di Paolo Pittaro
In caso di parziale abolitio criminis,
la Corte di cassazione deve fare riferimento alla
decisione impugnata, provvedendo, in caso di esito
positivo della verifica, a definire il giudizio e, in
caso negativo, ad annullare senza rinvio la decisione
medesima
Del tutto condivisibile
la sentenza del Supremo Collegio in oggetto, anche se,
trascurando la prima parte relativa ad una questione
meramente processuale, nella seconda parte non brilla
per i riferimenti normativi, affatto mancanti, e per
l’importante citazione giurisprudenziale, pur essa priva
di riferimenti: cosicché spetta all’interprete
ricostruire il quadro giuridico complessivo in cui essa
va situata.
L’imputata, nella sua
qualità di componente di consiglio d’amministrazione di
una società, era stata condannata nel 2001 per
bancarotta fraudolenta, avendo esposto nel bilancio
dell’esercizio 1994 della società, poi fallita, fatti
non rispondenti al vero ex art. 2621 cod. civ. Invero,
la norma (inespressa sul piano meramente letterale) è
costituita dall’art. 223, comma 2, n. 1, del R.D. 16
marzo 1942, n. 267, il quale, nella sua formulazione
originale, disponeva la pena di cui all’art. 216
(reclusione da tre a dieci anni) per gli amministratori,
i direttori generali, i sindaci ed ai liquidatori di
società dichiarate fallite, ”i quali hanno commesso
alcuni dei fatti preveduti dagli artt. 2621, 2622,
2623,2638, 2630, comma primo c.c.”.
Ora, il d.lgs. 11 aprile
2002, n. 61, recante Disciplina degli illeciti penali ed
amministrativi riguardanti le società commerciali, a
norma dell’art. 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366,
ha modificato sia la citata disposizione della legge
fallimentare, sia l’art. 2621 c.c. (ed altri seguenti),
a sua volta poi sostituito dall’art 30, comma 1, della
legge 28 dicembre 2005, n. 262.
Infatti, da un lato,
l’art. 223, comma 2, n. 1, del R.D. 16 marzo 1942, n.
267, è stato innovato nel senso che le persone
richiamate abbiano “cagionato o concorso a cagionare il
dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti
previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627,2628,
2632, 2633 e 2634 del codice civile”, mentre, dall’altro
lato, l’art. 2621 c.c. è stato modificato introducendo,
in breve sintesi, alcune soglie di rilevanza
quantitativa e configurando l’elemento psicologico nella
forma del dolo specifico seppur con riferimento a
fattispecie contravvenzionale.
Il punto, invero,
consiste nella differente formulazione della norma
fallimentare che ha comportato la parziale abolitio
criminis della fattispecie originaria.
Ed è a questo proposito,
e con particolare riferimento ai poteri del giudice di
legittimità, che sono intervenute le Sezioni Unite con
una sentenza di particolare rilevo (Cass. pen., sez.
un., 26 marzo 2003, n. 25887, Giordano e altro, in Cass.
pen., 2003, 3310), la quale ha affermato che in tema di
successione di leggi penali nel tempo, qualora, nelle
more tra la pronuncia della sentenza di condanna oggetto
di ricorso per cassazione e la trattazione di
quest'ultimo, sia intervenuta una modificazione
legislativa che abbia condotto alla parziale abolizione
del reato al quale la condanna si riferisce, la Corte di
cassazione, al fine di stabilire se gli elementi
richiesti dalla legge sopravvenuta per la persistente
configurabilità del fatto come reato abbiano costituito
oggetto di accertamento giudiziale rispetto al quale le
parti abbiano avuto modo di difendersi, deve fare
riferimento alla decisione impugnata, provvedendo, in
caso di esito positivo della verifica, a definire il
giudizio e, in caso negativo, ad annullare senza rinvio
la decisione medesima, secondo la regola dell'art. 129
c.p.p. che impone l'obbligo di immediata declaratoria
delle cause di non punibilità, dovendosi ritenere
incompatibile con tale precetto l'annullamento con
rinvio disposto per consentire al giudice di merito
ulteriori eventuali accertamenti che possano condurre ad
un esito diverso (cfr. pure Cass. pen., sez. V, 9
ottobre 2002, Trebbi, in Cass. pen., 2003, 79; Id., sez.
V, 8 maggio 2002, Torrenti, in Riv. pen., 2002, 770;
contra: Id., sez. V, 25 settembre 2002, Battacchi, in
Cass. pen, 2003, p. 76 ss.
Nello stesso senso, ma
in riferimento al giudice dell’esecuzione, cfr., ex
multis, Cass. pen., sez. I, 17 febbraio 2005, S, ivi,
2006, 1030; Id., sez. V, 5 aprile 2004, Mazzoleni, ivi,
2004, 4051; Id., sez. V, 23 giugno 2003, Sama, ivi,
2004, 457).
Ed è dunque alla stregua
di questo dictum che ora la Suprema Corte si è
interrogata se dalla formulazione del capo di
imputazione ovvero dalla motivazione della sentenza sia
o meno ricavabile il dato che la condotta di
falsificazione del bilancio addebitata all’imputata sia
stata intesa dal titolare dell’azione penale o dal
giudice come capace di avere cagionato o concorso a
cagionare il dissesto della società, come richiesto
dalla nuova formulazione dell’ l’art. 223, comma 2, n.
1, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267: quesito al quale è
stata data risposta negativa, con conseguente
caducazione dell’addebito di bancarotta fraudolenta per
abolitio criminis, ai sensi dell’art. 2, comma 2, c.p.
Certo, almeno in
astratto, poteva rimanere aperta l’indagine se la
condotta in oggetto fosse riconducibile alla nuova
formulazione dell’art. 2621 c.c., superando le previste
soglie di punibilità: ricognizione, tuttavia, comunque
superflua poiché tale contravvenzione, ove mai fosse
stata ritenuta sussistente, sarebbe stata comunque da
ritenersi prescritta. In definitiva: annullo senza
rinvio poiché, almeno sul punto preso in esame, il fatto
non è previsto dalla legge come reato.
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