Illustri Presidenti e Cari Amici,
la Commissione consultiva del
C.N.F. ha reso, su richiesta della Presidenza del
Consiglio, un parere circa alcuni aspetti del noto
fenomeno dell'iscrizione di aspiranti avvocati italiani
in Spagna con successiva omologazione del titolo in
Italia.
La questione, spesso oggetto di
quesiti anche da parte degli Ordini, riveste carattere
di interesse generale, di talché il plenum del
Consiglio, nell'approvare il parere reso dalla
Commissione, ha deliberato di portarlo a conoscenza di
tutti gli Ordini.
Con i più cordiali saluti
Avv Prof. Guido Alpa
È pervenuta alla Commissione
consultiva del CNF la seguente richiesta di parere,
formulata dalla Presidenza del Consiglio – Dipartimento
per il coordinamento delle politiche comunitarie. La
Commissione, dopo ampia discussione, ha approvato un
parere in data 23 febbraio 2011. Il testo è stato
sottoposto al voto del plenum del Consiglio, che lo ha
approvato definitivamente in data 25 marzo 2011,
deliberando di esprimere la posizione del CNF sotto
forma di circolare in ragione del diffuso ed attuale
interesse della problematica per gli ordini forensi.
Il quesito è il seguente: “Il
Centro SOLVIT Italia, che opera presso il Dipartimento
Politiche Comunitarie della Presidenza del Consiglio e
costituisce il punto di contatto nazione della rete
SOLVIT della Commissione Europea – D.G. Mercato Interno,
ha ricevuto numerosi reclami dell’omologo Centro
spagnolo relativamente a cittadini italiani laureati in
giurisprudenza in Italia che hanno omologato il proprio
titolo di studio in Spagna, conseguendo così
l’abilitazione all’esercizio della professione forense
secondo le norme di quello Stato. A fronte delle istanze
di iscrizione nella sezione speciale per avvocati
stabiliti dell’albo professionale, vari Consigli
dell’Ordine hanno richiesto informazioni in merito, tra
l’altro, all’effettivo svolgimento di attività
professionale nel Paese estero e al grado di conoscenza
della lingua straniera ivi praticata. Sembrerebbe anche
che alcuni Consigli, oltre a decidere di sospendere le
domande di iscrizione in attesa dell’acquisizione delle
predette informazioni, avrebbero, altresì, deliberato di
riesaminare tutte le iscrizioni effettuate fino ad oggi.
Questa prassi potrebbe configurare
una violazione del diritto dell’Unione Europea, in
particolare della direttiva 98/5/CE volta a facilitare
l’esercizio permanente della professione di avvocato in
uno Stato membro diverso da quello in cui è stata
acquistata la qualifica e dei principi di cui alla
direttiva 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle
qualifiche professionali.
In effetti, benché la Corte di
Giustizia abbia dichiarato che le disposizioni sul
riconoscimento delle qualifiche professionali non
possano essere invocate al fine di accedere ad una
professione regolamentata in uno Stato membro ospitante,
da parte del titolare di una qualifica rilasciata da
un’autorità di un altro Stato membro che non sanzioni
alcuna formazione prevista dal sistema di istruzione di
tale Stato e non si fondi né su di un esame né su di una
esperienza professionale acquisita in detto Stato
membro, tale principio è applicabile solo nei casi in
cui l’omologazione del titolo acquisito in un altro
Stato non attesti alcuna qualifica supplementare e
quindi non sia fondata sulla verifica delle qualifiche o
delle esperienze professionali acquisite in quello Stato
(cfr. sentenza 29 gennaio 2009, causa C-311/06,
Cavallera).
Nel verificare se i titoli
conseguiti all’estero attestino una qualifica
supplementare rispetto a quella acquisita in Italia, non
possono essere imposte condizioni sproporzionate o
comunque incompatibili con il diritto dell’Unione
Europea, quale ad esempio esigere l’indicazione del
motivo per il quale si intende esercitare la professione
in Italia anziché nello Stato nel quale è stata ottenuta
l’abilitazione. Inoltre, i controlli non possono avere
carattere sistematico, dovendo essere limitati ai soli
casi nei quali vi siano indizi di un abuso del diritto
dell’Unione europea, ovvero di un comportamento che miri
ad ottenere un vantaggio derivante dalla normativa
sovranazionale mediante la creazione artificiosa delle
condizioni necessarie per la sua applicazione.
