Sommario: A) Introduzione; B) Le
luci 1) Le luci irregolari 2) Le luci sul muro di
confine 3) Il diritto di chiudere le luci C) Le vedute
1) I presupposti 2) Vedute dirette, oblique, laterali,
ad appiombo e le relative distanze D) La disciplina per
il Condominio e/o Comunione E) Lo Jure servitutis 1)
Modifiche comportanti aggravio di servitù 2) Modifiche
non comportanti aggravio di servitù 3) Estinzione del
diritto di servitù F)
A) Introduzione
Con tale saggio si cercherà di
affrontare, con un taglio sistematico giurisprudenziale,
la tematica delle luci e delle vedute ex artt. 900 e ss.
c.c. in alcuni dei loro aspetti, essendo argomenti di
vasta portata.
Orbene in linea di principio
l'interesse di ciascun proprietario a ricevere aria e
luce dalle finestre del proprio edificio è in conflitto
con l'interesse del vicino a non trovarsi esposto a
sguardi indiscreti o a minacce della sicurezza propria e
dei propri beni.
Il codice civile regola in maniera
dettagliata la possibilità di ottenere luce e aria dal
fondo del vicino aprendo delle finestre o balconi sul
muro che, oltre a far entrare luce e aria nella
costruzione, permettono anche di guardare il fondo del
vicino, fatto che non sempre potrebbe essere gradito per
le resistenze del vicino.
Pertanto, pur non volendo essere
ripetitivo, la funzione principale di queste norme sta
nella necessità di contemperare due esigenze
contrapposte entrambe meritevoli di tutela.
A) Da un lato il diritto del
proprietario del fondo a goderne nel modo migliore
possibile. Nel caso delle luci e delle vedute ciò
consiste nella possibilità di illuminare ed arieggiare
meglio gli ambienti per una migliore fruibilità e
salubrità.
B) Dall’altro lato, in
contrasto, vi è il diritto del vicino a non vedere lese
la propria riservatezza e sicurezza che potrebbero
essere effettivamente compromesse dall’apertura di
finestre.
Le aperture praticabili nel muro
rivolto verso il fondo altrui sono giuridicamente
(Codice Civile) qualificate finestre e possono essere
esclusivamente di due: le luci e le vedute.
art. 900 c.c. Specie di finestre
Le finestre o altre aperture sul fondo del vicino sono
di due specie: luci, quando danno passaggio alla luce e
all'aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del
vicino; vedute o prospetti, quando permettono di
affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o
lateralmente.
Secondo oramai un principio
espresso a più riprese dalla Giurisprudenza e della
dottrina in tema di aperture sul fondo del vicino deve
escludersi[1] l'esistenza di un tertium genus diverso
dalle luci e delle vedute; ne consegue che l'apertura
priva delle caratteristiche della (o del prospetto) non
può che essere qualificata giuridicamente come luce.
(Nella specie, la S.C. ha ritenuto che
l'apertura-lucernario con portello apribile verso
l'alto, realizzata sul tetto di un immobile a pochi
centimetri di distanza dalla terrazza del vicino, fosse
qualificabile come luce e non come veduta)
Differente dal concetto di luci e
vedute è il diritto di panorama.
Il diritto di panorama è il diritto
di ciascuno di godere dello spazio, della luce e, per
quando possibile, del verde nella prossimità della
propria abitazione. Questo diritto, tuttavia, non
corrisponde a una specifica fattispecie normativa. La
sua tutela è dunque regolata dalle medesime norme sulle
distanze fra le costruzioni, sulle luci e sulle vedute
(artt. 900-907 c.c.) e, più in generale, dal diritto di
proprietà (art. 832 c.c.).
Secondo la Suprema Corte[2] la
panoramicità del luogo consiste in una situazione di
fatto derivante dalla bellezza dell'ambiente e dalla
visuale che si gode da un certo posto che può trovare
tutela nella servitù altius non tollendi, non anche
nella servitù di veduta, che garantisce il diritto
affatto diverso di guardare e di affacciarsi sul fondo
vicino.
A parità di condizioni generali, il
panorama costituisce un vantaggio, una qualità positiva
per un appartamento, di cui accresce il pregio e, di
conseguenza, il valore economico.
Allo stesso modo della posizione,
dell’esposizione, dell’altezza del piano rispetto al
suolo, il panorama raffigura una qualità, specifica e
individuale, la cui esistenza accresce, in misura più o
meno considerevole, il valore dell’unità abitativa anche
rispetto alle altre unità immobiliari presenti nello
stesso edificio.
Fatto questo necessario inciso sul
diritto di panorama è opportuno già analizzare alcune
problematiche sorte in merito alle scale, i ballatoi e
le porte.
Secondo Giurisprudenza consolidata,
avendo la funzione di consentire il passaggio delle
persone non possono configurare vedute a meno che quando
– indipendentemente dalla funzione primaria del
manufatto – risulti obiettivamente possibile, in via
normale, per le particolari situazioni o caratteristiche
di fatto, anche l'esercizio della prospectio ed
inspectio su o verso il fondo del vicino.
Infatti secondo alcune sentenze di
merito[3] una porta non può essere considerata semplice
luce irregolare, poiché la sua funzione non è quella di
illuminare un locale e di consentire il passaggio
dell'aria, ma quella di consentire il passaggio delle
persone ovvero di impedirlo e quindi può essere aperta
senza rispettare le distanze prescritte negli artt. 905
e 906 c.c. per le vedute, salvo che sia strutturata in
modo da consentire di guardare nel fondo del vicino
(porta - finestra).
Nel caso particolare affrontato
trattandosi di una saracinesca, l'apertura non può
essere considerata veduta né luce irregolare, essendo
pacifica la sua funzione, non essendo destinata al
prospicere e all'inspicere, né a far passare luce e
aria; la saracinesca ha l'unico, scopo, di consentire (o
impedire) il passaggio di persone e autovetture. Essa
pertanto non risulta compresa tra le ipotesi di cui agli
artt. 903 e ss. c.c.
In altre parole si ha la dicotomia
di porta-finestra quando tali aperture oltre al loro
utilizzo principale (ossia il diritto di passaggio)
permettono l’affaccio.
Tale principio è stato, come detto,
espresso più volte dalla Corte di Cassazione[4], secondo
la quale in tema di limitazioni legali della proprietà,
le scale, i ballatoi e le porte, pur essendo
fondamentalmente destinati all'accesso dell'edificio, e
soltanto occasionalmente od eccezionalmente utilizzabili
per l'affaccio, possono configurare vedute quando –
indipendentemente dalla funzione primaria del manufatto
– risulti obiettivamente possibile, in via normale, per
le particolari situazioni o caratteristiche di fatto,
anche l'esercizio della prospectio ed inspectio su o
verso il fondo del vicino.
Sempre secondo la Cassazione[5] al
fine di configurare la veduta da terrazze, lastrici
solari e simili, è necessario che queste opere,
oggettivamente considerate, abbiano quale destinazione
normale e permanente, anche se non esclusiva, quella di
rendere possibile l'affacciarsi sull'altrui fondo
vicino, così da determinare il permanente
assoggettamento al peso della veduta: e non occorre che
tali opere siano sorte per l'esclusivo scopo
dell'esercizio della veduta, essendo sufficiente che
esse per l'ubicazione, la consistenza e la struttura,
abbiano oggettivamente la detta idoneità. L'esistenza di
un'opera muraria munita di parapetti e di muretti, dai
quali sia obiettivamente possibile guardare e
affacciarsi sul fondo del vicino, è sufficiente a
integrare una veduta e il possesso della relativa
servitù, senza che occorra anche la continuità
dell'utilizzazione dell'opera e l'esercizio effettivo
dell'affaccio, essendo la continuità dell'esercizio
della veduta normalmente assorbita nella situazione
obiettiva dei luoghi e non occorre che tali opere siano
sorte per l'esercizio esclusivo della veduta, essendo
sufficiente che rendano possibile tale esercizio.
Infine in materia di apertura di
luci o vedute, le norme sulle distanze legali
attribuiscono al privato una posizione di diritto
soggettivo, sul quale, in mancanza di una espressa
previsione di legge, non possono incidere atti della
p.a. come le concessioni edilizie; ne deriva che la
controversia nascente dal mancato rispetto di tali norme
rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, senza
che in contrario assuma rilievo l'idoneità delle stesse
norme a costituire per la p.a. direttive nella
formazione dei piani di zona, cui devono conformarsi le
suddette concessioni edilizie[6].
Conforme è anche una sentenza del
Tribunale di Bologna[7] secondo la quale nelle
controversie in tema di rispetto di luci e distanze
legali la concessione edilizia attiene esclusivamente ai
rapporti tra privato costruttore e pubblica
amministrazione, ed è pertanto ininfluente con riguardo
ai rapporti esclusivamente privatistici tra privati
confinanti; ne discende che il confinante non può
dolersi dell'inosservanza delle prescrizioni contenute
nella concessione edilizia, se tale violazione non
integri, al tempo stesso, un'inosservanza delle norme di
cui agli artt. 901 c.c. e segg., poste a tutela di
diritti soggettivi.
B) Le Luci
Per luci si intende il diritto,
iure proprietatis e jure servitutis (le differenza
saranno affrontate dopo), di effettuare sul proprio
fabbricato aperture verso il fondo del vicino allo scopo
di attingere luce ed aria (funzione positiva), senza
affacciarsi (funzione negativa) su quello, stabilendo i
requisiti di altezza e di sicurezza (collocazione di
inferriate e grate fisse) alla cui sussistenza è
condizionata la limitazione del diritto del vicino.
In particolare secondo la
previsione del codice civile rientrano nel concetto di
luce: le aperture munite di inferriate con maglie di
cmq. 3 massimo, con il davanzale a non meno di m.2,5 dal
pavimento del piano terreno o a non meno di m. 2 dei
piani superiori e a non meno di m.2,5 dal fondo del
vicino sono chiamate luci[8].
Esse consentono solamente il
passaggio della luce e dell'aria, ma non un comodo e
facile affaccio.
Inoltre tali requisiti non sono
assoluti, poiché ai sensi dell’art. 902 c.c. anche se
manca uno di quest’ultimi, ma comunque sia inibita la
veduta del fondo del vicino, siamo in presenza di luci,
anche se il vicino avrà comunque il diritto di chiederne
la conformità.
Esse possono essere aperte nel muro
proprio o nel muro comune, ma in questo caso occorre il
consenso del confinante, a meno che non si tratti di una
sopraelevazione a cui egli non ha voluto contribuire.
In altre parole, le luci possono
infatti avere le più svariate dimensioni, da semplici
fori o feritoie a grandi aperture.
La luce non presenta all'esterno
alcun aggetto o sporgenza, ma deve essere a filo della
parete.
Infine possono essere chiuse quando
si costruisce in aderenza.
art. 901 c.c.[9] Luci. Le luci che
si aprono sul fondo del vicino devono:
1) essere munite di un'inferriata
idonea a garantire la sicurezza del vicino e di una
grata fissa in metallo le cui maglie non siano maggiori
di tre centimetri quadrati;
2) avere il lato inferiore a
un'altezza non minore di due metri e mezzo dal pavimento
o dal suolo del luogo al quale si vuole dare luce e
aria, se esse sono al piano terreno, e non minore di due
metri se sono ai piani superiori;
3) avere il lato inferiore a
un'altezza non minore di due metri e mezzo dal suolo del
fondo vicino, a meno che si tratti di locale che sia in
tutto o in parte a livello inferiore al suolo del vicino
e la condizione dei luoghi non consenta di osservare
l'altezza stessa.
