In un editoriale del Corriere della
Sera (10 maggio) Alesina e Giavazzi descrivono la triste
situazione dei giovani nel nostro paese, rispetto ad
altri paesi europei: meno giovani cercano lavoro, meno
giovani hanno una qualche occupazione (per lo più
precaria), e meno giovani si laureano.
Vengono avanzate due proposte: la
prima è di abolire la differenza tra contratto a tempo
indeterminato e contratti (di vario tipo) a tempo
determinato, introducendo la loro posto un contratto
unico con tutele crescenti nel tempo. La seconda è di
diminuire l’imposta sul reddito per i giovani; “ciò
aumenterebbe il reddito disponibile dei giovani e li
renderebbe più indipendenti e più impiegabili perché al
lordo delle imposte costerebbero meno alle imprese”.
La prima proposta è quella avanzata
alcuni anni fa da Boeri e Garibaldi, e presentata in
parlamento dal Sen. Ichino (ed altri). Non entro nel
merito di questa proposta se non per dire che
probabilmente risulterebbe più complicata e meno
risolutiva di quanto non si pensi da parte dei
proponenti. Vorrei invece concentrarmi sulla seconda
proposta. Si tratta infatti di un tema che viene
discusso da una decina di anni a livello teorico,
nell’ambito della teoria della tassazione ottimale, e su
questo tema, come ricordano i due autori, negli USA è
stata istituita una commissione presieduta dal neo
premio Nobel Peter Diamond.
Alla base della teoria vi è l’idea
che l’elasticità dell’offerta di lavoro in età giovanile
sia nettamente maggiore rispetto all’età matura (in
particolare per le donne), e che quindi una riduzione
del prelievo fiscale sulle giovani riduca, anche a
parità di prelievo, la perdita secca. Come notano i due
autori se la diminuzione del prelievo porta ad un minor
costo del lavoro, l’effetto benefico si può spostare dal
lato della domanda di lavoro. Questa proposta non
presenta problemi dal punto di vista costituzionale,
come una precedente proposta di Alesina e Ichino
(Andrea) circa la diminuzione dell’imposta sul reddito
femminile (rispetto ad un pari livello maschile). Il
genere è forever, mentre l’età non lo è, come sapeva
bene Lorenzo il Magnifico.
La domanda che pongo è però la
seguente: ma l’Irpef, in quanto imposta progressiva, non
presenta già intrinsecamente questa caratteristica?
Quando si è giovani si guadagna meno, poi
progressivamente nel tempo le remunerazioni aumentano, e
con esse anche il peso dell’imposta sul reddito. Nella
tabella che segue vengono riportati i redditi di una
lavoratrice dipendente, senza carichi familiari, nei
primi due scaglioni, dove si collocano i tre quarti dei
contribuenti, e praticamente tutti i giovani. La tabella
inizia da 8000 euro perché fino a quella cifra l’imposta
è nulla, in quanto l’imposta lorda è inferiore alla
detrazione spettante1. Come si può notare inizialmente
l’incidenza dell’imposta è molto bassa, ma tende a
crescere rapidamente, e, arrivati al limite del secondo
scaglione, ha già superato l’incidenza media generale
dell’Irpef (intorno al 19%). In altre parole la nostra
imposta presenta un’elasticità molto alta, dovuta al
fatto che l’aliquota marginale effettiva del primo
scaglione non è del 23%, ma del 30,17%, e quella del
secondo scaglione non è del 27% ma del 30,34%2.
Pertanto le giovani lavoratrici
iniziano con remunerazioni che hanno un’imposta nulla, o
molto bassa3, ma al crescere della remunerazione il
prelievo cresce troppo velocemente. Il problema più
importante sembra quindi quello di ridurre l’elasticità
dell’Irpef, soprattutto nei primi due scaglioni, ed in
particolare nel primo. Questo risultato si può ottenere
sia riducendo la prima aliquota, ma anche attenuando la
decrescenza della detrazione per lavoro, o meglio
rendendo completamente piatta (almeno per il primo
scaglione). Vi sono molte proposte di revisione
organiche dell’Irpef4, che comportano però riduzioni di
prelievo ben superiori ad un punto di Pil. Pertanto se i
vincoli di bilancio pubblico offrono pochi spazi, dal
punto di vista dei giovani una detrazione piatta, fino
ad almeno 15000 euro, determina non solo un calo
dell’incidenza dell’imposta sui redditi delle giovani,
ma in particolare una significativa riduzione
dell’elasticità.
1. Mi riferisco qui ad una
lavoratrice a tempo indeterminato, anche se magari part
time, che ha una detrazione di 1840 euro, pari al 23% di
8000. Per coloro che hanno contratti a tempo determinato
(o a progetto) la detrazione, proporzionata alla durata
del lavoro, non può scendere sotto i 1380 euro, il che
significa (con l’aliquota al 23%) che comunque fino a
6000 euro anche per i precari l’imposta è nulla. Gli
ultimi dati Isfol che conosco sulle remunerazioni dei
precari parlano di remunerazioni ben sotto i 6000 euro,
e per lo più si tratta appunto di precari.
2. In altre parole al 23% bisogna
aggiungere un 7,17%, per il primo scaglione, e al 27%
un 3,34% per il secondo scaglione, fenomeno dovuto al
calo della detrazione, calo più veloce nel primo
scaglione e più lento nel secondo (e terzo).
3. Circa una decina di milioni di
contribuenti (un quarto del totale) hanno imposta nulla.
Anche le detrazioni per spese riconosciute (spese
mediche, ecc…) contribuiscono all’azzeramento
dell’imposta, ma il fenomeno è determinato
principalmente dalle detrazioni per tipo di reddito e
per carichi familiari.
4. Si veda su questo il sito del
Nens (www.nens.it).
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