Alla luce di quanto esposto, si
prega codesto Consiglio Nazionale Forense di voler
fornire elementi utili a chiarire la questione, anche al
fine di prevenire l’apertura di una procedura
d’infrazione contro l’Italia […]”.
1.La Commissione ritiene di
sottolineare, in via preliminare ad ogni altra
considerazione, che il proprio ruolo si esplica in una
funzione esclusivamente di supporto ermeneutico, e non
anche prescrittiva. Nel sistema ordinistico in vigore in
Italia, infatti, il Consiglio nazionale forense (così
come ogni sua articolazione interna) non ha un potere di
tipo gerarchico nei confronti degli ordini
circondariali; questi ultimi sono costituiti in enti
pubblici non economici a carattere associativo, e
ciascuno di essi è dotato di una propria sfera di
competenza e di piena autonomia, salve le prerogative di
garanzia del Dicastero vigilante (Ministero della
Giustizia). Sempre in via preliminare, deve ricordarsi
che il C.N.F. è anche dotato di funzioni giurisdizionali
ed è chiamato ad esprimersi quale giudice speciale in
posizione di piena terzietà rispetto a tutti i ricorsi
ad esso demandati dalla legge. Ciò a chiarire che le
considerazioni che seguono non intendono essere, né
possono costituire, atto di interferenza nell'esercizio
delle funzioni amministrative assegnate dalla legge ai
Consigli locali dell’ordine, né tanto meno anticipare le
pronunzie che, rispetto a singole concrete domande di
giustizia, il Consiglio nazionale stesso sarà tenuto a
rendere in sede giurisdizionale.
2.La materia della tenuta degli
albi forensi, ivi comprendendo i diversi procedimenti di
iscrizione e cancellazione, è affidata come detto agli
Ordini circondariali (art. 14 e segg., R.D.L. 27
novembre 1933, n. 1578). Nel caso l'interessato abbia a
dolersi di un contegno non conforme alla legge da parte
dell'Ordine può proporre ricorso al Consiglio nazionale
forense (art. 31, R.D.L. cit.), e le decisioni di
quest'ultimo sono a loro volta impugnabili dinanzi alla
Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite, per motivi
di legittimità. Lo stesso meccanismo di reclamo è
conformato dal legislatore italiano con riferimento alle
eventuale diniego di iscrizione che un avvocato
proveniente da altro Paese UE dovesse subire, con
conseguente lesione del proprio diritto di stabilimento
(così l’art. 6, commi 7 e 8, D. lgsl. n. 96/2001,
normativa di recepimento della cd Direttiva
stabilimento, al Dir. 98/5/CE). Va quindi recisamente
smentita l'affermazione, avanzata all'interno degli
esposti citati, secondo la quale il professionista sia
privo di tutela giurisdizionale rispetto alle decisioni
degli ordini che lo riguardano. Vale osservare il
contrario: il sistema italiano appare particolarmente
garantista, allorquando consente che le decisioni in
materia di iscrizione in albi arrivino fino alla Suprema
Corte, che - quale custode della nomofilachia -
rappresenta la massima garanzia possibile per la tutela
dei diritti.
3.Fatte queste doverose premesse,
la Commissione rappresenta di aver già affrontato in
passato in diverse occasioni la tematica del
riconoscimento dei titoli professionali in base alla
direttiva 98/5/CE anche nei suoi aspetti applicativi. In
particolare, con parere 25 giugno 2009, n. 17, si è
provveduto a fornire agli ordini un indirizzo
interpretativo circa la corretta applicazione della più
recente giurisprudenza della Corte di Giustizia in
materia di limiti al riconoscimento dei titoli
professionali, con particolare riguardo alla sentenza 29
gennaio 2009, causa C-311/06, Cavallera. Si è, in
particolare, richiamata l'attenzione dei Consigli
circondariali sulla necessità di compiere, secondo i
criterî enunciati dalla Corte, un'adeguata istruttoria
sulla domande di iscrizione per distinguere in modo
motivato i casi di professionisti stranieri intenzionati
ad esercitare in buona fede il loro pieno diritto allo
stabilimento in Italia dalle ipotesi – come descritte
dalla Corte – di abuso del diritto europeo, sotto forma
di "duplice passaggio" da uno Stato all'altro, senza
l’acquisizione di qualifiche supplementari rispetto a
quelle di partenza (ad es. laurea in giurisprudenza,
trasformata in titolo professionale abilitante a mezzo
di mero duplice riconoscimento, prima del titolo
accademico e successivamente della qualifica ottenuta).
