Il Programma Nazionale di Riforma – che accompagna il
Documento di Economia e Finanza 2011 con l’obiettivo di
conciliare riequilibrio dei conti pubblici e riforme
strutturali – è stato accolto con scetticismo.
Gianfranco Viesti (nelMerito del 22 aprile scorso) ne ha
evidenziato gli obiettivi poco ambiziosi.
Ma anche gli strumenti sono apparsi inadeguati, perfino
a quegli obiettivi. Se la parola d’ordine oggi in
Occidente è la crescita (“Crescere, dannazione,
crescere!”, intitolava l’Economist alcuni mesi fa), ciò
che è difficile trovare nel Documento è proprio un
progetto sistematico di stimolo per la crescita,
analiticamente fondato rispetto ai problemi
dell’economia italiana.
Per la maggior parte dei Paesi occidentali, crescere è
necessario soprattutto per ristabilire l’equilibrio
macroeconomico dopo la crisi finanziaria e reale,
aggiustando i rapporti tra deficit e debito pubblico su
PIL dal lato del denominatore. La vicenda italiana è
però singolare per due aspetti. Il rapporto debito/PIL è
elevato da oltre venti anni, mentre il suo andamento
recente, pur deteriorato dagli effetti congiunturali
della crisi, non è stato gravato dagli effetti
strutturali (i salvataggi bancari). Al contempo, il
tasso di crescita è basso in un quadro peculiare: il
sistema economico italiano è tra i più aperti agli
scambi internazionali (quote di esportazioni e di
importazioni superiori al 25% del PIL sono tra le più
alte per Paesi di dimensioni analoghe) ma l’equilibrio
della bilancia commerciale si realizza solo con tassi di
crescita molto bassi. E’ il fenomeno che, quando
cominciò a delinearsi alla fine degli anni Novanta, fece
parlare per l’Italia di “declino”: per uno dei Paesi più
ricchi e aperti al mondo, la globalizzazione sembra
comportare una condanna alla stagnazione.
Pur mai nominato, il “declino” torna ad aleggiare sul
Programma Nazionale di Riforma. Il Programma si innesta
su uno scenario macroeconomico di base che prevede tassi
di crescita del PIL inferiori all’1,5% nei prossimi
quattro anni, con saldi negativi delle partite correnti
mai inferiori al 3% del PIL. Con un eufemismo, il
documento annota che “la domanda estera netta fornirebbe
un contributo nullo alla crescita del PIL nell’arco
previsivo”. Lo scenario di base prevede poi un
contributo limitato dei consumi, non solo, naturalmente,
pubblici, ma anche privati; per cui la sola voce a
“trainare” il PIL sarebbero gli investimenti. Ma se
l’aumento nel 2010 (+2,5%) sconta la più ampia
oscillazione ciclica di questa componente (ridottasi del
12% nel 2009), non è chiaro su cosa si fondi l’attesa di
un aumento medio del 3,8% per i prossimi quattro anni -
soprattutto quando la quota di investimenti pubblici sul
PIL cade dal 3,1% nel 2011 al 2,6% nel 2014.
A partire da questo scenario di base, il Programma
Nazionale di Riforma mira ad aumentare la crescita del
PIL dello 0,4% all’anno fino al 2014, con un effetto di
propagazione dello 0,2%-0,3% fino al 2020. Anche in
questo caso la componente più dinamica sarebbero gli
investimenti, ma con effetti dilazionati nel tempo
(+0,7% nel triennio 2018-2020), di modo che risulta poco
chiaro che cosa si muoverebbe nel breve e medio periodo.
La domanda estera non entra direttamente in gioco, anche
se si rinvia ai benefici di un aumento di produttività
derivante dagli investimenti previsti nel Piano
Infrastrutture (non c’è niente di nuovo, sono fondi
stanziati già in ampia parte nel 2009).
Quando si cerca di cogliere, in una visione di insieme,
su quali effetti, e di quali riforme, fa leva il
Programma, si trova che gli interventi di maggiore
impatto (circa l’80% del totale) sono intitolati a
“Lavoro e pensioni” e a “Mercato dei prodotti,
concorrenza ed efficienza amministrativa”. Il resto, un
esiguo 20%, è affidato per due terzi a “Innovazione e
capitale umano” – che pure è il mantra di questi anni! –
e per un terzo al “Sostegno alle imprese”.
Per cogliere l’impatto delle riforme del lavoro, occorre
andare in nota e leggervi che esso consiste in “uno
shock di riduzione del mark-up salariale … [per ridurre]
… il potere contrattuale dei lavoratori nel fissare un
salario superiore alla produttività” e in “uno shock
positivo alla produttività del lavoro”. Quella sulla
relazione tra salario e produttività è un’analisi che
nelMerito difficilmente può condividere, visto che fa da
tempo un proprio cavallo di battaglia della tesi che la
stagnazione nasce da un problema di produttività che
spesso è stato aggravato dai bassi salari. E quanto allo
shock di produttività, esso cade dal cielo come manna,
anche in nota.
