Il
d.lgs. n. 229/99, che introduce la c.d. riforma ter del
Servizio Sanitario Nazionale, completa il processo di
costruzione e razionalizzazione del S.S.N., che si era
avviato nel 1978 con la legge 833 e successivamente, nel
1992 con il d.lgs. n. 502 e nel 1993 con il d.lgs. n.
517.
Questo decreto ha concluso il processo di
“aziendalizzazione”, definendo le originarie USSL come
aziende con personalità giuridica di diritto pubblico ed
autonomia imprenditoriale e gestionale, la cui
organizzazione e funzionamento sono disciplinati con
atto aziendale di diritto privato, nel rispetto dei
principi e criteri emanati dalla Regione ai sensi
dell’art. 2, comma 2 sexies del d.lgs n. 229/99, come
modificato dall’art. 1 del d.lgs n. 168/001.
L’aziendalizzazione e la regionalizzazione del Servizio
sanitario nazionale, anche se abbandona la collegialità
gestionale che caratterizzava la legge istitutiva, non
hanno saputo armonizzare quel corretto equilibrio tra
politica e gestione della sanità, auspicato dalla
riforma del 1978.
Dunque, l’attività e i modelli organizzativi delle
aziende sanitarie, A.S.O. (aziende sanitarie
ospedaliere) e A.O.U. (aziende ospedaliere
universitarie) devono uniformarsi in modo sempre più
compiuto ai principi dell’aziendalizzazione, allo scopo
di liberare l’attività gestionale dai vincoli di natura
procedurale propri della pubblica amministrazione. Ciò
permette di realizzare il massimo grado di flessibilità
e dinamicità al fine di assicurare la qualità dei
servizi, nel rispetto delle scelte effettuate
dall’ordinamento, accentuando la distinzione delle
attribuzioni dei tre livelli del Servizio sanitario
nazionale (centrale, regionale e aziendale).
Il
riordino del S.s.n. riconferma i principi
universalistici e solidaristici del nostro sistema
sanitario e riafferma il diritto alla salute non solo
come un bene comune, come un diritto umano di interesse
collettivo, ma come un vero e proprio diritto soggettivo
tutelato individualmente dall’ordinamento. L’obiettivo
che la riforma propone è un’applicazione totale e
incondizionata dei principi del “rispetto della persona”
e della “umanizzazione delle cure”, principi che possono
essere realizzati solo attraverso una stretta
collaborazione tra istituzioni, cittadini, operatori e
produttori di beni e servizi.
Le
aziende, in funzione del perseguimento dei loro fini
istituzionali e per conseguire gli obiettivi prefissati,
devono adottare l’atto aziendale che si pone come
strumento essenziale per pervenire alla qualificazione
delle strutture pubbliche e private preaccreditate,
operanti quindi nell’ambito dell’azienda e delle
professionalità esistenti al suo interno, tenendo conto
della domanda sanitaria espressa dai cittadini. L’atto
aziendale viene adottato dal direttore generale, previa
informazione dello stesso alle rappresentanze sindacali
di categoria interne. L’attività dell’azienda si svolge
in coerenza con la programmazione regionale e/o con gli
atti di indirizzo e di coordinamento generali emanati
dalla Regione e nel rispetto dei principi di
informazione, concertazione e consultazione previsti dai
contratti collettivi di lavoro del comparto sanità e
dagli accordi collettivi di categoria.