1) Le luci irregolari
art. 902 c.c. Apertura priva dei
requisiti prescritti per le luci. L'apertura che non ha
i caratteri di veduta o di prospetto è considerata come
luce, anche se non sono state osservate le prescrizioni
indicate dall'articolo 901.
Il vicino ha sempre il diritto di
esigere che essa sia resa conforme alle prescrizioni
dell'articolo predetto.
In materia di luci e vedute,
un'apertura priva dei caratteri della veduta o del
prospetto è considerata luce, anche se carente dei
requisiti di cui all'art. 901 c.c.; in tale ipotesi, il
vicino ha sempre facoltà[10] di chiederne la
"regolarizzazione[11]", di domandare cioè che la luce
"irregolare" sia resa conforme alle prescrizioni del
predetto articolo.
Inoltre è bene già anticipare che
non è acquisibile per usucapione o per destinazione del
padre di famiglia una servitù di luce irregolare sia
perché difetta il requisito dell'apparenza, sia perché,
ai sensi dell'art. 902 c.c. il vicino ha sempre il
diritto di esigerne la regolarizzazione[12].
2) Le luci sul muro di confine
art. 903 c.c. Luci nel muro
proprio o nel muro comune. Le luci possono essere
aperte dal proprietario del muro contiguo al fondo
altrui.
Se il muro è comune, nessuno dei
proprietari può aprire luci senza il consenso
dell'altro; ma chi ha sopraelevato il muro comune può
aprirle nella maggiore altezza a cui il vicino non abbia
voluto contribuire.
Per l’apertura di luci, inoltre,
non è prevista alcuna distanza dal fondo vicino; esse,
pertanto possono essere realizzate anche sul muro di
confine, tenendo presente che:
1) se il muro è comune, nessuno
dei proprietari può aprire luci senza il consenso
dell’altro; il consenso deve essere manifestato per
iscritto[13], deve conseguentemente reputarsi
irrilevante l'eventuale consenso manifestato oralmente.
2) se tuttavia uno dei
proprietari ha sopraelevato il muro comune, egli
acquista il diritto di aprire luci nella maggiore
altezza cui il vicino non abbia voluto contribuire (art.
903 c.c.).
Esula dall'applicazione della
normativa prevista dagli artt. 901 e 904 c.c.
quell'apertura che si apre in un muro comune tra un vano
e l'altro del medesimo edificio con lo scopo di dare ad
uno di essi aria e luce attraverso l'altro. Tale
apertura non costituisce estrinsecazione del diritto di
proprietà, ossia manifestazione di una facultas del
diritto di dominio, ma ponendo in essere in via
effettuale l'invasione della sfera di godimento della
proprietà altrui, ha sostanza, struttura e funzione di
uno ius in re aliena acquistabile, quindi, ex lege
mediante usucapione o destinazione del padre di
famiglia, sempreché l'apertura si concreti in opere
visibili e permanenti destinate ad un inequivoco e
stabile assoggettamento del vano, sì da rilevare
all'esterno l'imposizione di un peso a suo carico per
l'utilità dell'altro[14].
3) Il diritto di chiudere le
luci
art. 904 c.c. Diritto di chiudere
le luci. La presenza di luci in un muro non impedisce al
vicino di acquistare la comunione del muro medesimo né
di costruire in aderenza.
Chi acquista la comunione del muro
non può chiudere le luci se ad esso non appoggia il suo
edificio.
L’art. 904 c.c. attribuisce al
vicino (rectius, al proprietario del fondo finitimo) il
potere di chiudere le luci mediante costruzione in
appoggio – previo acquisto della comunione – o in
aderenza al muro nel quale esse sono aperte, vietando
pertanto ogni altra differente modalità di chiusura o
oscuramento delle luci.
La natura di tale diritto
Orbene viene in aiuto una delle
prime, se non la prima, tra le pronunce della
Cassazione[15] in merito agli istituti trattati: il
diritto che ha il proprietario di aprire luci nel muro
di un suo fabbricato, costruito sul confine, con il
fondo del vicino, non pone in essere, per dette luci, un
jus in re aliena, e, cioè una servitù, ma costituisce
un'estrinsecazione del diritto di proprietà, in re
propria, riconosciuto al proprietario dalla legge, e non
derivante da una concessione contrattuale da parte del
vicino, o da una concessione precaria, per amicizia o
cortesia, da parte del vicino medesimo.
Tali luci, una volta aperte,
secondo l'osservanza delle norme stabilite dall'art.901
c.c. danno vita ad un diritto condizionato; e, cioè,
esse possono essere chiuse solo quando si verifichino le
ipotesi tassativamente previste dall'art. 904 c.c.
(anche se in realtà come da sentenza del Tribunale di
Bologna successivamente riportata, tale principiò non è
più assoluto)
Il codice vigente ha conservato,
per il vicino, la facoltà di sopprimere le luci di
tolleranza nell'ipotesi, già prevista dal codice civile
del 1865, dell'appoggio della sua costruzione a quella
del proprietario del fondo contiguo; ma ha concesso
altresì la facoltà di oscurare dette luci, anche in una
seconda ipotesi; se, cioè il vicino costruisce in
aderenza del fondo contiguo, un suo edificio o un suo
manufatto murario. Un questo secondo caso, però, deve
trattarsi di una costruzione autonoma, che non si
concreti in un atto di semplice vessazione o emulazione;
e, cioè, di una costruzione la cui finalità non si
esaurisca nell'aggravio e nel danno del fondo del
vicino, con l'oscuramento delle luci aperte nel suo
muro; ma che abbia una qualsiasi utilità, anche per chi
abbia posto in essere detta costruzione.
Le luci di tolleranza debbono
tenersi distinte dalle servitù attive di luce ad aria
che il proprietario abbia acquistato sul fondo del
vicino; l'esistenza di siffatte servitù impedisce, in
ogni caso, al vicino la richiesta della medianza del
muro o l'oscuramento, con costruzione in aderenza.
Per contro, l'esistenza delle
cosiddette luci di tolleranza impedisce al vicino di
oscurarle o sopprimerle, solo nelle ipotesi
tassativamente specificate nell'art.904 del vigente
codice civile. Ai fini della tutela possessoria, basta
ricorra l'ipotesi del possesso di un diritto qualunque
esso sia, che si esplichi su di una cosa corporale; e
che si estrinsechi in atti di materiale godimento,
qualunque sia la qualifica giuridica di tale
godimento(nella specie, è stato ritenuto tutelabile, con
l'azione di spoglio, il possesso di semplici luci di
tolleranza). Sono ammessi, in sede possessoria
accertamenti anche di carattere petitorio, quando questi
siano indispensabili ai fini possessori e senza che si
alteri, per ciò, la natura del giudizio possessorio. Ciò
si verifica in tutti i casi in cui il convenuto
eccepisca; feci, sed iure feci; e, cioè nei casi in cui
il convenuto, specie in materia di compossesso, abbia
per legge o per contratto, anche un diritto proprio nei
confronti del diritto dell'attore; e sorge, perciò la
necessità di vedere se egli abbia mantenuto la sua
azione nei limiti precisi del suo diritto.
In un’altra nota sentenza la
S.C.[16] ha osservato, senza volere però essere
ripetitivo ma solo al fine di rendere più chiaro
possibile il concetto, che in merito all'art. 904 c.c.
si prevedono due distinte ipotesi diversamente regolate,
nelle quali la facoltà del proprietario del muro al
mantenimento delle luci aperte su di esso è considerata
recessiva rispetto al diritto potestativo del vicino di
chiuderle:
1) la prima, che ha come
presupposto l'esercizio da parte del vicino del diritto
di acquistare la comunione del muro altrui, nella quale
la chiusura delle luci su tale muro esistenti è
subordinata alla condizione che questi, acquistata la
comunione, realizzi in appoggio al muro stesso un'opera
qualificabile come "edificio";
2) la seconda, che attiene alla
realizzazione da parte del vicino di un manufatto posto
solo in aderenza al muro altrui dotato di luci, senza
l'acquisto della comunione di esso, né di appoggio ad
esso, nella quale, riconoscendo il diritto potestativo
di chiudere dette luci, nessuna specifica caratteristica
o modalità di realizzazione del manufatto è prevista,
salvo che integri i requisiti di una "costruzione"
stabile e permanente tale da recare da sola un'utilità
al proprietario o a chi ne usi (principiò già affermato
nella sentenza del ’48)
(Nella specie, la S.C., sulla base
di detto principio, ha confermato la decisione della
Corte di merito che aveva statuito la legittimità della
costruzione di una recinzione che occludeva una luce
aperta sul muro del vicino).
In altre parole il diritto di
chiudere le luci presenti nel muro del vicino,
costruendo in aderenza a questo, non può esercitarsi,
per il principio generale del divieto degli atti
emulativi di cui all'art. 833 stesso codice, al solo
scopo di arrecare nocumento e molestia al vicino, senza
alcun vantaggio proprio[17].
Pertanto, tale disciplina è
ispirata all’esigenza dell’equo contemperamento dei
contrapposti interessi.
Ebbene superando il principio su
esposto della Sentenza del ’48, il diritto di chiudere
le luci nell'immobile confinante, da parte del
proprietario del fondo posto a sua volta a confine con
il predetto bene, non si esaurisce nelle ipotesi della
costruzione "in appoggio" o "in aderenza", le quali, per
quanto oggetto di unica e peculiare previsione
normativa, non sono tassative ed esaustive, né
costituenti il numerus clausus dei casi legittimanti
l'esercizio del diritto stesso[18].
Infine ulteriore deroga viene data
dalla normativa antisismica, poiché l'art. 9, 3° comma,
l. 25 novembre 1962 n. 1684 prescrive, con riguardo alle
costruzioni nelle zone sismiche, l'adozione nei
fabbricati contigui di appositi giunti di oscillazione,
il concetto generale di costruzioni in aderenza deve
essere adeguato nelle località anzidette al disposto
della legislazione speciale e va, pertanto, riferito a
quello che fra i due edifici contigui preveda la sola
distanza configurata dal giunto idoneo a consentire la
libera ed indipendente oscillazione; ne discende che la
facoltà del vicino di chiudere le altrui finestre
lucifere è consentita, ai sensi dell'art. 904 c.c.,
quando costruisca in aderenza con la osservanza delle
disposizioni antisismiche, lasciando fra i due
fabbricati il giunto di oscillazione[19].
C) Le Vedute
Per le vedute è pregnante il
concetto di esclusione ovvero: quando non ci sono le
caratteristiche per le luci regolari ed irregolari si
tratta di vedute.
Esse devono essere tenute a
distanza di un metro e mezzo dal vicino, anche quando le
costruzioni sono a diversa altezza. La stessa distanza
vale per i balconi, le terrazze ed altri sporti che
consentono l'affaccio.
La distanza non va rispettata se
tra i due fondi passa una via pubblica[20] di qualunque
larghezza essa sia[21].
Deve considerarsi ormai jus
receptum che la prospectio sia elemento necessario,
insieme con l'inspectio, per la qualificazione delle
aperture come vedute.
Le Sezioni Unite della Corte di
Cassazione[22] sono intervenute, al fine di meglio
specificare quando possa parlarsi correttamente di
veduta, affermando che affinché sussista una veduta a
norma dell'art. 900 c.c., è necessario, oltre al
requisito della inspectio anche quello della prospectio
nel fondo del vicino, dovendo detta apertura non solo
consentire di vedere e guardare frontalmente, ma anche
di affacciarsi, vale a dire di guardare non solo di
fronte, ma anche obliquamente e lateralmente, così
assoggettando il fondo alieno ad una visione mobile e
globale.