Diverso è il punto sulle pensioni. Le riforme che sono
state avviate vanno nella giusta direzione di adeguare i
requisiti anagrafici all’aumentata speranza di vita; ma
allo stato l’impatto atteso è esiguo e troppo
dilazionato nel tempo. Nella migliore delle ipotesi, non
aumenterà il costo “sociale” (pubblico e privato) della
previdenza; ma ciò non basterà a mettere in moto un
reale shock di offerta, per il quale sarebbero
necessarie sia una significativa riduzione del cuneo tra
costo del lavoro e redditi (correnti) di lavoro, sia
politiche attive di flessibilità intergenerazionale del
lavoro, che aiutino a recuperare in modo efficiente
risorse lavorative oggi espulse troppo presto dal mondo
della produzione.
Il secondo gruppo di interventi mette assieme cose
diverse. L’efficienza amministrativa è un buon
proposito. Ma suggerisce il commento che, alla fine, si
tratta del precipuo compito del potere esecutivo; per
non dire anche di un “in arto et inglorius labor”, che
invece da tempo appare opaco a governi che gli
preferiscono lo splendore di un esercizio, surrogato e
debordante, di potere legislativo. Si rimane allora un
po’ scettici che i decreti promessi a maggio come prima
attuazione del Programma riusciranno a segnare
un’inversione di tendenza.
Invece, sulla promozione di concorrenza e mercato, si
vorrebbe chiedere, e a voce alta, minore ipocrisia. Il
documento chiama in causa perfino la protezione dei
consumatori che, certo, può aiutare il mercato, ma solo
a condizione che la concorrenza sia davvero promossa.
Invece l’Autorità antitrust italiana resta placidamente
inascoltata quando fa advocacy per la concorrenza (le
relazioni predisposte ai fini della legge annuale sulla
concorrenza continuano ad attendere riscontro
parlamentare) oppure vincolata a superiori “interessi
generali” quando deve applicare (vicenda Alitalia) le
norme del diritto antitrust. Analogamente, quanto
all’apertura “dei mercati dei servizi, del gas e
dell’energia elettrica”, il rinvio all’Europa è una
foglia di fico. Il Rapporto Monti ha ragione quando
scrive che il Mercato unico è oggi più che mai
necessario; ma altrettanta ragione quando rileva, allo
stesso tempo, la sua diffusa impopolarità e l’arduo
lavoro politico richiesto oggi ai suoi fautori per la
sua attuazione. A non voler richiamare la sorte del
progetto Bolkenstein sul mercato unico dei servizi,
resta che lo stesso Terzo Pacchetto è il tentativo
eroico della Commissione di minimizzare le conseguenze
del fallimento politico del mercato unico europeo
dell’energia. Per cui, se oggi in Italia si vuole
credibilmente ragionare su mercato e concorrenza per
sostenere la crescita, bisognerebbe annunciare
esplicitamente che si intende andare ben al di là dei
paletti minimi che la Commissione è riuscita fare
accettare in questi anni ai Governi nazionali.
E sarebbe ben fatto; perché, quanto l’economia italiana
abbia reale bisogno di una iniezione di concorrenza, lo
dice lo stesso scenario macroeconomico di base del
Programma Nazionale di Riforma, quando candidamente
disvela il vincolo alla crescita che grava sul saldo
delle partire correnti di uno dei Paesi più ricchi e più
aperti del mondo. Quando la prospettiva del “declino” fu
inizialmente paventata, si sostenne da più parti che la
risposta dovesse essere cercata innanzi tutto nel
superamento del dualismo tra un’industria
manifatturiera, che pure si muove con successo nei
mercati internazionali competitivi, e il corposo resto
di un’economia protetta che allarga costantemente le
proprie rendite, invece di sostenere la prima come
“retrovia” efficiente. Altri però, inclusa la stessa
Confindustria, preferirono esorcizzare il “declino” e
mostrare quanta parte dell’industria esportatrice, pur
rimanendo in settori tradizionali, non perdesse
competitività, anzi la accrescesse spostando la propria
offerta su prodotti di qualità più elevata. Si
valorizzarono meritevoli esperienze individuali, ma al
costo di trascurare gli aspetti di sistema, molto meno
lusinghieri.
Evidenze di questi aspetti di sistema trapelano però
oggi dallo stesso Programma Nazionale di Riforma; come
quando si confronta la competitività all’export italiana
con quella tedesca e se ne riconduce la principale
differenza alla minore dimensione delle imprese
italiane. Ma forse non è tanto, come sostiene il
Programma, un problema di dimensioni delle imprese
manifatturiere esportatrici - per le quali sarebbe
ragionevole attendersi, almeno in principio, che
operando in contesti competitivi siano alla fine
stimolate a collocarsi su dimensioni efficienti. C’è
invece certamente in Italia un problema di dimensioni
inefficienti di impresa quando si guarda alla maggior
parte dei settori dei servizi alle imprese che restano
in ampia misura protetti, come per esempio i trasporti e
tutta l’area della logistica (per la quale lo stesso
Programma Nazionale di Riforma stima in 40 miliardi di
euro all’anno le perdite dovute alla inefficienza
complessiva del settore). Perché anche in questo caso,
come avviene tipicamente in molta parte della struttura
produttiva italiana, l’assenza di concorrenza e mercato
non si risolve nel monopolio, ma in una pletora di
imprese che riescono a sopravvivere, piccole e
inefficienti, soltanto grazie a rendite di protezione e
sussidi pubblici. |