La
“reazione” dell’azienda sanitaria al susseguirsi delle
riforme non è sempre razionale e in linea con le
prerogative che caratterizzano i servizi sanitari;
questi servizi, infatti, hanno certamente una vocazione
imprenditoriale, che si manifesta attraverso un’attività
a rilevanza economica, ma anche una vocazione sociale,
in ossequio al dettato costituzionale dell’art. 32. Si
viene a creare un collegamento tra tre concetti, cioè il
diritto alla salute e la sua tutela, l’organizzazione e
le forme di gestione, che non possono sopravvivere
separatamente2. I limiti organizzativi al diritto di
prestazioni sanitarie si accompagnano alle disponibilità
finanziarie e, dopo il 1992, anche ai condizionamenti
scientifici. Infatti, l’”appropriatezza” diviene un
parametro essenziale per l’individuazione dei livelli
essenziali di assistenza sanitaria3; questa difficoltà
di ordine logico si è manifestata anche nel diritto
comunitario, dove i servizi sanitari sono stati esclusi
dall’ambito di applicazione sia della Direttiva sui
“servizi nel mercato interno”4, sia dalla comunicazione
sui “servizi sociali di interesse generale in Europa”5.
Il
dettato costituzionale impone un grado di doverosità
voluto dall’art. 32 Cost., pur ammettendo che la futura
configurazione di tipo aziendale del servizio sanitario
fosse possibile, senza diventare mai un “fine”, ma
sempre un “mezzo”, uno strumento organizzativo a
disposizione del legislatore statale e regionale6.
L’intero sistema che riguarda “l’organizzazione
sanitaria”, sin dal d.lgs. n. 502/92, è caratterizzato
da una marcata ingerenza della legge statale, che
determinando le scelte organizzative regionali deve
assicurare il principio costituzionale del diritto alla
salute, universalmente inteso. Al legislatore regionale
viene attribuita la “determinazione dei principi
sull’organizzazione dei servizi e sull’attività
destinata alla tutela della salute nonché la disciplina
delle modalità organizzative e di funzionamento delle
USSL”7.
Un
approfondimento ulteriore sui profili costituzionali
dopo la riforma del Titolo V, parte II, “l’ordinamento e
organizzazione amministrativa degli enti pubblici
diversi da quelli statali” è divenuta materia di potestà
legislativa regionale c.d. “residuale” (art. 117, comma
4, Cost.). Ne consegue che, essendo le aziende sanitarie
enti pubblici regionali, l’organizzazione di queste è
materia di competenza legislativa regionale “piena”. Ciò
fa riflettere sul fatto che le regioni sono ora in grado
di avere ampi spazi di autonomia organizzativa in campo
sanitario, anche se il governo centrale è restio a
perdere il potere di indirizzo politico che dal 1948 ha
caratterizzato il sistema delle autonomie. Se, infatti,
si scorre con attenzione il d.lgs. n. 502/92 e le
modifiche apportate dal d. lgs. n. 229/99, si riscontra
sempre e in modo accentuato il grado di intervento del
legislatore statale nel disciplinare l’organizzazione
delle aziende USSL. Anche la Corte Costituzionale ha
confermato la corretta scelta dello Stato anche nella
riforma del 2001. Infatti, in molti casi ha adottato
un’interpretazione “estensiva” del concetto “tutela
della salute” e dei principi ad essa collegati,
ricomprendendovi anche l’aspetto organizzativo8. Questa
chiave di lettura di tipo organizzativo consente alla
Corte Costituzionale un’estensione dell’area di
competenza dello Stato che attiene ai principi
fondamentali della materia di legislazione concorrente
denominata tecnicamente “tutela della salute”. Per
esempio, è utile richiamare all’attenzione la sent.
181/2006 Corte cost., dove si nega in modo esplicito la
possibilità di ricondurre le disposizioni sul rapporto
di esclusività della dirigenza medica alle competenze
legislative esclusive statali, di cui all’art. 117,
comma 2, lett. m (determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni) e lett. l (ordinamento civile),
Costituzione.
