C'è differenza tra diritto del
singolo all'uso delle parti comuni e modalità
d'utilizzazione delle stesse? Sicuramente sì. E' quanto
sostiene la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8941
del 19 aprile.
I condomini sono proprietari delle
cose comuni indicate dall'art. 1117 c.c.; l'elencazione
non è tassativa e, a quelle indicate dalla legge, vanno
unite le parti che per la loro particolare funzione si
pongono in un rapporto di accessorietà rispetto a più
unità immobiliari. Il diritto di condominio, oltre a
comportare l'obbligo di partecipazione alle spese per la
conservazione e l'uso delle cose comuni, fa sì che tutti
i comproprietari abbiano il diritto d'usarle nel modo
che più gli si confà.
Un diritto d'uso quindi che non
deve essere inteso come uso identico e contemporaneo ma
come uso potenziale e differente a secondo delle
personali esigenze d'ognuno.
Le limitazioni a tale diritto
possono essere stabilite solamente con il consenso di
tutti gli interessati (es. regolamento contrattuale) o
con le maggioranze previste per le innovazioni, purché
queste ultime non siano vietate e sempre che si tratti
di limitazioni che rappresentino naturali conseguenze
del mutamento della destinazione d'uso. In caso
contrario le clausole regolamentari e/o le deliberazioni
dovrebbero considerarsi radicalmente nulle.
L'assemblea può disciplinare le
modalità d'uso delle cose comuni
Tutti i condomini hanno diritto di
usare le cose comuni. Per evitare che l'uso d'ognuno
possa generare attriti e sostanziale inutilizzabilità da
parte di altri, l'assemblea può disciplinare
l'utilizzazione delle parti condominiali. Disciplinare
significa rendere effettivo il diritto all'utilizzazione
ma non limitare le possibilità d'uso o escluderle.
Nei casi in cui sorgano
controversie, la competenza a decidere della causa è
devoluta esclusivamente al Giudice di Pace |