In altre parole[23] può
configurarsi una veduta, quando l'apertura, il terrazzo
o il balcone da cui essa sia praticata risultino "muniti
di parapetto" atto a consentire, almeno, di guardare e
di mostrarsi senza esporsi al pericolo di cadute. Ne
consegue che va esclusa l'esistenza di una veduta
allorquando il parapetto di un terrazzo non consente, in
concreto, neanche una inspectio comoda e non pericolosa
– in quanto manifestamente inidoneo a preservare
l'eventuale osservatore dal pericolo di cadute – ed ha
solo la funzione di delimitazione della platea.
Le vedute oblique o laterali verso
il fondo del vicino devono essere a distanza di almeno
75 centimetri.
Qui il legislatore ha previsto una
distanza minore, in ragione della limitata possibilità
di inspicere da parte di chi esercita la veduta.
In conclusione, a differenza delle
luci, le vedute o prospetti hanno invece la
caratteristica di consentire di guardare fuori (finestre
vere e proprie, dette finestre prospettiche, loggiati)
oppure di sporgersi oltre la parete su cui insistono
(balconi).
1) I presupposti
Dunque è opportuno a tal’uopo
affrontare, anche se in piccola parte già è stato fatto,
i presupposti nonché le caratteristiche che devono avere
determinate aperture per essere classificate come
vedute.
In particolare, l'art. 900
individua le vedute in relazione alla loro funzione di
consentire la inspectio e la prospectio in alienum, a
prescindere dalle caratteristiche costruttive
dell'apertura.
Non solo, ma la inspectio e la
prospectio devono avere carattere oggettivo e non
soggettivo[24], a prescindere dal comportamento e dagli
intendimenti di chi esercita la veduta e fermo restando
che le vedute devono consentire congiuntamente l'agevole
inspectio e prospectio senza pericoli e senza che si
debba ricorrere a mezzi anormali[25]: in questo senso
concordano sia la giurisprudenza e sia la dottrina.
Per rendere applicabile l'obbligo
delle distanze è sufficiente che sussista un'apertura
ricavata in un manufatto in sopraelevazione artificiale
rispetto al fondo del vicino, così come si verifica nel
caso della finestra, del balcone e del parapetto di una
terrazza, da cui si possa guardare sul fondo del vicino
sottostante ad essi, anche se di poco.
Se si tratta invece di un luogo
naturalmente elevato – come può accadere nei fondi a
dislivello – la norma sulle distanze non è applicabile,
salvo che sul ciglio della scarpata naturale sia
costruito un parapetto, dal quale la veduta sul fondo
del vicino possa esercitarsi con comodità e senza
pericolo.
Infatti secondo la Cassazione[26]
il muro, che abbia funzione di contenere un terrapieno
creato ex novo dall'opera dell'uomo, va equiparato a un
muro di fabbrica e come tale assoggettato al rispetto
delle distanze legali tra costruzioni, mentre non può
considerarsi costruzione il muro di contenimento
realizzato per contenere smottamenti o frane in una
situazione di fondi a dislivello naturale.
Ulteriormente l'obbligo del
rispetto delle distanze legali trova applicazione anche
quando la veduta viene esercitata dal piano terreno[27]
di una costruzione (nella fattispecie, dal portico
inserito nel fabbricato), non occorrendo che l'apertura
sia in tal caso munita di parapetto, come richiesto
dall'art. 905 c.c. soltanto con riferimento a "balconi o
altri sporti, terrazze, lastrici solari e simili",
essendo disagevole e pericoloso, avvenendo dall'alto,
l'affaccio dai medesimi in assenza di protezione.
Non possono invece essere
considerati sporti assimilabili alle vedute o ai balconi
quelli con funzione meramente decorativa[28] (come la
mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili),
che comunque non possano servire come luogo per
esercitare la veduta, sicché per essi non sono previsti
obblighi di distanze legali.
La S.C.[29] ha escluso che avesse
carattere di veduta un'apertura munita di una struttura
metallica, incorporata nel muro di confine.
Inoltre costituisce
costruzione[30], ai fini del rispetto della distanza
delle costruzioni dalle vedute, qualsiasi opera, di
qualsiasi natura, che si elevi stabilmente dal suolo e
che ostacoli l'esercizio della veduta, intesa come
possibilità sia di inspectio che di prospectio (nella
specie, è stato ritenuto conforme ai suddetti principi
l'accertamento del giudice di merito che aveva
qualificato costruzione una scala metallica ancorata al
suolo da una piattaforma di cemento ed alta circa
quindici metri).
Quanto alla nozione di fondo su cui
può esercitarsi la veduta; per fondo deve intendersi, in
senso estensivo, ogni immobile, recintato o meno,
coperto o scoperto.
Ed infatti, la dizione fondo –
usata dal vecchio e dal nuovo codice – è dizione
generica che deve essere intesa in senso lato, come
comprendente ogni immobile scoperto o coperto,
praticabile o non.
La comodità (o quanto meno la non
disagevolezza) della inspectio e della prospectio, alla
stregua dell'art. 900 c.c. va accertata con riferimento
al fondo dal quale la veduta è esercitata[31] e non già
al fondo oggetto della veduta stessa.
Infine, appare non poco importante
questa pronuncia di legittimità[32] secondo cui tenuto
conto che requisiti per l'esistenza di una veduta sono
non soltanto la inspectio ma la prospectio, la
possibilità di affacciarsi sul fondo del vicino deve
essere determinata con riferimento a una persona di
altezza normale e non di statura media, posto che il
concetto di statura media, essendo indicativo di un
unico valore numerico, intermedio fra un minimo e un
massimo, non si identifica con quello di altezza normale
che comprende una serie di valori di diversa entità
matematica entro suddetti limiti.
Anche se la stessa Corte[33] si era
espressa contrariamente affermando che – ai sensi
dell'art. 900 che non determina un comportamento tipico
per l'atto di affacciarsi – consiste nella possibilità
di vedere e di guardare non solo di fronte ma
obliquamente e lateralmente sul fondo del vicino, in
modo da consentire una visione mobile globale, rimesso
all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito,
incensurabile in sede di legittimità se non per vizi di
motivazione, verificare in concreto se l'opera in
considerazione delle caratteristiche strutturali e delle
posizioni degli immobili rispettivamente interessati
permetta ad una persona di media altezza l'affaccio sul
fondo del vicino o il semplice prospetto.
2) Vedute dirette, oblique,
laterali, ad appiombo e le relative distanze
art. 905. c.c. Distanza per
l'apertura di vedute dirette e balconi. Non si possono
aprire vedute dirette verso il fondo chiuso o non chiuso
e neppure sopra il tetto del vicino, se tra il fondo di
questo e la faccia esteriore del muro in cui si aprono
le vedute dirette non vi è la distanza di un metro e
mezzo.
Non si possono parimenti costruire
balconi o altri sporti, terrazze, lastrici solari e
simili, muniti di parapetto che permetta di affacciarsi
sul fondo del vicino, se non vi è la distanza di un
metro e mezzo tra questo fondo e la linea esteriore di
dette opere.
Il divieto cessa allorquando tra i
due fondi vicini vi è una via pubblica[34].
art. 906 c.c. Distanza per
l'apertura di vedute laterali od oblique. Non si possono
aprire vedute laterali od oblique sul fondo del vicino
se non si osserva la distanza di settantacinque
centimetri, la quale deve misurarsi dal più vicino lato
della finestra o dal più vicino sporto.
art. 907 c.c. Distanza delle
costruzioni dalle vedute. Quando si è acquistato il
diritto di avere vedute dirette verso il fondo vicino,
il proprietario di questo non può fabbricare a distanza
minore di tre metri, misurata a norma dell'articolo 905.
Se la veduta diretta forma anche
veduta obliqua, la distanza di tre metri deve pure
osservarsi dai lati della finestra da cui la veduta
obliqua si esercita.
Se si vuole appoggiare la nuova
costruzione al muro in cui sono le dette vedute dirette
od oblique, essa deve arrestarsi almeno a tre metri
sotto la loro soglia.
Alla stregua del dettato normativo,
per definire se una veduta sia diretta, obliqua o
laterale, occorre tener conto della collocazione
(posizione) del confine del fondo rispetto al muro in
cui si trova la finestra o lo sporto o l'apertura o il
manufatto da cui la veduta è esercitata, a prescindere
dalla posizione di chi guarda.
L'affacciarsi di fronte costituisce
veduta diretta sul fondo del vicino, situato in tutto o
in parte di fronte alla veduta.
Considerando, peraltro, lo sguardo
o la visuale come una unica linea retta, che parte
dall'insieme dei due occhi della persona che guarda,
possono individuarsi diversi modi con cui tale visuale
si rapporta con la linea di confine.
Possono così configurarsi vedute
dirette anche da finestre o aperture che si trovino su
muri non paralleli al confine con il fondo del vicino,
purché formino un angolo acuto con il confine stesso. In
particolare, la veduta non cessa di essere diretta se
permette di affacciarsi e di indirizzare lo sguardo solo
in alcune delle direzioni proprie della comune veduta
diretta.
Si hanno invece vedute laterali od
oblique quando la veduta formi un angolo acuto con il
confine del vicino ovvero quando il tratto di muro, da
cui si esercita la veduta, formi un angolo retto
rispetto al confine.
Il diritto di veduta, in forza del
disposto dell'art. 907, ultimo comma, c.c., comprende
peraltro anche la facoltà di guardare dall'alto in basso
verso il fondo del vicino, per una profondità verticale
di almeno 3 metri dalla soglia della veduta stessa.
Difatti secondo la S.C.[35] la
veduta laterale, che ricorre quando il confine del fondo
del vicino ed il muro dal quale si esercita la veduta
formano un angolo di 180 gradi, può essere esercitata,
oltre che di lato, anche in basso, verticalmente,
assumendo, così, le caratteristiche della veduta in
appiombo, che deve, perciò, considerarsi espressamente
ammessa dal codice civile che, proprio per specificare i
limiti normali di tale veduta (e della veduta obliqua in
basso), impone a colui che vuole appoggiare la nuova
costruzione al muro da cui si esercita la veduta di
arrestarsi almeno a tre metri sotto la soglia della
medesima (art. 907 c.c.).
Ricorre, conseguentemente, la
servitù di veduta in appiombo tutte le volte in cui, per
i maggiori contenuti della zona di rispetto prevista nel
caso concreto, essa determini, per il fondo sul quale si
esercita verticalmente, una restrizione dei poteri
normalmente inerenti al diritto di proprietà delineati
dalle norme sulle distanze, risolvendosi così in un peso
imposto a tale fondo per il vantaggio (utilità) del
fondo dal quale la veduta si esercita, come nel caso
delle vedute esercitate anche verticalmente dai
proprietari dei singoli piani di un edificio
condominiale dalle rispettive aperture fino alla base
dell'edificio.
Ai fini della veduta in appiombo o
in verticale, la configurazione della veduta come
diretta, obliqua o laterale è irrilevante, nel senso che
l'inclinazione assunta dalla visuale non è importante
quando questa si esercita in verticale.
Ove si verta in materia di vedute
jure servitutis, se il fondo servente appartenga a più
persone, potranno aversi più visuali distinte, con
conseguente diversa configurazione del tipo di veduta
(diretta, laterale od obliqua).
Secondo la giurisprudenza[36] si
ha, peraltro, veduta diretta solo quando sia consentito
guardare di fronte al fondo del vicino, senza che
occorra volgere lo sguardo lateralmente; mentre le
vedute laterali od oblique non consentono di volgere il
capo da un lato, per guardare nel fondo del vicino.
Pertanto, si ha veduta diretta sul
fondo del vicino quando la parete in cui sono aperti la
finestra o il balcone è parallela al confine del fondo
vicino o forma con questo un angolo acuto.
