Osservatori, operatori economici e policy maker
concordano, a parole, su un punto: l’incremento della
crescita economica è la condizione necessaria per poter
affrontare con qualche probabilità di successo i
maggiori problemi dell’economia e della società
italiana: la bassa occupazione, il divario Nord-Sud,
l’impoverimento della popolazione, l’indebitamento
pubblico, la competitività.
Questa convergenza per ora non si traduce né in azioni
coerenti, né tanto meno in risultati concreti: il tasso
di crescita permane assai depresso, e le previsioni di
breve periodo non inducono a grande ottimismo.
Uno dei motivi di questo stallo va ricercato nel fatto
che il problema è visto e affrontato in modo piuttosto
semplicistico. Non esiste infatti una sola mossa capace
stimolare un’ accelerazione dello sviluppo, né tanto
meno basta affermare che è necessaria più ricerca e
innovazione, o modificare le regole del mercato del
lavoro, o semplificare la Pubblica Amministrazione per
ottenere il risultato auspicato: un conto è desiderare e
un altro realizzare. Di questi problemi si parla da
decenni, ma poco è cambiato: i freni allo sviluppo sono
il frutto di resistenze profonde che coinvolgono la
società nel suo complesso. Tagliare o modificare questi
nodi significa infatti agire sull’organizzazione dei
rapporti sociali ed economici. È quindi necessario un
progetto di largo respiro, attento alla complessità del
problema, quale ad esempio auspicato domenica scorsa da
G.Tabellini su 24Ore. Comunque anche questo progetto non
è sufficiente. Un forte incremento dello sviluppo
presuppone uno “slancio vitale”, una fiducia nel futuro
e un’accettazione del cambiamento che non ci sembra di
vedere negli umori della popolazione. Ci chiediamo
allora: i soggetti che con le loro decisioni più di
altri possono favorire questo cambiamento, ossia gli
imprenditori e i policy maker, danno segni che aprono a
speranza in tal senso ? In altri termini, questi due
soggetti, nei fatti danno qualche risposta di contrasto
al temuto – o già attuale - “declino” ?
Chi rappresenta gli imprenditori - o più esattamente
Confindustria - nella recente assise di Bergamo ha
dichiarato che “ le imprese tengono in piedi il Paese” ,
poiché producono, vendono ed esportano. Come è ben
comprensibile si tratta di un’ ovvietà. La questione più
importante è un’altra: come si pongono gli imprenditori
di fronte al futuro, ossia al problema dello sviluppo ?
Si può capirlo osservando come essi investono. E qui si
odono note dolenti. In un articolo che sarà
prossimamente pubblicato sul n.2/11 di Economia e
politica industriale Riccardo Gallo esamina i
comportamenti delle imprese nel periodo 2000-2009 – fase
che ingloba solo due anni di crisi – sulla base dei dati
di bilancio aggregati delle 1790 società industriali
censite da Mediobanca. Ecco alcuni interessanti
conclusioni. Il flusso di cassa netto risulta positivo -
pari a 41.518 milioni di euro, come differenza tra il
flusso ( 169.552 milioni ) e quello uscente ( 128.034
milioni). Questo, dice Gallo, “ vuol dire che gli
investimenti per la crescita – siano essi mirati al
potenziamento delle fabbriche o del patrimonio
immateriale o all’acquisizione di partecipazioni (di
controllo o meno) in imprese italiane o estere – sono
inferiori anche al semplice autofinanziamento, cioè alle
risorse finanziarie generate all’interno della gestione
aziendale. In tal caso, è giustificato parlare di
declino dell’impresa; il surplus di risorse, costituito
dal flusso di cassa netto non investito, viene impiegato
nella riduzione dell’indebitamento finanziario ovvero
nell’aumento della liquidità”. Dunque il sistema delle
imprese sembra più interessato al riequilibrio
finanziario che all’espansione degli investimenti
produttivi, sia materiali che immateriali. I bilanci
evidenziano poi due altre tendenze preoccupanti.
Innanzitutto si palesa un forte calo dell’incidenza
percentuale del valore aggiunto su quello della
produzione, che è scesa dal 22,3% del 2000 al 18,4% del
2009. In secondo luogo l’età del patrimonio tecnico
delle società industriali è salita mediamente dai 9,1
anni del 2000 ai 15,7 del 2009, come effetto di un’
insufficienza degli investimenti di sostituzione dei
mezzi di produzione. Ma vi è di più, e “ questa è
certamente la cosa più sorprendente, i dividendi sono
stati nel decennio pari a 155.885 milioni di euro, a
fronte di utili pari a 155.925 milioni. In altri
termini, gli azionisti delle società industriali
italiane nell’ultimo decennio hanno chiesto agli
amministratori di distribuire loro il 99,97% degli utili
conseguiti”. Ci troviamo, in buona sostanza, di fronte a
un evidente processo di “disaffezione”, che va spiegato
e non nascosto dall’ovvia affermazione che le imprese
tengono in piedi il paese. D’altra parte gli operatori
più qualificati a giudicare l’atteggiamento degli
imprenditori rispetto alle innovazioni – quelli del
venture capital – da un po’ dicono che scarseggiano
sempre più gli innovatori coraggiosi.
Rivolgiamoci allora al secondo soggetto che sarebbe
capace di modificare la tendenza, ossia il policy maker,
che nella passata settimana ha approvato e annunciato
con gran fragore il “Decreto per lo sviluppo”. Questo
segue purtroppo il modello oggi prevalente della “ norma
omnibus”, che contiene di tutto e di più, senza alcuna
coerenza interna, e con l’evidente obiettivo di
distribuire grissini ad interessi sparsi. Oltre al ben
noto sostegno dato alle rendite sulle spiagge, vi sono
promesse di semplificazione burocratica e fiscale,
liberalizzazioni ai vincoli per l’edilizia, qualche
modesto incentivo alla ricerca e al Sud, e quant’altro.
Nessuno degli interventi previsti, anche nell’ipotesi
che diventi operativo, è in grado di dare alcun impulso
allo sviluppo, ma neppure la loro somma. Il ministro
Tremonti ha con orgoglio, e con un certo overstatement,
sostenuto che si tratta di vere riforme, per di più a
costo zero. Forse si riferiva non solo ai costi
finanziari per il bilancio pubblico, ma anche a quelli
politici, che sorgono quando si toccano interessi
particolari. Vi sono alcune riforme veramente importanti
a costo zero, ma solo nel primo senso: si pensi ad
esempio alle liberalizzazioni nei servizi pubblici e
privati alle persone e alle imprese e alla riforma della
procedura civile. Dunque il messaggio è anche qui
deludente: la politica per lo sviluppo è altra cosa, ben
più seria.
In sintesi, imprenditori e policy maker non sembrano per
ora in grado di riattivare lo ”slancio vitale”, unico
vero antidoto al declino. Certo non possiamo chiederlo a
una popolazione sempre più anziana, preoccupata
soprattutto di sbarcare il lunario e/o di gestire il
proprio piccolo o grande patrimonio.
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