4.Va ribadito, anche in questa
sede, che la sentenza nel caso Cavallera riguarda un
diverso canale di accesso alla professione legale da
parte di possessori di titoli stranieri, ed in
particolare il sistema generale di riconoscimento delle
qualifiche professionali sancito dalla dir. 2005/36/CE e
già dalla precedente 89/48/CEE. Tale processo è, nel
nostro ordinamento, incardinato in forma accentrata
presso il Ministero della Giustizia, che valuta in
conferenza di servizi la riconoscibilità del titolo
professionale di altro Stato membro, prescrivendo le
eventuali necessarie misure compensative (al riguardo si
segnala che il Ministero sta provvedendo a motivare
ciascun singolo provvedimento di riconoscimento in base
ai parametri di cui alla sentenza Cavallera). I principî
dettati dalla Corte vanno però certamente applicati per
quanto possibile anche all'altro canale di accesso alla
professione nell’ambito dell’Unione europea, in seguito
all'esercizio del diritto di stabilimento attuato per la
professione legale con la già citata direttiva 98/5/CE.
I principî che la Corte di Giustizia ha dettato sono
dunque, in sintesi, i seguenti: quando a uno Stato
membro è richiesto di riconoscere un titolo di
formazione professionale, tale Stato membro non può
essere tenuto ad accogliere la domanda di coloro che non
dimostrino di aver acquisito alcuna competenza
aggiuntiva all'estero né di aver sostenuto un esame che
certifichi le loro competenze nelle materie oggetto
della professione. La Corte ha quindi in sostanza
chiarito che, pur essendo del tutto legittimo che gli
Stati membri mantengano differenti modalità per
l'accesso alla medesima professione regolamentata,
tuttavia il contegno di colui che richiede un duplice
riconoscimento dei propri titoli, rientrando nello Stato
membro di provenienza senza dimostrare di aver acquisito
alcun know how professionale aggiuntivo rispetto alla
condizione di partenza, pone in essere un comportamento
elusivo, giovandosi cioè di diritti conferiti
dall'ordinamento dell’Unione europea per scopi difformi
da quelli della libertà di circolazione dei
professionisti e nello spazio europeo, ed in sostanza
lucrando un indebito vantaggio rispetto ai
professionisti connazionali, che hanno dovuto superare
un regime di accesso effettivamente più severo,
presidiato perfino – in taluni ordinamenti europei, e
tra questi, in quello italiano – da norme di rango
costituzionale (cfr. art. 33, comma 5, Cost.).
5.La Corte ha, in seguito, fornito
alcune ulteriori precisazioni, che debbono essere tenute
altrettanto in conto per la valutazione delle domande di
accesso alla professione forense in Italia. Innanzitutto
nel caso Pesla (causa C-345/08) essa ha chiarito che,
anche per l'accesso al semplice tirocinio professionale,
le autorità dello Stato membro ospitante possono
pretendere non tanto e non solo una generica conoscenza
giuridica, ma anche una padronanza degli strumenti del
proprio diritto nazionale, onde garantire che l'attività
professionale o di formazione professionale sia adeguata
e conforme all'interesse dell'ordinamento. Questi
criterî, va ricordato, si collocano a valle di una
precedente giurisprudenza (causa C-313/01, Morgenbesser)
che impone all'Ordine forense di valutare in modo ampio
e sistematico il curriculum del richiedente
l'iscrizione, per verificare in concreto quali siano le
abilità acquisite, anziché basarsi sul solo dato formale
della denominazione o della provenienza del titolo di
studio posseduto.