Non sono tuttavia aperture
rilevanti ai fini delle distanze, quelle da cui il
proprietario eserciti la veduta su un proprio fondo che
si frapponga, come superficie libera, rispetto alle
contigue proprietà altrui. In particolare, non può
esservi veduta legalmente intesa quando le visuali si
dirigano sul fondo proprio e non raggiungano il confine
del fondo vicino, perché ostacolate da un muro proprio,
di cinta o di fabbrica.
In ogni caso, quando la legge
presuppone una veduta solo diretta – come nel caso di
cui all'art. 905 – o soltanto una veduta laterale od
obliqua – come nel caso di cui all'art. 906 – o infine
una veduta diretta formante anche veduta obliqua – come
nel caso di cui all'art. 907, secondo comma – si devono
prendere a riferimento i fondi su cui si esercitano le
singole vedute da un'unica apertura, anche se tali fondi
non siano contigui all'apertura stessa.
La distanza delle costruzioni dalle
vedute va misurata riferendosi al punto più vicino
dell'opera da cui si esercita la veduta del fondo del
vicino.
Inoltre secondo la S.C.[37] nel
caso in cui la linea di confine tra due proprietà sia
costituita da un muro comune, nella misurazione della
distanza di cui all'art. 906 cod. civ. per l'apertura di
vedute verso tale muro, il punto di arrivo va posto
nella faccia del muro stesso prospiciente la proprietà
in cui la veduta è esercitata e non già nella linea
mediana di esso.
Bisogna, pertanto, tracciare un
piano ideale sul confine e misurare perpendicolarmente
ad esso la distanza dal punto più sporgente della
costruzione.
Le prescrizioni relative alle
distanze per l'apertura di vedute dirette e balconi,
contenute nell’art. 905 c.c, devono essere poste in
relazione all'altra norma, di cui all'art. 873 del
medesimo codice. Da ciò consegue che ove nel compiere la
costruzione non sia stata rispettata la distanza, dal
fondo del vicino fissata, dal codice o dai regolamenti
locali non si possano aprire vedute iure proprietatis,
tuttavia il pacifico principio appena espresso trova
contemperamento nella possibilità di accordi inter
partes che deroghino alle distanze legali nelle
costruzioni e, con esse, alle conseguenti distanze per
l'apertura di vedute dirette od indirette[38].
Il regime legale delle distanze
delle costruzioni dalle vedute, prescritto dall'art. 907
cod. civ., non è applicabile, stante il disposto
dell'art. 879, secondo comma, cod. civ. – per il quale
alle costruzioni che si fanno in confine con le piazze o
le vie pubbliche non si applicano le norme relative alle
distanze – non solo quando la strada o la piazza
pubblica si frappongano tra gli edifici interessati, ma
anche nel caso in cui le stesse delimitino ad angolo
retto, da un lato, il fondo dal quale si gode la veduta,
e, dall'altro, il fondo sul quale si esegue la
costruzione[39].
In aggiunta, altra deroga si ha
qualora le previsioni contenute in un piano di
lottizzazione e nei progetti esecutivi ad esso allegati,
con le quali si consente l'apertura di luci o vedute a
distanza inferiore a quella minima legale, danno luogo
alla costituzione di altrettante servitù prediali
rispettivamente a favore e contro ciascuno dei lotti del
comprensorio e vincolano gli acquirenti di questi
ultimi, se richiamate ed espressamente accettate nei
singoli atti di acquisto, sempre che l'immobile da cui
si esercita la servitù di veduta sia stato realizzato in
conformità alle prescrizioni del piano di
lottizzazione[40].
Infine, l'esenzione dall'obbligo
del rispetto della distanza stabilita dall'ultimo comma
dell'art. 905 c.c., per l'apertura di vedute dirette
verso il fondo del vicino, non è limitata al solo caso
dell'inserimento tra i due fondi di una via pubblica, ma
va estesa anche al caso in cui tra le due proprietà
fronteggiantisi esista una strada privata soggetta a
servitù pubblica di passaggio[41], al caso cioè in cui
il pubblico transito si eserciti su una porzione di
terreno appartenente ad uno dei frontisti.
Ai fini dell'esistenza di una
servitù di pubblico transito, sono necessari la
generalità dell'uso del bene da parte di una
collettività indeterminata di individui considerati uti
cives, cioè titolari di interessi di carattere generale,
e non uti singuli, ed inoltre l'oggettiva idoneità del
bene all'attuazione di un fine di pubblico interesse,
configurabile nel senso più ampio, anche come mera
comodità. Tali presupposti devono sussistere da tempo
immemorabile, od essersi manifestati per un tempo,
comunque, sufficiente al maturare dell'usucapione.
L'inclusione della strada negli strumenti urbanistici
non ha, per contro, efficacia decisiva, ben potendo,
tuttavia, assumere rilievo unitamente agli altri
elementi di prova.
D) La disciplina per il
Condominio e/o Comunione
In senso generale bisogna
precisare[42] che le norme sulle distanze, rivolte
fondamentalmente a regolare con carattere di reciprocità
i rapporti fra proprietà individuali, contigue e
separate, sono applicabili anche tra i condomini di un
edificio condominiale, purché siano compatibili con la
disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè
quando l'applicazione di queste ultime non sia in
contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la
prevalenza della norma speciale in materia di condominio
determina l'inapplicabilità della disciplina generale
sulla proprietà, quando i diritti o le facoltà da questa
previsti siano compressi o limitati per effetto dei
poteri legittimamente esercitati dal condomino secondo i
parametri previsti dall'art. 1102 c.c. (applicabile al
condominio per il richiamo di cui all'art. 1139 c.c.),
atteso che, in considerazione del rapporto strumentale
fra l'uso del bene comune e la proprietà esclusiva, non
sembra ragionevole individuare, nell'utilizzazione delle
parti comuni, limiti o condizioni estranei alla
regolamentazione e al contemperamento degli interessi in
tema di comunione. (La sentenza impugnata aveva
annullato la delibera condominiale con cui alcuni
condomini erano stati autorizzati a trasformare in
balcone le finestre dei rispettivi appartamenti senza
osservare le distanze legali rispetto ai preesistenti
balconi delle proprietà sottostanti. La Corte, nel
cassare la decisione di appello, ha ritenuto legittima
l'esecuzione delle opere, avvenuta nell'ambito delle
facoltà consentite dall'art. 1102 c.c. nell'uso dei beni
comuni – la facciata dell'edificio – atteso che la
realizzazione del balcone non aveva provocato alcuna
diminuzione di aria e di luce alla veduta esercitata dal
condomino sottostante).
Con una recente sentenza la stessa
Corte di Cassazione[43] ha affermato che l'apertura di
finestre ovvero la trasformazione di luce in veduta su
un cortile comune rientra nei poteri spettanti ai
singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 cod. civ.,
posto che i cortili comuni, assolvendo alla precipua
finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti,
sono utilmente fruibili a tale scopo dai condomini
stessi, senza incontrare le limitazioni prescritte, in
materia di luci e vedute, a tutela dei proprietari degli
immobili di proprietà esclusiva.
Deroga espressa già da altre
sentenze[44] secondo cui quando un cortile è comune a
due corpi di fabbrica e manca una disciplina
contrattuale vincolante per i comproprietari al
riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme
sulla comunione in generale, e in particolare alla
disciplina di cui all'art. 1102, primo comma, cod. civ,
in base al quale ciascun partecipante alla comunione può
servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la
destinazione e non ne impedisca il pari uso agli altri
comunisti. L'apertura di finestre su area di proprietà
comune ed indivisa tra le parti costituisce, pertanto,
opera inidonea all'esercizio di un diritto di servitù di
veduta, sia per il principio nemini res sua servit, sia
per la considerazione che i cortili comuni, assolvendo
alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili
circostanti, ben sono fruibili a tale scopo dai
condomini, cui spetta anche la facoltà di praticare
aperture che consentano di ricevere aria e luce dal
cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza
incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e
vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di
proprietà esclusiva.
Per una maggiore disamina è utile,
comunque, segnalare che a tali pronunce si e arrivati
superando una contraria precedente Giurisprudenza[45]
secondo la quale, invece, il partecipante alla comunione
non poteva, senza il consenso degli altri, servirsi
della cosa comune ai fini dell'utilizzazione di altro
immobile di sua esclusiva proprietà distinto dai fondi
al servizio dei quali questa sia stato originariamente
destinata, perché il relativo uso si sarebbe in tal
guisa rivolto nell'imposizione di fatto di una vera e
propria servitù a carico della cosa comune e a favore
dell'anzidetto immobile. Ne derivava che l'obbligo
stabilito dall'art. 905 c.c. di rispettare le distanze
per l'apertura di vedute dirette sussisteva anche nel
caso in cui lo spazio tra edifici vicini era costituito
da un cortile comune la cui la presenza imponeva a
carico dei proprietari dei fabbricati frontistanti dei
limiti ancora più severi di quelli fissati dalle norme
sulle distanze, in quanto l'esecuzione di nuove
costruzioni (porte a piano terreno, finestre e balconi)
non poteva alterare la destinazione del cortile
consistente nel dare luce ed aria agli edifici su di
esso prospettanti.
Tale deroga trova una limitazione
anche in un’altra pronuncia della Cassazione[46] la
quale stabilisce che, salva l'opposizione, per motivi di
sicurezza o di estetica, degli altri partecipanti alla
comunione, al condominio è consentito aprire nel muro
comune, sia esso maestro oppure no, luci sulla strada o
sul cortile; tuttavia, qualora il muro comune assolva
anche la funzione di isolare e dividere la proprietà
individuale di un condominio dalla proprietà individuale
di altro condominio, ricorrono anche gli estremi per
l'applicabilità dell'art. 903, 2° comma, c. c., con la
conseguenza che, in tal caso, l'apertura della luce
resta subordinata sia alle condizioni ed alle
limitazioni previste dalle norme in materia di
condominio (con riguardo agli interessi riconosciuti a
tutti i partecipanti alla comunione e alle regole
stabilite circa l'uso delle cose comuni da parte dei
singoli condomini) sia, alla stregua del 2° comma del
cit. art. 903 c.c., al consenso del condominio vicino,
in considerazione dell'interesse del medesimo alla
riservatezza della sua proprietà individuale.
Infine, è bene segnalare anche
quest’ultima sentenza secondo cui il condomino,
proprietario del piano sottostante al tetto comune può
aprire su esso abbaini e finestre – non incompatibili
con la sua destinazione naturale – per dare aria e luce
alla sua proprietà, purché le opere siano a regola
d'arte e non ne pregiudichino la funzione di copertura,
né ledano i diritti degli altri condomini sul
medesimo[47].
E) Lo Jure servitutis
L’apertura di una veduta fa sorgere
in chi ne è il titolare, una serie di poteri-doveri, la
cui regolamentazione può formare il contenuto della
servitù di veduta.
Certo è che il diritto di veduta
può nascere
o in forza
1) del diritto di proprietà
o in forza
2) di convenzione costitutiva
di servitù.
In particolare, quando la veduta
sia aperta nel rispetto dei limiti fissati dalla legge,
si è in presenza di un diritto di veduta, in ragione del
diritto di proprietà (jure proprietatis).
Quando la veduta sia invece aperta
in base ad una convenzione scritta tra vicini, che
consenta la deroga alle distanze fissate dalla legge, si
è in presenza di una veduta, in forza di servitù
prediale (jure servitutis). In tal caso, la servitù di
veduta si traduce in un peso gravante sul fondo del
vicino, a vantaggio del fondo da cui la veduta è
esercitata.