In
altri casi, la stessa Corte ha scelto di attribuire,
invece, un significato “restrittivo” nel caso di “tutela
della salute”, argomentando in senso differente dalla
sent. 181/2006; essa ha, infatti, separato il momento
organizzativo dall’ambito della materia concorrente “in
tema di organizzazione sanitaria in senso stretto, le
regioni possono adottare una disciplina anche
sostitutiva di quella statale9. E’ evidente, nel
ragionamento della Corte, che la collocazione
dell’aspetto organizzativo sanitario, tipizzato
dall’art. 117, commi 2 e 3 Cost., si orienta tra le
materie “residuali” che fondano la competenza
legislativa delle regioni, richiamandosi all’art. 117,
comma 4 Cost. Sembrano orientamenti che si
contraddicono, ma da questa contraddizione apparente ne
consegue che non sia teorizzabile una definizione ex
ante di organizzazione sanitaria, per cui è preferibile
ricostruire caso per caso la materia in oggetto, a
seconda del quesito posto all’attenzione della Corte.
In
realtà, si propende convintamente per la non
sostenibilità di ripartire in modo rigido, cioè per
materie, la titolarità dell’organizzazione sanitaria a
questo o quell’ente pubblico, essendo peraltro un
settore che coinvolge l’effettività dello Stato sociale.
La Corte afferma solamente che l’organizzazione
sanitaria “inerisce ai metodi e alle prassi di razionale
ed efficiente utilizzazione delle risorse umane,
finanziarie e materiali destinate a rendere possibile
l’erogazione del servizio”10.
L’art. 3, comma 1 bis, del d.lgs. n. 229/99 prevede che
l’organizzazione ed il funzionamento delle aziende
sanitarie siano disciplinati, come già detto, con atto
aziendale di diritto privato, sulla base della
programmazione nazionale e regionale e in conformità ai
principi ed ai criteri di cui al presente schema:
l’organizzazione e le attività delle aziende sanitarie,
nell’ambito delle risorse disponibili, devono essere
improntate a criteri di efficacia, efficienza ed
economicità e sono rivolte ad assicurare, nel rispetto
degli obiettivi posti dagli atti di programmazione
nazionale e regionale, l’erogazione delle prestazioni
essenziali, lo sviluppo del sistema qualità, la miglior
accessibilità dei servizi al cittadino, il raccordo
istituzionale con gli enti locali attraverso la
conferenza dei sindaci, il collegamento con le altre
organizzazioni sanitarie e con il volontariato;
le aziende unità sanitarie locali, in particolare,
provvedono alla programmazione ed alla gestione delle
attività sanitarie ivi comprese quelle di prevenzione di
cui all’art. 7/bis del d.lgs. n. 502/92 e successive
integrazioni e modificazioni e delle attività
socio-assistenziali, nel rispetto delle indicazioni e
delle direttive dell’assessorato regionale alla sanità;
l’adozione di un "bilancio economico rispettante i
livelli uniformi di assistenza sanitaria" e di una
"contabilità analitica, avente la finalità di supportare
le attività di controllo di gestione";
la definizione di un sistema di indicatori per il
monitoraggio della qualità dei servizi e delle
prestazioni;
l’attivazione di procedure per l'analisi e la
valutazione dei costi dei singoli uffici, in modo da
rilevare eventuali scostamenti rispetto ai valori medi
(d.lgs n. 29/1993, successivamente modificato e
integrato dalla l. n. 165/2001).
Sono
solo alcune delle coordinate legislative che hanno
gradualmente modificato il volto della sanità italiana,
la quale deve sì garantire la massima qualità del
servizio, ma deve anche incentrare il proprio operato su
criteri di tipo imprenditoriale, cioè sull’efficacia
(attenzione ai ricavi, cioè il rapporto tra risultati e
obiettivi attesi), efficienza (rapporto ottimale tra
risorse impiegate e prestazioni erogate) ed economicità
(la funzione inversa del costo delle risorse = 1/costo
r.).
Per
garantire la corretta applicazione della volontà del
legislatore è stato necessario abbandonare i
tradizionali metodi della contabilità finanziaria
pubblica per adottare i criteri del bilancio
d'esercizio, che è lo strumento principe per verificare
l'andamento della gestione e l'equilibrio economico e
patrimoniale, non solo finanziario, attraverso i
meccanismi della contabilità analitica per centri di
costo.