6.Di recente sono intervenute due
ulteriori pronunce della Corte di Lussemburgo: in una
prima (causa C-118/09, Koller) i giudici hanno chiarito
che uno Stato membro non può negare il riconoscimento di
un titolo professionale per il solo fatto che il
richiedente non ha effettuato il tirocinio pratico nello
Stato membro di destinazione, una volta che
l'interessato ha provato l'effettivo svolgimento della
professione all'estero. Un secondo intervento si è avuto
solo pochi giorni or sono, con la sentenza 3 febbraio
2011, causa C-359/09, Ebert: in questo frangente la
Corte ha precisato che il sistema di ordini o camere di
avvocati rappresenta il presidio di interessi pubblici
fondamentali quali il rispetto della deontologia, il
controllo sui professionisti e la loro responsabilità, e
la correlata organizzazione in senso pubblicistico della
professione; ne consegue che per beneficiare del diritto
di stabilimento, all'avvocato comunitario può essere
richiesta l'iscrizione in albi ed elenchi, alle medesime
condizioni previste per i professionisti locali e con
gli stessi requisiti.
7.Come accennato, l'ordinamento
italiano ha recepito la direttiva 98/5/CE sullo
stabilimento degli avvocati con il decreto legislativo 2
febbraio 2001, n. 96. Il procedimento per lo
stabilimento degli avvocati comunitarî è basato, come
noto, su due fasi: una prima è l’iscrizione nella
sezione speciale dell’albo all’uopo istituita (art. 6),
che consente l’esercizio professionale con le sole
limitazioni prescritte dall’art. 8; la seconda fase –
peraltro eventuale - è quella della stabilizzazione, con
cui lo stabilito, dopo tre anni di esercizio regolare ed
effettivo, acquisisce il titolo professionale italiano
di “avvocato” e diventa a tutti gli effetti “integrato”
(art. 12 e ss., D. lgs. cit.). È in questo momento che
l’ordine circondariale è onerato di una più ampia
funzione di verifica dell’attività del professionista:
egli può ottenere la dispensa dalla prova attitudinale
previa verifica dei predetti requisiti di effettività e
regolarità dell’esercizio professionale, che il
Consiglio competente verifica tramite l’analisi delle
pratiche seguite e delle prestazioni svolte dal
richiedente. Nel caso tali presupposti non risultino
sussistere, l’interessato sarà tenuto a sostenere la
richiamata prova attitudinale, secondo il procedimento
ordinario di riconoscimento dei titoli professionali di
cui all’art. 22, comma 2, del d.lgs. 206/2007. A questo
ultimo procedimento sono senz’altro applicabili in via
diretta i principî esplicitati dalla Corte nel caso
Cavallera e quindi, in assenza delle condizioni
necessarie, l’accesso al riconoscimento del titolo può
essere rifiutato.
8.Sulla scorta di quanto precede è
agevole comprendere per quale motivo questa Commissione
abbia indicato agli ordini forensi locali la necessità
di farsi parte diligente nella corretta analisi delle
richieste di stabilimento ed integrazione. Non vi è
dubbio infatti che, per quanto maggiori spazi di
apprezzamento valutativo competano al Consiglio
dell’ordine alla fine dei tre anni di esercizio
professionale con il titolo di origine e di intesa con
altro avvocato iscritto nell’albo ordinario, e non
piuttosto all’inizio di tale triennio (argomenta ex
artt. 13, comma 3, d. lgs. 96/2001 che prevede le citate
facoltà di verifica e controllo, compreso un eventuale
colloquio), tuttavia anche in sede di prima ricezione
della domanda di iscrizione nella sezione stabiliti i
Consigli dell’ordine conservano uno spatium delibandi
che va esercitato proprio nei limiti indicati dalle
direttive rilevanti e dalla Corte di giustizia, e poco
sopra ricordati.
9.Si ritiene pertanto in
conclusione che il Consiglio dell’ordine conservi il
potere di negare l’iscrizione nella sezione avvocati
stabiliti dell’albo custodito, allorquando rilevi – alla
luce dei criteri forniti dalla giurisprudenza
comunitaria – che si versi in un caso di abuso del
diritto dell’Unione europea. Contro tale decisione il
richiedente può esperire i mezzi di gravame previsti
dalla legge, che prevedono il reclamo dinanzi al
Consiglio nazionale forense, e la eventuale
impugnabilità delle sentenze di questo di fronte alle
Sezioni unite della Corte suprema di cassazione.
