Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 10 dicembre
2010-10 gennaio 2011 n. 250 Corte di Cassazione -
Sezione VI - Sentenza 1 dicembre 2010-12 gennaio 2011
n.552
La sensibilità della Suprema Corte si schiera al fianco
dei minori, vittime dei conflitti e delle frustrazioni
dei genitori.
Con due sentenze:
La n. 250 del 10 gennaio in cui i Giudici sanzionano il
comportamento di una donna calabrese di 50 anni per aver
maltrattato il figlio minorenne umiliandolo,
ricattandolo, minacciandolo di continuo e vessandolo a
tal punto da avere delle conseguenze nefaste sulla sua
crescita da essere catalogate come "effetti devastanti".
Tale atteggiamento era, secondo pareri di psicologo e
psichiatra, il prodotto dell’interazione conflittuale
tra coniugi. Infatti entrambi i coniugi si adoperavano
"a strumentalizzare i figli, usati nella crisi coniugale
per scopi vendicativi nei confronti del coniuge". La
Sesta Sezione, scartata l’ipotesi dell’utilizzo come
“scudi umani” dei minori e al cospetto di personalità
disturbata di entrambi i genitori, non ha esitato a
condannare per maltrattamenti anche suffragata dalla
testimonianza dello stesso minore e dei suoi insegnanti.
La n. 552 del 12 gennaio - sempre la Sesta Sezione
intimano l'allontanamento del padre di due bambine dalla
dimora familiare per maltrattamenti in famiglia.
Nella sentenza viene confermata la misura cautelare
adottata dal Gip di Trapani ma redarguiscono il
Tribunale del riesame che l’aveva cassata per
l’impossibilità di colpevolizzare l’uomo in un contesto
di coppia/genitori definito "una variopinta
rappresentazione di reciproci soprusi familiari
che...non consente di distinguere tra vittima e
carnefice". I Giudici del Riesame hanno valutato solo
gli aspetti relazionali della coppia trascurando le
ricadute negative sulla psiche delle figlie minori quali
vittime/spettatrici delle angherie e maltrattamenti tra
i genitori.
Il nostro diritto penale prevede il reato di
“Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”, che è
così definito dall’articolo 572 del codice penale:
“Chiunque, (...) maltratta una persona della famiglia, o
un minore degli anni 14, o una persona sottoposta alla
sua autorità, o a lui affidata per ragioni di
educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o
per l’esercizio di una professione o di un’arte, è
punito con la reclusione da uno a cinque anni”.
La pena è aggravata se dal fatto derivano lesioni
personali o la morte.
Da una prima analisi scaturisce la deduzione che la
definizione del reato nasce in un’altra epoca storica,
ed è particolarmente orientata al maltrattamento come
violenza fisica. La formulazione generica delle norme,
però, è in molti casi da considerarsi un vantaggio,
perché permette di adeguarle ai mutamenti sociali.
Proprio grazie alle migliaia di sentenze in merito, il
concetto di “maltrattare una persona della famiglia” si
è evoluto in maniera diversificata.
In primis ingloba il maltrattamento morale, psicologico,
la vessazione, la causazione di sofferenze non fisiche.
Tali atteggiamenti integrano il reato quando sono
protratti, abituali, costanti.
Quindi non si parla di fatti episodici, che potranno
ricevere tutela da parte di altre norme, ma di
un’abitudine familiare, di un clima, di uno stato
costante di vessazione, di un disagio prolungato nel
tempo.
Si parla dell'esistenza di un vero e proprio sistema di
vita di relazione familiare abitualmente doloroso ed
avvilente provocato proprio con intento persecutorio.
Il diritto internazionale dei diritti umani prevede che
tutti i governi hanno la responsabilità di prevenire,
indagare e punire gli atti di violenza sulle donne in
qualsiasi luogo si verifichino: tra le mura domestiche,
sul posto di lavoro, nella comunità o nella società,
durante i conflitti armati.
Per incorrere nel reato è necessaria la manifestazione
di fatti eclatanti è molto gravi rispetto al semplice
disturbo od alla molestia personale.
La circostanza ove si consuma il reato è::
a) l’arrecare un perdurante e grave stato di ansia e di
paura;
b) l’ingenerare una razionale paura per l’incolumità
personale propria o di un prossimo congiunto o di una
persona cui si è legati emotivamente;
c) alterazione le proprie abitudini/consuetudini di
vita.
Protezione contro gli abusi familiari, art. 342 bis c.c.
Nel momento in cui il comportamento del coniuge o
convivente crea un grave pregiudizio all'integrità
fisica o morale ossia alla libertà dell'altro coniuge o
convivente, il giudice, [quando l’evento non si
materializza in reato perseguibile d’ufficio] su
richiesta di parte, può applicare mediante decreto i
vari commi dell'articolo 342-ter
Ordini di protezione, art. 342 ter c.c.
Nell’applicazione dell'articolo 342-bis il giudice
intima al coniuge o convivente, che attuato una condotta
pregiudizievole, la cessazione dello stesso
comportamento e ordina l'allontanamento dalla casa
familiare del coniuge o del convivente che ha
contravvenuto diffidandolo, qualora ricorrano gli
estremi, ad osservare una distanza dai luoghi
abitualmente frequentati dall'istante, soprattutto al
luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d'origine,
ossia ai luoghi di domicilio di altri parenti o di amici
nonché nei dintorni degli istituti di istruzione dei
figli della coppia, ad eccezione se il motivo
dell’aggirarsi è dettato da motivi di lavoro.
Il giudice ha facoltà di far intervenire i servizi
sociali del Comune o di un centro di mediazione
familiare, oppure le associazioni che perseguono il
sostegno e l'accoglienza di donne e minori o di altri
soggetti vittime di abusi e maltrattamenti;statuisce un
assegno periodico a favore delle persone conviventi
(eccezione) che, causa l’allontanamento dal nucleo, sono
private di mezzi di sopravvivenza, stabilendo il come ed
il quando effettuare il versamento e vietando il
versamento diretto all’avente diritto della somma oppure
stabilisce che la stessa somma sia versata dal datore di
lavoro che poi la detrae al lavoratore.
Il Giudice nello stesso atto, nei casi previsti, precisa
per quanto tempo debba essere l'ordine di protezione,
che ha decorrenza dall’esecuzione dello stesso. L’ordine
di protezione ha validità di sei mesi, prorogabili - su
richiesta di parte -, quando sopravvengono gravi motivi
e solo per il tempo indispensabile.
Quanto detto va rivisitato alla luce delle norme
contemplate nella legge nr. 149 del 2001 che, con gli
art. 330 e 333 c.c. prevedono l’allontanamento dalla
casa familiare del genitore o del convivente. |