Nella
riforma c’era una sorta di contraddizione ideologica. Si
riteneva, infatti, che i disagi e la cattiva gestione
della sanità pubblica potessero essere superati con la
contabilità generale. Ma la contabilità è solo uno
strumento essenzialmente giuridico e finanziario, che
registra determinati accadimenti amministrativi e che
può certamente indicare un percorso rigoroso previsto
dalla legge, ma che non può sostituirsi alla concretezza
della gestione. Vi era, cioè, la convinzione che
“privatizzando” lo strumento di misurazione dei fatti
amministrativi si potesse provocare quasi
automaticamente il miglioramento della gestione. I
fatti, però, hanno dimostrato il contrario.
Le
successive modifiche che seguiranno in un prossimo
futuro, a cura delle regioni, consentiranno di
individuare meglio le modalità di creazione di una
domanda di servizi, che risulti appropriata e di
erogazione di prestazioni di qualità ed a costi
controllati. Il processo di modifica, che sarà di non
facile attuazione, soprattutto a causa della ristretta
disponibilità di risorse finanziarie pubbliche, dovrà
essere supportato da una maggiore attenzione ai problemi
da affrontare quotidianamente a livello locale, entrando
nei dettagli delle difficoltà di realizzazione. Vi è
ancora, a parere di chi scrive, un'eccessiva astrattezza
nelle norme regionali e nazionali, che invece dovrebbero
offrire più spunti di concretezza, per favorire
l’indispensabile crescita culturale degli operatori
sanitari.
Deve
essere compiuto lo sforzo di tradurre i grandi obiettivi
di ogni riforma in una serie di obiettivi sequenziali,
limitati, misurabili e di crescente complessità, ai
quali abbinare con competenza i corrispondenti strumenti
gestionali. Questi sforzi dovrebbero dimostrare la loro
idoneità a perseguire progetti concreti e compatibili
con le risorse disponibili.
Il
d.p.c.m. 29 novembre 2001 in merito alla “Definizione
dei livelli essenziali di assistenza”, ha stabilito che
il S.S.N. costituisce una garanzia per la tutela della
salute dei cittadini e per tale ragione lo Stato e le
regioni dedicano una parte consistente delle risorse
pubbliche per mantenere e realizzare i servizi.
Da
tempo si discute sulle misure da adottare per rendere
compatibili le esigenze del S.S.N. con le risorse che lo
Stato può impegnare ogni anno nella legge finanziaria,
ora legge di stabilità che ha una validità triennale. E’
così che si è sviluppato il concetto dei “livelli” di
assistenza, che fino al 2000 hanno operato solo come
tetto di spesa complessiva da non superare.
Entro
l’anno 2004 ogni Regione avrebbe dovuto rendersi
autonoma in campo sanitario, dimostrando, comunque, di
raggiungere gli obiettivi generali di salute previsti
dal P.S.N..
I
livelli di assistenza sanitaria, comunemente detti
L.E.A., chiariscono quali sono le prestazioni sanitarie,
quali devono essere gratuite e quali invece a pagamento.
I L.E.A. quindi non come strumento di razionamento ma
come strumento di razionalizzazione dell’assistenza.
Prevedono, infatti, che non venga effettuato nessun
taglio alle prestazioni erogate, bensì un meccanismo con
cui si analizza la loro corretta applicazione. Le
prestazioni, cioè le cure mediche, inserite nei livelli
essenziali di assistenza, sono quelle cure che devono
essere garantite dal S.S.N. su tutto il territorio
nazionale. I livelli devono soddisfare gli obiettivi di
salute indicati nel Piano Sanitario Nazionale e sono
stati scelti in base ai principi di efficacia e di
appropriatezza; cioè deve essere dimostrato che quella
cura sia efficace, utile per ridurre o eliminare la
malattia, ed appropriata per quella determinata
patologia. Se più metodi di cura soddisfano entrambe le
condizioni, allora deve essere assicurata la cura più
economica.