10.Il quesito proposto evidenzia
inoltre le possibili criticità derivanti da un’opera di
controllo sistematico e penetrante degli ordini forensi
sulle richieste di stabilimento ed integrazione
provenienti da Stati membri quali la Spagna, che finora
non si sono dotati di alcun sistema di verifica delle
competenze professionali per l’accesso alla qualifica di
avvocato. Si è segnalato, più in dettaglio, che
risultano casi di richieste di informazioni agli
interessati circa l’effettivo svolgimento di attività
professionale nel Paese di provenienza e il possesso
delle conoscenze linguistiche proprie del Paese
medesimo. Al riguardo, va evidenziato come singoli e
specifici casi di richieste di stabilimento ed
integrazione di professionisti abilitati in altro Stato
membro dell’Unione europea possono essere oggetto di
valutazione ed acquisizione di ulteriore documentazione
in presenza di indici di anomalia che rendano
ragionevole un approfondimento, peraltro non invasivo,
dell’Ordine circa l’esatto curriculum del richiedente
l’iscrizione. È questa l’ipotesi di domande che
provengano da cittadini italiani, laureatisi in Italia e
che spesso hanno svolto il tirocinio nel nostro Paese;
tali soggetti avanzano la richiesta di stabilimento
sulla base di titoli stranieri di formazione anomala,
ossia emessi in un arco di tempo assai breve
(solitamente un anno o poco più), e dai quali non emerge
alcun legame con il Paese di emissione dei titoli. In
presenza di tali indici di anomalia appare ragionevole
anche un approfondimento relativo alle competenze
linguistiche. È noto infatti come alcune organizzazioni
commerciali italiane offrano agli stessi cittadini
italiani laureati in giurisprudenza servizi di supporto
al riconoscimento dei titoli, proponendo il disbrigo di
tutte le pratiche inerenti sia l’omologazione della
laurea in Spagna, sia l’iscrizione al locale “collegio
degli avvocati”. Alcune di esse (cfr. ad esempio le
esplicite indicazioni presenti al sito
www.omologazionetitoli.it) giungono a promettere
l’intero espletamento delle pratiche senza che il
candidato abbia alcuna conoscenza della lingua del Paese
dell’Unione europea di “transito”. È evidente, a questo
punto, che l’ordine, in presenza di evidenti elementi
indiziarî, dovrà accertarsi se la domanda provenga o
meno da un soggetto che ha un qualsivoglia legame con il
Paese nel quale afferma di aver esercitato al
professione. La sussistenza di prassi elusive di questo
tipo andrebbe utilmente segnalata a questo Consiglio,
anche al fine di consentire l’attivazione di meccanismi
di consultazione bilaterali o in sede europea.
11.Diversamente pare doversi
opinare con riferimento ad eventuali richieste di
informazioni attinenti ai motivi personali in base ai
quali i richiedenti avrebbero deciso di esercitare il
diritto di stabilimento. Tali motivi dovrebbero
appartenere al cd. “foro interno” dell’interessato, e
non paiono assumere rilievo giuridico nelle fattispecie
de quibus, allo stesso modo nel quale non assumono
alcuna rilevanza i motivi personali in base ai quali un
avvocato iscritto in un albo tenuto da un certo
Consiglio dell’ordine decida di trasferire la propria
iscrizione in altro albo tenuto da un Consiglio
dell’ordine situato in altro circondario di tribunale,
purché l’avvocato abbia, nel circondario di
destinazione, residenza o domicilio professionale.
12.Il quesito pervenuto pone
inoltre l’ulteriore questione se l’ordine forense possa
procedere ad una verifica sistematica degli albi, al
fine di individuare soggetti che abbiano già ottenuto in
passato l’iscrizione sulla base di un procedimento che
costituisca nel suo complesso un abuso del diritto
dell’Unione. In linea generale l’ordine forense ha
l’espresso potere-dovere, conferito dalla legge (art.