L'autorizzazione all'apertura di
una veduta a distanza inferiore, da quella legale e la
rinuncia a pretenderne l'eliminazione avendo ad oggetto
la costituzione di un vincolo di natura reale sul bene,
comportando un peso a carico di uno degli immobili e una
corrispondente utilitas immediatamente fruibile a
vantaggio dell'altro, richiedono,ai sensi dell'art. 1350
cod. civ., la forma scritta "ad substantiam"[48].
In sostanza, la veduta jure
proprietatis non è null’altro che l’esercizio di una
facoltà normalmente inerente al diritto di proprietà di
un fondo costruito, con la conseguenza che, se un
proprietario apre una veduta, nel rispetto delle
distanze legali, il vicino non può opporvisi; mentre la
veduta jure servitutis è quella aperta a distanza minore
da quella legale, fissata dagli artt. 905 e 906 c.c.
Fermo restando che – in base ai principi generali sulle
servitù prediali – ai fini del sorgere di una servitù,
deve essere configurabile una utilità per il fondo
dominante e un peso per il fondo servente.
Difatti, secondo la Corte[49] del
“palazzaccio” rientra nel potere dispositivo delle parti
costituire delle servitù di contenuto atipico ed è,
quindi, consentito convenire a favore di un fondo e a
carico di un altro fondo la servitù di aria e luce,
giacché il contenuto di una limitazione legale della
proprietà immobiliare può essere incluso in una servitù
vera e propria di maggiore portata, attraverso la quale
il fondo venga agevolato, in misura maggiore di quella
che stabilisce la legge, mediante l'onere imposto al
vicino; in tal caso, l'esercizio della servitù rimarrà
disciplinato dal titolo costitutivo di essa ed il
vicino, proprietario del fondo servente, perderà le
facoltà, attribuitegli dall'art. 904 c. c., di chiedere
la medianza del muro per costruirvi in appoggio o di
chiudere la luce con una costruzione in aderenza, poiché
proprio a quel fine tende la costituzione della servitù,
creando a carico del proprietario di quel fondo
l'obbligo di sopportare la luce e di non operarne mai la
soppressione.
In base ai principi generali sulle
servitù la servitù di veduta può essere costituita[50]
per
contratto,
testamento,
pronuncia dell’autorità
giudiziaria,
usucapione o per destinazione
del padre di famiglia.
In particolare, quando nasca per
convenzione, la servitù necessita dello scambio dei
consensi da parte dei vicini interessati, intesi a
definirla in tutti gli elementi necessari per
individuarla e disciplinarla.
In ogni caso, la servitù di origine
convenzionale può essere costituita dal proprietario del
fondo servente, dal superficiario, dall’enfiteuta, dal
nudo proprietario e, se il fondo servente appartenga a
più proprietari, da tutti i comproprietari. (ad es.
occorre l’unanimità dei consensi di tutti i condomini).
Quanto alla servitù di veduta
costituita per testamento, essa è l’unica ad essere
costituita unilateralmente, nell’ambito delle servitù
volontarie: si pensi al caso in cui il testatore imponga
all’erede di costituire una servitù di veduta in favore
di un fondo, ovvero attribuisca al legatario il diritto
di ottenere la costituzione di una servitù di veduta, a
carico del fondo dell’erede o di altro legatario.
La servitù di veduta può in ogni
caso – come ogni altra servitù prediale – essere
costituita anche con pronuncia dell’autorità
giudiziaria. In tal caso, la pronuncia giudiziale
costitutiva della servitù è configurata non alla stregua
delle pronunce di accertamento dichiarativo, quali
possono essere quelle che decidono controversie, in
ordine all’esistenza o non di una servitù; ma alla
stregua delle sentenze costitutive, di cui all’art. 2932
c.c.
Da ultimo, la servitù di veduta può
nascere anche per destinazione del padre di famiglia
(art. 1062 c.c.), quando il fondo servente ed il fondo
dominante siano appartenuti ad un unico proprietario e
questi abbia lasciato una situazione di fatto dei
luoghi, tale da permettere l’insorgere di una servitù.
Ma tale argomento sarà affrontato al prossimo
paragrafo[51].
1) Modifiche comportanti
aggravio di servitù[52]
Sono state ritenute modifiche
gravatorie della servitù di veduta:
· la trasformazione di una
finestra munita di inferriata in porta priva di
inferriata;
· l’abbassamento del
parapetto da cui si esercita la veduta da una finestra o
da una terrazza;
· l’ingrandimento in altezza
di una finestra;
· lo spostamento, rispetto al
suo asse, dell’apertura o il suo allargamento;
· la trasformazione di una
terrazza in un vano abitabile, con trasformazione del
parapetto esistente in finestra;
· la trasformazione di una
finestra in un ballatoio pensile (in conseguenza del
maggior numero di persone che, sostando sul terrazzo,
possono esercitare la veduta);
· la trasformazione di una
finestra in una terrazza, che renda più gravosa la
condizione del fondo servente;
· la sostituzione di una
terrazza con una finestra, posto che la finestra
praticata in un vano chiuso consente una permanenza più
comoda, agevole e protetta dagli agenti atmosferici
esterni, con possibilità per il proprietario di guardare
senza essere visto.
2) Modifiche non comportanti
aggravio di servitù[53]
Sono invece ritenute modifiche che
non comportano aggravamento della servitù:
· l’inserimento, in una
veduta, di sportelli o persiane, prima non esistenti;
· la sostituzione del
davanzale di un parapetto di mattoni con un parapetto in
lastre di pietra o di marmo;
· lo spostamento in altezza
di una finestra o di una terrazza, lungo lo stesso asse;
· la sostituzione di una
finestra con una terrazza;
· il cambiamento del luogo di
esercizio della servitù di veduta (art. 1068, secondo
comma, c.c.);
· lo spostamento verso
l’alto, di una finestra, a seguito della sopraelevazione
del pavimento;
· lo spostamento in altezza
di una terrazza, posto che tale spostamento comporta un
semplice cambiamento del luogo di esercizio della
servitù preesistente, per il quale non è richiesto un
nuovo titolo;
· la chiusura di un lato del
terrazzo con un muro e una finestra. Si è peraltro in
presenza di una nuova servitù nel caso di edificazione
· in un nuovo piano
sopraelevato - di una veranda coperta, con davanzale di
affaccio in luogo del parapetto affacciatoio del
preesistente terrazzo: in tal caso si è al di fuori
della ipotesi prevista dall’art. 1067, trattandosi di
nuova servitù e non già di innovazione o aggravamento
della preesistente servitù.
· Infine secondo la
Cassazione [54] in alcuni casi in tema di servitù, la
trasformazione in porta di una finestra, la quale è
destinata alla veduta verso l'immobile altrui, dà luogo
al mutamento da servitù di veduta a servitù di
passaggio, posto che la funzione precipua della porta è,
appunto, il transito da un luogo all'altro. (Fattispecie
relativa alla trasformazione di una finestra
prospiciente un lastrico solare in porta-finestra).
3) Cause di estinzione della
servitù di veduta[55]
Quanto alle cause di estinzione
delle servitù di veduta: esse sono le stesse cause
tipiche previste, per tutte le servitù , dagli artt.
1072-1078 c.c.: confusione, prescrizione, impossibilità
dell’esercizio e del godimento, perdita del diritto
dell’enfiteuta, rinuncia, perimento totale (a parte le
cause tipiche previste dalle leggi speciali).
Vale peraltro la pena di
soffermarsi, sia pure schematicamente, sulle cause di
estinzione delle servitù di veduta.
Estinzione per confusione. Si
verifica quando il fondo dominante ed il fondo servente,
già appartenenti a soggetti diversi, passano in
proprietà ad un unico soggetto. In tal caso,
l’estinzione si verifica immediatamente; ma la
originaria servitù non rinasce se il nuovo unico
proprietario rivenda, subito dopo, uno dei due fondi
acquistati. Fermo ovviamente restando che l’estinzione
si verifica solo se l’acquisto del dominio sui due fondi
sia pieno e non limitato, ipotesi questa che può
verificarsi nei casi di nuda proprietà, usufrutto,
eredità accettata con beneficio di inventario ecc.
Estinzione per prescrizione. Si
verifica, per esempio, quando il vano di apertura della
finestra, costruito in muratura, venga chiuso e la
finestra perda la sua caratteristica essenziale,
diventando solo una parte del muro in cui era stata
aperta. In particolare, il non uso, protratto per un
ventennio - decorrente dal momento in cui ebbe inizio
l’esercizio della veduta - comporta l’estinzione della
servitù per prescrizione.
Estinzione per impossibilità
dell’esercizio della servitù di veduta. Tale causa di
estinzione opera quando il mancato esercizio si sia
protratto per il tempo indicato dalla legge, quali che
siano le ragioni che l’abbiano determinato. In tal caso,
la servitù diventa inutile, sicché l’estinzione, per
impossibilità dell’esercizio, ben può essere equiparata
al caso della estinzione per prescrizione.
Estinzione per perdita del
diritto dell’enfiteuta. Poiché la servitù dura fin che
duri l’enfiteusi, la servitù di veduta si estingue anche
nei casi di cessazione dell’enfiteusi, previsti dalla
normativa del codice, se l’enfiteusi è perpetua, o al
termine del tempo prefissato per la scadenza, se
temporanea.
Estinzione per rinuncia totale
o parziale. Tale causa di estinzione si concretizza in
una manifestazione di volontà del titolare della servitù
, a mezzo di atto scritto e trascritto, a norma degli
artt. 1350 e 2643 c.c. Peraltro, poiché la servitù -
come diritto reale parziale - è esercitabile erga omnes,
la rinuncia non può avere alcun destinatario
determinato. Conseguentemente, la rinuncia non ha natura
ricettizia, anche se deve essere manifestata in forma
scritta, a norma dell’art. 1350, salva la trascrizione
per l’opponibilità ai terzi.
Estinzione per perimento totale
del fondo servente o dominante. Tale causa di estinzione
si verifica in presenza della distruzione materiale e
permanente di uno dei fondi, con esclusione di una
qualsiasi utilizzabilità dei fondi. Peraltro, la
ricostruzione dell’immobile crollato o demolito può dar
luogo a una nuova servitù ove intervenga entro il
ventennio successivo al crollo (art. 1074 c.c.). Si
tenga in proposito presente che la distruzione
dell’immobile oggetto di servitù non è causa di
estinzione della servitù quando quest’ultima possa
essere esercitata, sia pure con diverse modalità, ma nei
limiti e per gli scopi per i quali era stata
originariamente costituita. La minore ipotesi del
perimento parziale del fondo potrà comportare, invece,
una diminuzione di godimento della servitù , non anche
la sua estinzione.
Estinzione per altre cause
tipiche previste dalle leggi speciali ed in particolare
dalla legge sulle espropriazioni (art. 52 della legge 25
giugno 1865, n. 2359). In tal caso, al titolare del
fondo dominante spetterà una quota parte dell’indennità
di esproprio corrisposta al titolare del fondo
espropriato.
F) Usucapione della minor
distanza
Anche il diritto ad avere una luce
o una veduta a distanza non regolamentare può essere
usucapito, l'importante è che vi siano tutti i requisiti
perché ciò avvenga: soprattutto la durata della presenza
di tale luce o veduta, come per gli altri casi di
vent'anni.
In particolare, il possesso della
servitù di veduta, ai fini dell’usucapione, decorre dal
momento in cui l’opera è stata ultimata e destinata al
suo scopo e cioè dal momento in cui è sorta la
possibilità di effettuare l’affaccio.