Vi è,
peraltro, da sottolineare che la nozione di “livelli
essenziali delle prestazioni” è stata ridefinita e
ripensata più volte dal legislatore, con l’esigenza di
porre un freno alla spesa sociale; ciò ha condizionato,
però, il principio di universalità che aveva
contraddistinto l’impianto originario della l. n. 833
del 1978. Infatti, fino alla fine degli anni novanta la
definizione dei livelli essenziali delle prestazioni
sanitarie non era più ispirata alla garanzia di
omogeneità di tutela dei diritti sul territorio
nazionale, ma diventava uno strumento giuridico per
indirizzare le già scarse risorse pubbliche disponibili
verso le prestazioni “essenziali”, cioè
indispensabili.11
E’
con il d.lgs. n. 229/1999 che si è cercato di agganciare
le prestazioni alle effettive esigenze delle persone,
creando quel meccanismo di garanzia voluto dal
legislatore. Infatti, da una parte si definiscono i tipi
di prestazione erogati in senso uniforme con precedenza
a quelle “essenziali”; dall’altra parte si introducono
criteri per la definizione contestuale dei livelli e
delle risorse finanziarie destinate al S.s.n.; infine,
si delineano i principi e i criteri che consentano di
procedere alla individuazione delle prestazioni c.d.
essenziali. Criteri che vengono definiti di
“pertinenza”, “efficacia”, “appropriatezza”, tutto
commisurato alle condizioni cliniche del paziente e
riferito al sistema organizzativo, cioè all’idoneità del
modello di erogazione12.
A
parere di chi scrive ( e non solo), sembra che ci si
stia perdendo troppo in questioni di spessore
giuridico-finanziarie piuttosto di vedere frontalmente
le criticità con cui si devono fare i conti ogni giorno.
Si continuano a ricostruire i passaggi procedurali che
hanno consentito l’individuazione dei L.E.A., nel
tentativo di razionalizzare la spesa sanitaria; ciò
avviene analizzando il sistema della concertazione con
le regioni, la mediazione dell’Agenzia per i servizi
sanitari, l’accordo per associare ai diversi livelli di
assistenza i diversi costi, verificando la congruità tra
le prestazioni da garantire e le risorse da erogare. E’
lo strumento della contabilità analitica per centri di
costo che governa a tutto campo le garanzie di copertura
finanziaria, sancite dall’art. 81, comma 4, Cost.
Vi
sono stati, poi, problemi di conciliazione tra il
modello procedimentale descritto e la riforma del Titolo
V Cost.; in particolare, la scelta di procedere con un
D.P.C.M. (atto dello Stato) adottato come risultato di
un procedimento concertato con le regioni, ha sollevato
nel 2001 qualche perplessità dal punto di vista della
sua legittimità costituzionale. La Corte, con sent.
88/2003, ha ritenuto adeguato il meccanismo procedurale
del D.P.C.M. al nuovo assetto costituzionale ed ha
confermato la sua validità, considerandolo (tutt’ora)
l’atto principale per la definizione dei livelli di
assistenza sanitaria13.
E’
significativo che si continui a procedere nel senso di
aggiornare i L.E.A. in direzione di una loro estensione
a numerose prestazioni che si collocano nell’area
dell’assistenza “socio-sanitaria”, ad esempio quella
domiciliare, residenziale e semi-residenziale alle
persone non autosufficienti, l’assistenza con cure
palliative per le terapie di sollievo nei casi
inguaribili e così via. Si sta cercando di completare
una vera integrazione delle assistenze, perché certe
patologie, come le demenze, sono ora più che mai
un’emergenza a cui si deve rispondere adeguatamente, con
risorse ed organizzazione, non come purtroppo avviene
ancora oggi.
