cosa ben diversa dal dire in una norma che il giudice
risponde ANCHE, come una responsabilità ulteriore, per
ogni violazione manifesta del “diritto”, semplicemente.
“Diritto vigente” è un
canone che si autoqualifica e consente la immediata
percezione del significato. Infatti, la Corte ha solo
voluto precisare una corretta interpretazione della
normativa in materia di responsabilità dei giudici,
sottolineando il dato tecnico-giuridico in base al quale
la colpa grave sussiste proprio nel caso in cui si
commette una manifesta violazione del “diritto vigente”,
come dire quando il giudice ha, grossolanamente, in
maniera evidente, disapplicato una legge che vige,
ignorandola: quindi, si rientra proprio nel concetto di
colpa grave sopra illustrato.
Direi al legislatore di
fermarsi a riflettere.
Articolo di
Massimiliana Battagliese)
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