Sotto questo profilo, ai fini
dell’usucapione, non è necessario l’esercizio continuato
nel tempo della veduta e dell’affaccio, potendo bastare
anche l’esercizio ad intervalli, a condizione che
sussista il requisito della visibilità e cioè che
l’opera relativa alla servitù sia visibile dal titolare
del fondo servente. Sicché, se l’apertura è costruita in
una posizione tale per cui il vicino non possa scorgerla
con la diligenza ordinaria – sia che si guardi
dall’edificio, che dal fondo asservito, che dalle
adiacenze di esso – dovrà ritenersi insussistente il
requisito della visibilità.
La continuità si distingue,
pertanto, dall'interruzione del possesso, giacché la
prima si riferisce al comportamento del possessore,
mentre la seconda deriva dal fatto del terzo che privi
il possessore del possesso (interruzione naturale) o
dall'attività del titolare del diritto reale che compia
un atto di esercizio del diritto medesimo (nella
specie[56], il possessore di una servitù di veduta ne
aveva dismesso per un certo periodo l'esercizio,
eliminando con la schermatura di una terrazza ogni
possibilità di inspectio e di prospectio sul fondo
limitrofo).
Poiché non è necessaria l’esistenza
di un titolo per costituire una servitù per destinazione
del padre di famiglia - la trascrizione, sarà
irrilevante ai fini dell’opponibilità ai terzi.
In ogni caso, non può essere
equiparato ad un titolo costitutivo della servitù per
destinazione del padre di famiglia l’atto ricognitivo
della servitù , che costituisce solo negozio di
accertamento, posto che in tanto può farsi luogo alla
ricognizione di una servitù , in quanto sussista –
perché sorta in precedenza – la servitù stessa.
Secondo la Suprema Corte[57]
qualora si aprano fra un vano e l'altro dell'edificio
condominiale, le luci, essendo prive della connotazione
della precarietà e della mera tolleranza, sono sottratte
alla disciplina prevista dagli artt. 900-904 cod. civ.
con riferimento all'ipotesi in cui le stesse si aprano
sul fondo altrui; pertanto, è possibile - a favore di
chi ne beneficia - acquisire la relativa servitù, per
destinazione del padre di famiglia, o per usucapione, in
virtù del possesso correlato all'oggettiva esistenza
dello stato di fatto nel quale si manifesta
l'assoggettamento parziale di in immobile a servizio od
utilità dell'altro. (Nella specie è stata affermata
l'esistenza, per effetto del possesso ad usucapionem,
della servitù gravante sul terrazzino del sovrastante
vano (ubicato nell'edificio condominiale), nel quale si
apriva fuoriuscendo con un torrino verticale - una
condotta che, partendo da un foro praticato nel solaio
del sottostante terraneo, svolgeva la funzione, oltre
che di "lucernario", di "sfiatatoio" a favore di
quest'ultimo).
Invece, come già è stato analizzato
in precedenza, il possesso di luci irregolari,
sprovvisto di titolo e fondato sulla mera tolleranza del
vicino, non può condurre all'acquisto per usucapione o
per destinazione del padre di famiglia della relativa
servitù, in quanto la servitù di aria e luce - che è
negativa, risolvendosi nell'obbligo del proprietario del
fondo vicino di non operarne la soppressione - non è una
servitù apparente, atteso che l'apparenza non consiste
soltanto nell'esistenza di segni visibili ed opere
permanenti, ma esige che queste ultime, come mezzo
necessario all'acquisto della servitù, siano indice non
equivoco del peso imposto al fondo vicino in modo da
fare presumere che il proprietario di questo ne sia a
conoscenza. Né la circostanza che la luce sia irregolare
è idonea a conferire alla indicata servitù il carattere
di apparenza, non essendo possibile stabilire dalla
irregolarità se il vicino la tolleri soltanto,
riservandosi la facoltà di chiuderla nel modo stabilito,
ovvero la subisca come peso del fondo, quale attuazione
del corrispondente diritto di servitù o manifestazione
del possesso della medesima[58].
Sempre in tema di usucapione,
infine, quando l'interruzione del termine[59] necessario
ad usucapire derivi, ai sensi dell'articolo 1165 cod.
civ., dal riconoscimento del diritto del proprietario
della cosa su cui il possesso è esercitato, siffatto
riconoscimento, per essere operante a tali fini, deve
provenire direttamente dal soggetto che lo manifesta o
da soggetto abilitato ad agire in nome e per conto di
quest'ultimo. (Nella specie è stato negato che, per il
solo fatto dell'utilizzo del plurale nelle missive
indirizzate al proprietario confinante, nelle quali ci
si obbligava ad eliminare affacci e luci abusive, il
mittente avesse manifestato anche la volontà della
propria consorte di dismettere le predette servitù
illegittime in favore dell'immobile di proprietà
esclusiva di quella).
G) La tutela
Come già si è avuto modo di
parlarne in merito all’istituto delle distanze tra le
costruzioni, il proprietario ha diritto – qualora venga
realizzata una luce o una veduta ex art. 900 c.c. senza
rispettarne i limiti stabiliti – alla riduzione in
ripristino ex art. 2933 c.c. [60] (di natura reale,
qualificabile come negatoria servitutis[61]) ed al
risarcimento del danno[62] (di natura obbligatoria).
Ma tale azione di cui all'art. 907
cod. proc. civ. , relativa alla distanza delle
costruzioni dalle vedute, ha natura giuridica,
presupposti di fatto e contenuto precettivo diversi da
quelli relativi alla disciplina di cui all'art. 873 cod.
proc. civ. che regolamenta la distanza tra le
costruzioni al diverso fine di evitare la formazione di
intercapedini dannose; ne consegue che al proprietario
che richieda in giudizio la tutela del suo dominio da
abusi del vicino concretantisi in violazione delle norme
sulle distanze tra le costruzioni, non può essere
accordata, perché estranea all'oggetto della sua
domanda, la tutela di diritti di veduta e non può,
pertanto, disporsi l'arretramento di una sopraelevazione
per il mancato rispetto della distanza da tale veduta,
invece che per il mancato rispetto della distanza tra
costruzioni[63].
Sempre secondo la Corte di Piazza
Cavour[64] in tema di risarcimento del danno per lesione
dei diritti reali – nella specie, del diritto di veduta
– rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito
(il cui mancato esercizio non è censurabile in sede di
legittimità) attribuire al danneggiato il risarcimento
per equivalente anziché quello in forma specifica, salvo
il dovere, imposto dall'art. 2933, secondo comma, cod.
civ., di provvedere nel primo senso se la distruzione
della cosa è di pregiudizio per l'economia nazionale.
A parere di altra pronuncia della
stessa Corte[65] il giudice adito con domanda di
condanna alla demolizione di una veduta abusiva può
imporre, in luogo della demolizione, gli specifici
accorgimenti che eliminano la veduta solo in presenza di
una richiesta in tal senso di colui che ha aperto la
veduta.
Principio ripreso da un sentenza
della Corte d’Appello di Ancona[66] ovvero: il Giudice
può disporre, in via alternativa, alla demolizione delle
porzioni immobiliari per mezzo delle quali sono
esercitate o esercitabili le vedute abusive,
l'esecuzione e, dunque, la predisposizione di specifici
ed opportuni accorgimenti, idonei ad inibire tali
vedute, purché la parte processuale che ne abbia
interesse chieda espressamente al Giudice l'esercizio di
siffatto potere. In tal senso, nel caso concreto è stato
dichiarata infondata la censura sollevata verso la
sentenza del giudice di prime cure per non aver previsto
nessuna soluzione alternativa alla demolizione delle
opere oggetto di esame, atteso che l'appellante, pur
avendo nel motivo di gravame prospettato la possibilità
di ottenere il rispetto delle distanze di cui all'art.
905 c.c. con mezzi diversi dalla demolizione, non aveva
poi nelle conclusioni dell'atto di appello, richiesto
che la Corte di Appello adita disponesse concretamente
soluzioni alternative alla demolizione, essendosi
limitato genericamente a richiedere il rigetto delle
domande attrici.
Contraria risulta, però essere, una
pronuncia della Suprema Corte[67], a mente della quale
in presenza di una domanda diretta all'eliminazione di
vedute, perché esercitate da distanza inferiore a quella
di legge, la statuizione del giudice che consente (in
alternativa all'obbligo di eliminazione) l'arretramento
delle vedute stesse, senza la necessità di eliminarle, è
perfettamente in linea con la domanda, senza che sia
necessaria, al riguardo, una specifica richiesta della
parte convenuta.
Logicamente anche in merito
all'art. 906. cod. civ., il quale assoggetta l'apertura
di vedute laterali od oblique sul fondo contiguo alla
distanza di cm. 75 da misurarsi dal più vicino lato
della finestra o dal più vicino sporto, è attribuito[68]
al vicino in caso di violazione il diritto di agire per
ottenere la condanna al ripristino della distanza legale
inosservata, mediante arretramento della finestra o
dello sporto da cui le vedute siano esercitate o
esercitabili, ovvero in alternativa, e sempreché il
convenuto ne abbia fatta espressa richiesta, attraverso
l'adozione di specifici ed opportuni accorgimenti (quali
la collocazione di pannelli stabiliti in vetro retinato
opaco) idonei ad evitare che tali vedute siano
esercitabili a distanza inferiore a quella legale.
L'apprezzamento circa l'adeguatezza
dei correttivi concretamente adottati è riservato al
giudice del merito e si sottrae al sindacato di
legittimità se congruamente motivato.
Per quanto riguarda, invece,
l’onere probatorio chi agisce giudizialmente per fare
dichiarare la inesistenza a carico del proprio fondo di
una servitù di veduta diretta deve limitarsi a provare
che sul fondo del vicino si apre una veduta a distanza
inferiore a un metro e mezzo dal confine, in quanto
l'art. 905 cod. civ. gli dà diritto di pretenderne
l'eliminazione, mentre incombe al convenuto, ai sensi
dell'art. 2697 cod. civ. per evitare il riconoscimento
di tale diritto, fornire la prova di un titolo che gli
attribuisca la servitù di veduta. Soltanto se affermi
che la veduta sia stata aperta in sostituzione di
un'altra veduta di cui ammetta o non contesti la
conformità al diritto, l'attore deve, altresì,
dimostrare il presupposto su cui si basa la sua pretesa,
cioè la difformità della nuova veduta rispetto a quella
preesistente[69].
In particolare, poi, il vicino che
eccepisca la natura pubblica[70] della porzione di
terreno che separa il suo fabbricato, su cui ha aperto
vedute a distanza inferiore a quella legale, da quello
antistante, acquistato da altri con il medesimo titolo
unitamente a tale porzione, ha l'onere di provare tale
natura demaniale, e a tal fine le risultanze catastali
concernenti la particella in contestazione hanno valore
meramente indiziario, ancorché risalenti al tempo
dell'istituzione del catasto, perché prive di efficacia
negoziale, mentre le note di conferma del Comune al
riguardo hanno carattere unilaterale[71].
1) L’azione volta a
regolarizzare le servitù ex art. 902 c.c.
In virtù dell’art. 902, oltre alle
azioni su elencate, vi è un’ulteriore e diversa azione
ovvero: in materia di diritti reali, la domanda volta ad
obbligare il vicino alla regolarizzazione di una luce,
pur costituendo quantitativamente un minus rispetto alla
actio negatoria servitutis, rappresenta un qualcosa di
diverso rispetto a quest'ultima; ne consegue che –
proposta domanda originaria di riduzione a distanza
legale di una servitù di veduta diretta ed indiretta sul
proprio fondo – costituisce domanda nuova, come tale
inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la
regolarizzazione di una luce irregolare, atteso che
l'accoglimento di detta domanda imporrebbe l'esecuzione
di opere non ricomprese nel petitum originario[72].