Alcune riflessioni conclusive
Nel
d.lgs. n. 229/1999 inoltre, sono anche sottolineate
alcune indicazioni per meglio organizzare il servizio
sanitario regionale, che deve concentrarsi maggiormente
sulla prevenzione (seria e non commerciale) delle
malattie. Inoltre si devono mettere in campo i metodi
più avanzati per garantire le cure e, al tempo stesso
ridurre gli sprechi, tra i quali l’uso dell’ospedale per
problemi di salute non gravi o risolvibili in altro modo
o l’uso inappropriato di esami diagnostici, ancora
troppo rappresentativi, in alcuni casi, di una scarsa
capacità diagnostica di primo livello.
E’
stato introdotto il meccanismo dei “protocolli
terapeutici”, che da un lato hanno il pregio di offrire
la garanzia di standardizzazione e controllo delle
prestazioni, cautelando i medici nelle loro scelte di
cura, ma dall’altro, purtroppo, hanno il difetto di
“ingessare” le cure, trascurando le alternative che la
medicina tradizionale è ancora restia a riconoscere. Uno
dei modi per tentare di superare l’empasse potrebbe
essere quello di aumentare la sperimentazione di cure in
un regime di mixmake, cioè utilizzare tutte le
conoscenze cliniche, tradizionali e non, in merito alle
singole patologie. Forse oggi può sembrare un
ragionamento un po’ azzardato, ma potrebbe in un
prossimo futuro, rivelarsi efficace ed anche
economicamente vantaggioso per la gestione della sanità
e per i diritti dei cittadini, utenti delle
prestazioni14.
1 Sul
passaggio dalle varie forme di autonomia ante d.lgs. n.
229/1999 all’autonomia imprenditoriale si veda E.
Menichetti, L’aziendalizzazione del servizio sanitaro
nezionale: profili di organizzazione e della dirigenza,
in R. Balduzzi e G. Di Gaspare (a cura di),
L’aziendalizzazione nel d.lgs. 229/99, Milano, 2004, pp.
44 ss.
2 Sul
tema si veda il lavoro di D. Morana, La salute nella
Costituzione italiana. Profili sistematici, Milano,
2002.
3
Così l’art. 1, comma 7, lett. b, d.lgs. n. 502/1992 e
ripreso dall’art. 1, d.lgs. n. 229/1999.
4
Direttiva 1994/123/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio europeo del 12/12/2006.
5 COM
(2006) 177 del 26/04/2006.
6 Si
veda il “collegato” alla legge finanziaria 2007
(relativa all’anno 2008), che individuava tra i principi
ispiratori del Servizio sanitario nazionale “la
configurazione aziendale delle Unità sanitarie locali e
degli altri enti del Servizio sanitario nazionale che,
nell’ambito dei principi di responsabilità e autonomia
gestionale, assicurano la partecipazione dei
professionisti alle decisioni strategiche riguardanti lo
sviluppo dell’azienda e il decentramento
nell’organizzazione dei servizi”.
7
Art. 2, comma 2, d.lgs. 502/92; per un’analisi attenta
sotto il profilo economico-finanziario, cfr. M.S.
Caroppo e G. Turati, I sistemi sanitari regionali in
Italia. Riflessioni in una prospettiva di lungo periodo,
Milano, 2007.
8
Cfr. C. cost. 50/2005 la quale, in via generale, nega
rigidità e universalità ai principi fondamentali,
affermando che le singole materie concorrenti hanno
diversi livelli di definizione che possono mutare nel
tempo. Per una panoramica della giurisprudenza
costituzionale successiva alla revisione del Titolo V
Cost., v. C. Tubertini, Stato, regioni e tutela della
salute, in A. Pioggia e L. Vandelli (a cura di), La
Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza
costituzionale, Bologna, 2006, pp. 209 ss.; L Cuocolo,
Il diritto alla salute tra neoregionalismo e
federalismo, Milano, 2005; E. Menichetti, La tutela
della salute tra competenze “divise” e interessi
“concordati”. Riflessioni sul destino del servizio
sanitario nazionale nel nuovo Titolo V della
Costituzione, in R. Balduzzi (a cura di), La sanità
italiana tra livelli essenziali di assistenza, tutela
della salute e progetto di devolution, Milano, 2004, pp.
