ringiovanire eletti o elettoriNel Consiglio dei ministri
del 15 aprile è stato approvato, su proposta dei
ministri Meloni e Calderoli, un disegno di legge
costituzionale volto a promuovere la partecipazione dei
giovani alla vita economica, sociale, politica e
culturale della Nazione.
Stando a
quando reso noto dal ministro Meloni nella consueta
conferenza stampa post-Consiglio, il ddl introduce,
innanzitutto, un nuovo art. 31-bis della Costituzione,
in base al quale la Repubblica valorizza, secondo
criteri e modalità stabiliti dalla legge, il merito e la
partecipazione attiva dei giovani alla vita sociale,
politica e culturale della Nazione.
Come ha
rilevato “a caldo” T.E. Frosini (www.loccidentale.it, 18
aprile), questa norma potrebbe fornire di “copertura”
costituzionale eventuali leggi ordinarie volte a
favorire i giovani, a scapito dei meno giovani
(altrimenti il problema di costituzionalità non si
porrebbe), sul presupposto che in Italia i primi siano
oggi ingiustamente penalizzati. L’intenzione di per sé è
lodevole. Ma se l’obiettivo è questo, la formulazione
avrebbe potuto essere più incisiva. Per restare al
parallelo con le pari opportunità uomo-donna, suggerito
dallo stesso Frosini, bisogna ricordare che l’art. 51
Cost. si è dimostrato insufficiente a legittimare
“discriminazioni positive” a favore delle donne finché
non vi fu aggiunto, nel 2003, il periodo finale sulla
promozione “con appositi provvedimenti” delle “pari
opportunità tra donne e uomini”.
Ma
l’intenzione, come si diceva, è senz’altro lodevole.
Il ddl
in questione non si limita però alle norme di principio.
Esso modifica, infatti, l’elettorato passivo per Camera
e Senato, equiparandolo all’elettorato attivo e
abbassandolo perciò a 18 anni (contro gli attuali 25)
per essere eletti deputati e a 25 (contro i 40 di oggi)
per l’elezione a senatore.
I
requisiti di età per votare ed essere eletti alle
elezioni politiche sono oggetto di riflessioni
ricorrenti. In linea di massima, si può ritenere che in
Parlamento vi sia un consenso potenziale abbastanza
ampio sull’abbassamento (di alcuni) dei requisiti
attuali. Il problema è, ovviamente, quali requisiti sia
opportuno abbassare, e di quanto. Il ddl del Governo, ad
esempio, non incide sull’elettorato attivo, ma si limita
a modificare quello passivo (riducendolo addirittura di
15 anni per il Senato).
Ora,
poiché la legge elettorale delle Camere, com’è noto,
caratterizza in modo decisivo la forma di governo, non
si dovrebbe prescinderne quando si valutano le norme
(anche formalmente, oltre che sostanzialmente)
costituzionali sull’elettorato. E proprio la legge
elettorale rende a mio avviso inutilizzabili tre
argomenti, in apparenza molto forti, che vengono spesso
invocati per sostenere l’equiparazione dell’elettorato
attivo e passivo, cioè la strada scelta dal ddl in
questione.
Il
primo: non si vede perché a 18 anni si possa essere
eletti sindaci o presidenti di provincia o, addirittura,
di regione, ma non deputati. Un possibile perché, in
realtà, si vede bene: perché i sindaci e i presidenti di
provincia e di regione sono scelti dai cittadini, che
possono valutarne le qualità personali e la maturità per
ricoprire una certa carica. Per i deputati questo non è
al momento consentito dalla legge elettorale.
Secondo
argomento a favore, evocato dallo stesso ministro Meloni
nella conferenza stampa di presentazione del ddl: in
Germania, Regno Unito e Spagna l’età minima per
l’ingresso in Parlamento è fissata a 18 anni (e anche in
Francia si va in questa direzione). È vero. Ma – a
prescindere dai limiti intrinseci a qualunque
comparazione, che, per essere decisiva, dovrebbe
prendere in considerazione un numero elevato di Paesi, e
confrontare non un solo dato normativo, ma tutti quelli
ad esso connessi, a cominciare, nel caso di specie,
proprio dalla legge elettorale nel suo complesso – in
nessuno di questi Paesi la totalità dei parlamentari è
eletta con il sistema delle liste bloccate. Maggior
valore comparativo ha, invece, l’argomento utilizzato da
Lupo nel suo articolo del 21 gennaio scorso: nessuna
democrazia al mondo prevede uno scarto di 7 anni nella
composizione dell’elettorato delle due Camere (e, del
resto, non lo prevedeva neanche la nostra Costituzione,
perché quando fu approvata la maggiore età si conseguiva
a 21 anni, non a 18): la comparazione, dunque, dovrebbe
indurre a rivedere piuttosto i requisiti dell’elettorato
attivo.
Il terzo
argomento, impiegato da Rosina e Balduzzi nel loro
articolo del 27 gennaio, è il seguente: abbassare l’età
per l’elettorato passivo promuove il merito, perché “la
scelta del più adatto a ricoprire un ruolo va basata
sulla valutazione delle capacità, indipendentemente
dall’età”. Affermazione di principio certamente
condivisibile. Ma perché mai, se un sistema basato sulla
cooptazione non premia il merito tra gli over 25,
dovrebbe funzionare meglio, cioè in modo meritocratico,
tra gli under 25? Il motivo non si capisce, forse perché
non c’è…
Se,
allora, si intende davvero promuovere la partecipazione
politica dei giovani alla vita della Nazione e, al tempo
stesso, favorire l’adozione di politiche legislative più
attente alle esigenze dei giovani, bisogna forse
scegliere una strada in parte diversa, cioè quella di
consentire a tutti i maggiorenni di votare per eleggere
entrambe le Camere. E’ evidente, infatti, che questo
indurrebbe tutti i parlamentari, senatori compresi, e i
partiti politici a tenere in maggiore considerazione il
giudizio degli elettori più giovani. Del resto – come
ricorda, tra gli altri, Pietro Ignazi nel suo classico
saggio sui partiti italiani – fu proprio il voto ai
diciottenni (per l’elezione della Camera) nel 1975, in
seguito all’abbassamento della maggiore età, a produrre
un “massiccio ricambio elettorale”. Inoltre, come già
ricordava Lupo nell’articolo citato, la coincidenza del
corpo elettorale ridurrebbe, seppur di poco, il rischio
di maggioranze diverse nelle due Camere. E questo,
finché non si procede alla riforma del bicameralismo
paritario, è comunque un bene. |