Inoltre, viola il principio di
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato il
giudice di merito che, adito allo scopo di sentir
dichiarare l'illegittimità di alcune vedute aperte in
una costruzione eretta in sopraelevazione, ne abbia
imposto la regolarizzazione invece come "luci". Diversi
sono infatti, i presupposti per l'una e l'altra
disciplina, riguardando l'art. 905 cod. civ. le aperture
che consentono di inspicere e di prospicere, cioè di
vedere ed affacciarsi verso il fondo del vicino, ed
invece gli artt. 901 e 902 c.c. il diritto di praticare
aperture in direzione di quello per attingere luce ed
aria; così come diversi sono i rimedi, poiché
l'inosservanza delle distanze dettate dall'art. 905 cod.
civ. può essere eliminata soltanto dall'arretramento o
chiusura delle vedute, mentre le prescrizioni sulle luci
possono farsi rispettare attraverso la loro semplice
regolarizzazione[73].
Sentenza che riprende a pieno il
principio più volte enunciato dalla stessa suprema
Corte[74] in senso più generale ovvero: i diritti
assoluti – reali o di status – si identificano in sé e
non in base alla loro fonte, come accade per i diritti
di obbligazione, sicché, l'attore può mutare il titolo
in base al quale chiede la tutela del diritto assoluto
senza incorrere nelle preclusioni (artt. 183, 189 e 345
cod. proc. civ.) e negli oneri (art. 292 cod. proc.
civ.) della modificazione della causa petendi, né viene
a concretarsi una violazione del principio della
corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato se il
giudice accoglie il petitum sulla scorta di un titolo
diverso da quello invocato. Infatti, la proprietà e gli
altri diritti reali di godimento appartengono alla
categoria dei cosiddetti "diritti autodeterminati",
individuati, cioè, in base alla sola indicazione del
loro contenuto, rappresentato dal bene che ne
costituisce l'oggetto, onde, nelle azioni a difesa di
tali diritti, la causa petendi si identifica con il
diritto stesso (diversamente da quanto avviene in quelle
a difesa dei diritti di credito, nelle quali la causa
petendi si immedesima con il titolo), mentre il titolo,
necessario ai fini della prova di esso, non ha alcuna
funzione di specificazione della domanda. Ne consegue
che, nel corso del giudizio inteso alla tutela del
diritto di proprietà dall'altrui esercizio di una
veduta, dedotto come illegittimo perché derivante
dall'intervenuta trasformazione di un'originaria luce,
mediante la condanna del convenuto al ripristino degli
accorgimenti impeditivi della veduta previsti dall'art.
901 cod. civ., l'allegazione di un titolo – quale
l'insussistenza di una servitù di veduta – diverso
rispetto a quello posto originariamente a fondamento
della domanda – quale il diritto ad ottenere la
conformazione dell'apertura alle caratteristiche della
luce – altro non rappresenta se non un'integrazione
delle difese, aggiungendosi un ulteriore elemento di
valutazione a quello precedentemente dedotto, che non dà
luogo alla proposizione di una domanda nuova, così come
non implica alcuna rinunzia a che il primo titolo
dedotto venga anch'esso se del caso preso in
considerazione, e, tanto meno, influisce in alcun modo
sulle conclusioni, che restano, comunque, cristallizzate
nel medesimo petitum consistente nella richiesta di
accertamento della lesione del diritto di proprietà e di
pronunzia idonea all'eliminazione della situazione
lesiva. Conseguentemente, decisa la controversia in
primo grado sulla base dell'un titolo, non è preclusa in
secondo grado la decisione sulla scorta dell'altro o di
entrambi, giacché trattasi di argomentazioni difensive
intese a specificare le ragioni della tutela del diritto
reale in discussione che non immutano l'originario thema
decidendum e possono, pertanto, essere svolte dalla
parte interessata non solo nell'atto di appello ma lungo
tutto il corso del giudizio di secondo grado.
2) Le azioni Possessorie
In generale la tutela del possesso
è solo provvisoria se in seguito prevalgono le ragioni
del proprietario in un successivo giudizio petitorio.
Le due azioni devono essere
proposte entro l’anno dall’avvenuto spossessamento o
dalla turbativa. Questo termine è di decadenza con
natura sostanziale, quindi non soggetto alla
sospensione feriale dei termini processuali. Inoltre la
proposizione dell’azione al di fuori del termine
prescrizionale può essere eccepita solo ad istanza di
parte, in quanto, vertendo il termine suddetto su
diritti disponibili, rimane escluso il potere officioso
del giudice di rilevare l’inosservanza. Per il computo
del termine si dovrà fare riferimento al primo atto
effettivamente lesivo, quando i successivi siano posti
in essere con le stesse modalità, altrimenti se i
successivi episodi lesivi integrassero una lesione
autonoma, diversa, a partire da questa dovrebbe
cominciare a decorrere il termine
Orbene l’apertura di luci –
eseguita e mantenuta jure proprietatis – costituisca
estrinsecazione di una facoltà rientrante nel contenuto
del diritto di proprietà fondiaria e del relativo
possesso sull’immobile, consentita quale che sia la
distanza dall’altrui fondo (art.903 c.c.) – quindi anche
con aperture nel muro posto al confine con fondo alieno
– e meritevole di tutela petitoria e possessoria[75].
In tema di possesso di servitù di
veduta, agli effetti della tutela restitutoria di cui
all'art.1168 cod. civ., non è necessario accertare che
la veduta sia esercitata in forza di un regolare titolo
di acquisto[76], essendo sufficiente, invece, la
corrispondenza tra l'esercizio di fatto delle facoltà
della parte istante ed il contenuto della servitù
prediale, in forza di un accertamento, demandato al
giudice di merito, incentrato sull'esistenza di opere
che consentono il possesso delle predette facoltà e del
pregiudizio che ad esse deriverebbero dalla costruzione
della controparte.
Tuttavia[77] non basta l'elemento
obiettivo di una qualsiasi modificazione dello stato di
fatto a concretare lo spoglio e la turbativa in senso
tecnico, ma occorre che lo stato di fatto integri gli
estremi di un possesso o di una detenzione tutelabile
con l'azione di spoglio o di manutenzione, costituendo
ciò il presupposto dell'azione medesima. Pertanto,
poichè l'accertamento dell'esistenza di un possesso o di
una detenzione tutelabile rappresenta un prius rispetto
all'accertamento sulla pretesa immutazione dello stato
di fatto,qualora si invochi la tutela possessoria in
ordine ad una veduta il cui esercizio si assuma turbato
dalla violazione da parte del vicino delle distanze
legali prescritte per le costruzioni antistanti le
vedute, non sconfina dai limiti del giudizio possessorio
ma anzi procede ad un esame preliminarmente necessario
il giudice che,innanzitutto, accerti se la finestra
abbia i caratteri di una vera e propria veduta ovvero di
una semplice luce.
Inoltre sempre secondo la S.C.[78]
per la configurabilità del possesso di servitù di
veduta, tutelabile con l'azione di spoglio, non è
necessario che l'opera da cui questa è esercitata sia
destinata esclusivamente all'affaccio sul fondo del
vicino se, per ubicazione, consistenza e
caratteristiche, il giudice del merito ne accerti
l'oggettiva idoneità all'inspicere ed al prospicere in
alienum, come nel caso di vedute da terrazze, lastrici
solari, ballatoi, pianerottoli, porte di accesso, scale,
così da determinare il permanente assoggettamento al
peso della veduta, non occorrendo che tali opere siano
sorte per l'esclusivo scopo dell'esercizio della veduta,
essendo sufficiente che esse, per l'ubicazione, la
consistenza e la struttura, abbiano oggettivamente la
detta idoneità.
In particolare[79], nel caso di
trasformazione del tetto in terrazzo, munito di riparo o
ringhiera, che venga a trovarsi a distanza inferiore a
quella legale rispetto all'altrui fondo, il comodo
affaccio esercitabile su di questo costituisce turbativa
del possesso del vicino. Tale possesso è reclamabile con
l'azione di manutenzione ed alla predetta turbativa è
possibile porre rimedio con l'esecuzione di opere
idonee, secondo l'insindacabile apprezzamento del
giudice di merito in quanto sorretto da coerente
motivazione, ad evitare l'affaccio a distanza inferiore
a quella legale. (Nella specie, la S.C. ha cassato con
rinvio la sentenza della corte di merito, che aveva
ritenuto sufficiente, per impedire il ravvicinato
affaccio sul fondo dell'attore, dal terrazzo ricavato
dal convenuto sul tetto del suo edificio eliminando le
tegole, un muretto alto 80 cm, spesso 20 cm, ed un
cancelletto alto 110 cm, privo di punte di lancia).
In conclusione qualora sia invocata
la tutela possessoria delle distanze legali, ha natura
petitoria[80] – e, come tale, non può trovare ingresso
nel relativo giudizio, ai sensi dell'art. 705 cod. proc.
civ. – l'eccezione sollevata dal convenuto in ordine
alla legittimità della costruzione, perché realizzata
nel rispetto delle norme urbanistiche vigenti. Al
riguardo, infatti, non può invocarsi il principio
formulato dalla sentenza della Corte costituzionale n.
25 del 1992 che, nel dichiarare l'illegittimità
costituzionale dell'art. 705, comma primo, cod. proc.
civ.(nella parte in cui detta norma subordinava la
proposizione del giudizio petitorio alla definizione
della controversia possessoria e all'esecuzione della
decisione nel caso derivasse o potesse derivare un
pregiudizio irreparabile al convenuto), infrange
soltanto il divieto, per il convenuto in possessorio, di
agire in petitorio "finché il primo giudizio non è
finito o la decisione non sia stata eseguita" , senza
per contro estendere i suoi effetti nell'ambito del
giudizio possessorio, ponendo nel nulla il divieto per
il convenuto di sollevare difese di natura petitoria.
Sorrento, 24/3/2011.
Avv. Renato D’Isa
[1] Cass. civ., Sez.
II, 28/09/2007, n. 20577
[2] Cass. civ.,
Sez. II, 12/04/2006, n. 8572
[3] Trib. Benevento, 14/10/2008 e
Trib. Desio, 03/01/2006
[4] Cass. civ., Sez. II,
13/01/2006, n. 499 e Cass. civ., Sez.
II, 22/01/2004, n. 1005
[5] Cass. civ.,
Sez. II, 13/10/2004, n. 20205
[6] Cass. civ.,
Sez. Unite, 22/09/1997, n. 9342
[7] Trib. Bologna, Sez. II,
03/03/2008
[8] Non può essere considerata luce
una apertura larga 30 cm, situata ad un'altezza di 117
cm dal pavimento del luogo in cui si trova e a 178 cm
dal suolo del fondo vicino, ma deve la stessa essere
qualificata veduta, avendo le caratteristiche per la
inspectio e la prospectio, ossia i requisiti tipici
richiesti - appunto - per la veduta. Trib. Trani,
01/10/2004
[9] Dal codice Napoleonico 1809
(Stamperia Simoniana, Napoli 1809)
Art. 676 “Il proprietario di un
muro non comune contiguo al fondo altrui, può formare in
questo muro delle luci o finestre con inferriate e
invetriate fisse. Queste finestre devono essere munite
di cancelli di ferro, le cui maglie avranno un decimetro
(circa tre pollici ed otto linee) di apertura al più, ed
un telajo ad invetriata fissa”.
Art. 677 “Queste finestre o luci
non si possono collocare a minore altezza di 26
decimetri (otto piedi) al di sopra del pavimento o suolo
della camera, che si vuole illuminare, se questa è a
pian terreno, e di diciannove decimetri sei piedi) al di
sopra del pavimento, se questa è nei piani superiori.”