232 ss.
9 Cfr. C. cost. 105/2007, 328/2006, 270/2005, 510/2002.
10 Cfr. C. cost.
105/2007; sull’argomento si rimanda alle interessanti
osservazioni di L. Vandelli, La Repubblica delle
autonomie nella giurisprudenza costituzionale, in A
Pioggia e L. Vandelli (a cura di), cit. pp. 37 ss.
11
Sul punto si veda A. D’Aloia, Diritti e Stato
autonomistico. Il modello dei livelli essenziali delle
prestazioni, in Le regioni, 2003, p. 1078; C. Pinelli,
Sui “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali” (art. 117, comma 2, lett. m)
Cost.), in Dir. pubbl., 2002, pp. 883 ss.
12
L’appropriatezza nelle fonti comunitarie e
nell’ordinamento interno è stata studiata in particolare
da R. Balduzzi, L’appropriatezza in sanità: il quadro di
riferimento legislativo, in AA.VV. (a cura di),
L’appropriatezza in sanità: uno strumento per migliorare
la pratica clinica, Rapporto sanità 2004, Bologna, 2004,
pp. 73 ss.; un approfondimento importante sulle scelte
per l’adozione del PSN alla luce del d.lgs. n. 229/1999
è curato da L. Vandelli, Art. 1(commento), in F.A.
Roversi Monaco (a cura di), Il nuovo servizio sanitario
nazionale, Rimini, 2000, pp. 38 ss.
13 Al
di là di ogni ragionevole dubbio in merito, la sentenza
134/2006 della Corte cost. con cui si torna sul tema
delle fonti normative di disciplina dei LEA e
sull’applicazione del principio di legalità sostanziale;
la Corte afferma, quindi, l’individuazione nei principi
generali del d.lgs. n. 502/1992 e nelle determinazioni
del PSN la disciplina di base idonea ad inquadrare e
circoscrivere il potere normativo secondario del Governo
in questa materia. Cosa ben diversa è accaduta per
quanto riguarda l’intervento del legislatore statale nel
campo dei servizi sociali (art. 22, commi 2 e 4, della
l. n. 328/2000 ma che non è oggeto di attenzione in
questo lavoro. Anche il C. di Stato ha ritenuto di
superare i dubbi di legittimità sollevati in merito al
D.P.C.M., dichiarando improcedibili i ricorsi presentati
per sopravvenuta carenza di interesse (sez. IV, ord. 17
marzo 2003, n. 1002 e sez. IV, 4 febbraio 2004, n. 398,
in Giorn. Dir. amm., 2004, pp. 1103 ss.).
Per
un approfondimento scientifico importante ed autorevole
sull’aziendalizzazione e la trasformazione del servizio
sanitario, in attesa dei riassetti regionali 2011/12, si
veda A. Pioggia, M. Dugato, G. Racca, S. Civitarese
Matteucci (a cura di), Oltre l’aziendalizzazione del
servizio sanitario. Un primo bilancio, F. Angeli, 2008.
14 È
incomprensibile osservare spesso l’attenzione per i
sistemi di raccolta di denaro privati quando sono
finalizzati alle patologie più rare, mentre nessuno
pensa di fare sottoscrizioni, o meglio di studiare forme
di tassazione per finanziare gli aiuti che gli enti
locali e le regioni dovrebbero garantire a tutti, al
posto di quel volontariato a cui si delega volentieri la
responsabilità di ciò che è più sgradevole da
affrontare, per cui è preferibile che se ne occupino le
famiglie, dove queste sono presenti. Si pensi ai
numerosi “singles”, quale tipo di assistenza
socio-sanitaria potranno costituzionalmente pretendere
se le risorse disponibili vincolano sempre ed in ogni
modo qualunque progetto di ricerca e di cura? Un
pensiero serio ed approfondito non è più rinviabile per
un Paese che sia degno della civiltà che lo ha
contraddistinto.
|