16, comma terzo, R.D.L. 1578/1933), di procedere alla
verifica periodica degli albi ogni anno, e ciò avviene
nella prassi per verificare la sussistenza di tutti i
presupposti di iscrizione, in modo non discriminatorio
(si consideri ad esempio il dovere di verifica circa
situazioni di incompatibilità, di pendenza di
procedimenti penali etc.). D’altra parte si è
evidenziato, già nel ricordato parere di questa
Commissione n. 17/2009, che l’iscrizione nell’albo
protratta per lunghi periodi ingenera inevitabilmente
l’affidamento di terzi e consolida un’aspettativa
dell’interessato, con la conseguenza che la
cancellazione disposta dall’ordine potrebbe riverberarsi
su processi in corso e sugli interessi di clienti in
piena buona fede. Si è pertanto suggerito di procedere
alla cancellazione di soggetti già iscritti solo quando
le circostanze evidenzino un documentato interesse
pubblico all’espunzione del soggetto dall’albo, dando
così corpo a tutti i presupposti per un provvedimento
amministrativo di revoca della precedente deliberazione.
Se si considera che molte delle iscrizioni in questione
sono state operate dagli ordini prima dell’intervento
della Corte di Giustizia con la sentenza Cavallera, e
dunque in tutto il periodo 2001-2009, non appare di per
sé illegittimo il contegno del Consiglio dell’ordine
che, per evitare il perpetuarsi di situazioni di abuso
del diritto dell’Unione europea, a tutela dell’interesse
pubblico al corretto esercizio della professione forense
(Corte cost. ….) proceda a verifica delle posizioni di
coloro che hanno esercitato il diritto di stabilimento
provenendo da Paesi privi di selettivi criteri di
accesso alla professione, e comunque in circostanze di
tempo o di fatto tali da ingenerare il ragionevole
dubbio circa l’integrazione della descritta fattispecie
abusiva, fino ad arrivare nei casi concreti anche
all’ipotesi della revoca dell’iscrizione a suo tempo
disposta. Anche l’eventuale cancellazione disposta
all’esito delle verifiche intraprese, oltre ad essere
motivata da un comprovato interesse pubblico
all’espunzione dall’albo del soggetto che non aveva
titolo per esservi iscritto, è provvedimento ovviamente
“giustiziabile” nelle forme e di fronte alle Autorità
già indicate. Deve peraltro aggiungersi che, in
relazione alle esigenze di protezione dell’affidamento e
di tutela della clientela e dei terzi, la produzione
degli effetti dell’eventuale provvedimento di revoca
dell’iscrizione a suo tempo disposta dovrebbe essere
modulata in forme compatibili con le cennate esigenze, e
andrebbe tendenzialmente esclusa la revoca con effetti
ex tunc, di per sé idonea a travolgere tutti gli atti
compiuti dal soggetto cancellato. Tali verifiche vanno
comunque effettuate tenendo conto delle posizioni
individuali dei soggetti iscritti, senza fare ricorso a
strumenti di verifica standardizzati (ad es. formulari e
questionari inviati indistintamente a tutti gli
iscritti).
13.In conclusione, questa
Commissione ritiene conforme allo spirito delle norme
europee che gli ordini circondariali svolgano
un’attività di attenta vigilanza sulle richieste di
iscrizione nell’elenco degli avvocati stabiliti al fine
di prevenire, in forma non discriminatoria, casi di
abuso del diritto dell’Unione Europea. Ritiene
irragionevoli forme e prassi concrete di verifica e di
controllo a carattere sistematico che si rivelino
sproporzionate rispetto alle finalità di tutela
dell’interesse pubblico al corretto esercizio della
professione. Ritiene che non esorbiti dalle proprie
competenze il Consiglio dell’ordine che effettui
controlli anche sulle iscrizioni già disposte, perché il
relativo potere-dovere di verifica rientra nel più
generale potere di revisione degli albi regolato dalla
legge. Ritiene infine che gli eventuali provvedimenti
che dovessero essere assunti all’esito delle citate
verifiche dovrebbero comunque salvaguardare
l’affidamento incolpevole dei terzi e della clientela,
evitando il rischio di travolgere attività difensive
compiute in costanza dell’iscrizione poi revocata.
14. Ad abundantiam va segnalato che
la situazione attuale è verosimilmente destinata ad
esaurirsi in tempi relativamente brevi, posto che la
Spagna – anche sulla scorta di un forte incoraggiamento
degli altri Stati membri – ha introdotto un tirocinio
formativo obbligatorio ed un esame di Stato per
l’accesso alla professione forense, che troveranno
applicazione a far data dal 31 ottobre 2011 (ley de 30
de octubre, sobre el acceso a las profesiones de Abogado
y Procurador de los Tribunales).
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