Art. 678 “Non possono aprirsi
vedute dirette o finestre a prospetto, né balconi o
altri simili sporti sul fondo chiuso o non chiuso del
vicino, se tra il detto fondo ed il muro in cui si
formano le dette opere non vi è la distanza di
diciannove decimetri (sei piedi.”
Art. 679 “La distanza, di cui si
parla nei due precedenti articoli, si computa dalla
faccia esteriore del muro in cui si fa l’apertura; e se
vi sono balconi o altri simili sporti, dalla linea
esteriore sino alla linea di separazione de’ due fondi.”
[10] Il vicino ha sempre il diritto
di chiedere la regolarizzazione delle luci che non siano
conformi alle prescrizioni legislative.
Cass. civ., Sez. II, 09/06/1999, n.
5672
[11] Vedi pag.
25
[12] Cass. civ.,
Sez. II, 05/07/1999, n. 6949
[13] Cass. civ.,
Sez. II, 29/08/1998, n. 8611
[14] Cass. civ.,
Sez. II, 08/03/2001, n. 3441 e Cass. civ. Sez.
II, 10/09/1999, n. 9637
[15] Cass. Civ. n. 59 del 17/1/1948
[16] Cass. civ.,
Sez. II, 25/06/2001, n. 8671
[17] Cass. civ.,
Sez. II, 28/11/1992, n. 12759
[18] Trib. Bologna, Sez. II,
10/07/2006
[19] Cass. civ., Sez. II,
16/08/1993, n. 8744
[20] Pag. 25
[21] In tema di distanze tra
vedute, l'ultimo comma dell'art. 905 c.c. esclude
l'obbligo della distanza prevista per l'apertura di
vedute dirette verso il fondo del vicino, quando tra le
due proprietà contigue vi sia una pubblica via, e tale
prescrizione non presuppone necessariamente che questa
separi i fondi medesimi, ma richiede soltanto che essi
siano confinanti con la strada pubblica,
indipendentemente dalla loro reciproca collocazione
(Nella specie, la S.C., alla stregua del principio
enunciato, ha ritenuto che i giudici del merito avevano
erroneamente ritenuto che il proprietario di un edificio
confinante con una strada pubblica e contiguo ad altro
fabbricato, posto in linea con il primo, fosse obbligato
ad osservare la distanza stabilita per l'apertura delle
vedute dirette).
Cass. civ., Sez.
II, 14/02/2002, n. 2159
[22] Cass. Civile, SS.UU.,
28/11/1996 n. 10615, da ultimo Trib. Roma, Sez. V,
29/04/2010
[23] Cass. civ., Sez. II,
11/11/1994, n. 9446
[24] Per determinare una veduta, a
sensi dell'art. 900 c.c., occorre aver riguardo alla
destinazione permanente e normale dell'opera, da
ricercarsi non già nelle intenzioni del proprietario, ma
nella natura dell'opera oggettivamente considerata, in
quanto nel suo uso normale determini il normale e
permanente assoggettamento del fondo vicino all'onere
della veduta o del prospetto. Trib. Genova, Sez.
stralcio, 30/01/2007
[25] Un'apertura munita di
inferriata, che consenta di guardare sul fondo
sottostante mediante una manovra di per sè eccezionale e
poco agevole per una persona di normale conformazione
fisica, costituisce una luce e non una veduta, con la
conseguenza che, nel caso in cui essa non sia conforme
alle prescrizioni indicate nell'art.901 cod. civ., il
proprietario del fondo vicino può sempre esigerne la
regolarizzazione, non potendo la mera tolleranza della
sua difformità dalle prescrizioni di legge, ancorchè
protratta nel tempo, far sorgere, per usucapione, un
diritto a mantenerla nello stato in cui si trova.
Cass. civ., Sez. II, 19/10/2005, n.
20200
[26] Cass. civ.,
Sez. II, 04/11/2004, n. 21107
[27] Cass. civ.,
Sez. II, 29/03/2005, n. 6576
[28] Cass. civ.,
Sez. II, 26/01/2005, n. 1556
[29] Cass. civ.,
Sez. II, 25/10/2006, n. 22844
[30] Cass. civ.,
Sez. II, 06/09/2005, n. 17802 e Cass. civ. Sez. II,
13/10/2004, n. 20205
[31] Cass. civ.,
Sez. II, 17/01/2002, n. 480 e Cass. civ., Sez.
II, 05/01/2000, n. 27
[32] Cass. civ.,
Sez. II, 05/12/2003, n. 18637 e Cass. civ., Sez.
II, 19/10/2005, n. 20200
[33] Cass. civ., Sez. II,
17/11/2003, n. 17343
[34] L'ultimo comma dell'art 905
cod. civ., il quale esclude l'obbligo di osservare una
distanza minima per l'apertura di vedute dirette verso
il fondo del vicino quando tra i due fondi contigui vi
sia una via pubblica, non presuppone necessariamente che
questa separi i fondi medesimi e che questi si
fronteggino, ma richiede soltanto che essi siano
confinanti con la strada pubblica, indipendentemente
dalla loro reciproca collocazione, sicché i fondi
possono anche essere contigui o trovarsi ad angolo
retto; ciò in quanto l'esonero dal divieto è
giustificato dall'identificazione della strada pubblica
come uno spazio dal quale chiunque può spingere
liberamente lo sguardo sui fondi adiacenti.
Cass. civ., Sez. II, 20/02/2009, n.
4222
[35] Cass. civ.,
Sez. II, 11/02/1997, n. 1261
[36] Cass. Civ.,
17/2/1958, n. 513 e Cass. Civ., 3/11/1956, n. 4109
[37] Cass. Civ.,
10/4/1986, n. 2499
[38] Trib. Genova, Sez. III,
19/05/2008, Trib. Cassino, 09/10/2007
[39] Cass. civ., Sez. II,
24/06/2009, n. 14784
[40] Cass. civ.,
Sez. II, 03/03/2009, n. 5104
[41] Trib.
Monza, 19/11/2007, Cass. n. 13485/2000; Cass. n.
4895/1989
[42]Cass. civ.,
Sez. II, 14/04/2004, n. 7044 e Cass. civ., Sez.
II, 18/03/2010, n. 6546
[43] Cass. civ., n. 13874 del
9/6/2010
[44] Cass. civ.,
Sez. II, 26/02/2007, n. 4386, Cass. civ., Sez. II,
19/10/2005, n. 20200, Cass. civ. Sez. II Sent.,
27/02/2007, n. 4617 e Cass. civ. Sez. II, 16/03/2006, n.
5848
[45] Cass. civ.,
Sez. II, 20/06/2000, n. 8397
[46] Cass. civ.,
12/06/1981, n. 3819
[47] Cass. civ.,
Sez. II, 12/02/1998, n. 1498
[48] Cass. civ.,
Sez. II, 07/07/2006, n. 15430
[49] Cass. civ., 11/05/1983, n.
3258
[50] Cfr. Il Sole 24 Ore - Dossier
- Repertorio di Urbanistica ed Edilizia - Le distanze
in edilizia, vedute o prospetti – pag. 38 – SAIE 2008
[51] Pag. 21
[52] Cfr. Il Sole 24 Ore - Dossier
- Repertorio di Urbanistica ed Edilizia - Le distanze
in edilizia, vedute o prospetti – pag. 39 – SAIE 2008
[53] Cfr. Il Sole 24 Ore - Dossier
- Repertorio di Urbanistica ed Edilizia - Le distanze
in edilizia, vedute o prospetti – pag. 39 – SAIE 2008
[54] Cass. civ.,
Sez. II, 04/05/2010, n. 10746
[55] Cfr. Il Sole 24 Ore - Dossier
- Repertorio di Urbanistica ed Edilizia - Le distanze
in edilizia, vedute o prospetti – pag. 40 – SAIE 2008
[56] Cass. civ.,
Sez. II, 13/12/1994, n. 10652
[57] Cass. civ.,
Sez. II, 22/06/2006, n. 14442
[58] Cass.
SS.UU. 21.11.1996, n. 10285, Cass. civ., Sez. II,
17/06/2004, n. 11343 e Cass. civ., Sez.
II, 04/01/2002, n. 71
[59] Cass. civ.,
Sez. II, 26/03/2008, n. 7847, Cass. civ. Sez. II,
29/11/2006, n. 25250 e Cass. civ. Sez. II, 23/06/2006,
n. 14654
[60] La domanda di eliminazione
delle vedute aperte sul muro perimetrale comune deve
essere proposta nei soli confronti del proprietario
delle vedute stesse e non nei confronti di tutti i
condomini del fabbricato sul quale le vedute si aprono.
Cass. civ., Sez. II, 20/07/1999, n. 7745
[61] L'azione negatoria è rivolta
ad una pronuncia che accerti la libertà dell'immobile
posseduto; l'attore in negatoria deve provare la
proprietà e non anche la libertà del fondo, gravando sul
convenuto l'onere di provare l'esistenza del preteso
diritto. Cass. civ., Sez. II, 28/11/1991, n. 12762
[62] Il danno conseguente alla
violazione delle norme del codice civile (ed integrative
di queste) relative alle distanze da rispettare in caso
di costruzione di balconi o terrazze che permettano di
affacciarsi sul fondo vicino si identifica nella
violazione stessa, costituendo un asservimento "de
facto" del fondo predetto, con conseguente obbligo di
risarcimento danni senza la necessità di una specifica
attività probatoria. Cass. civ., Sez.
II, 24/02/2000, n. 2095
[63] Cass. Civ.,
4/4/2000, n. 4087
[64] Cass. civ.,
Sez. II, 16/01/2007, n. 866
[65] Cass. civ.,
Sez. II, 03/05/1996, n. 4093
[66] App. Ancona, 08/01/2010
[67] Cass. civ., Sez. II,
29/07/2004, n. 14368
[68] Cass. Civ., del 22/2/1994, n.
1693
[69] Cass. civ.,
Sez. II, 29/09/2009, n. 20871 e Cass. civ., Sez. II,
13/06/1994, n. 5734
[70] Pag. 9
[71] Cass. Civ.,
3/7/1999, n. 6885
[72] Cass. civ.,
Sez. II, 23/10/2009, n. 22553 e Cass. civ., Sez. II,
27/12/2004, n. 24024
[73] Cass. civ.,
Sez. II, 02/02/2009, n. 2558
[74] Cass. civ.,
Sez. II, 21/11/2006, n. 24702, Cass. civ. Sez. II,
02/02/2009, n. 2558, Cass. civ. Sez. II Sent.,
26/11/2008, n. 28228, Cass. civ. Sez. II Sent.,
23/11/2007, n. 24446, Cass. civ. Sez. II Sent.,
20/11/2007, n. 2414, Cass. civ. Sez. II Sent.,
17/07/2007, n. 15915 e Cass. civ. Sez. II, 20/07/2005,
n. 15248
[75] Cass. Civ.,
26/1/2000, n.868, Cass. Civ., 19/3/1996, n. 2293; Cass.
Civ., 4/6/1993, n.62
[76] Cass. civ.,
Sez. II, 25/07/2005, n. 15558 e Cass. civ. Sez. II,
13/10/2004, n. 20205
[77] Cass. Civ.,
24/5/1968, n. 1594
[78] Cass. civ.,
Sez. II, 13/10/2004, n. 20205, Cass. civ., Sez. II,
05/05/1998, n. 4526 e Cass. civ., Sez. II, 17/11/2003,
n. 17341
[79] Cass. civ.,
Sez. II, 07/05/2008, n. 11201, Cass. civ. Sez.
II, 25/07/2005, n. 15557 e Cass. civ. Sez. II,
12/05/2003, n. 7267
[80] Cass. civ.,
Sez. II, 20/04/2006, n. 9285 |