1. Premessa
La Class Action è uno strumento
notoriamente utilizzato a tutela dei consumatori ed
utenti che nasce in Inghilterra con le cd.
“representative suits” nel quadro del sistema di Common
Law.
La dottrina tradizionale
attribuisce alle Corti di Equity l’invenzione
dell’istituto.
Le representative suits erano
azioni rappresentative che avevano nel loro fondamento
nella responsabilità solidale tra contadini appartenenti
alla stessa comunità per il pagamento dei tributi sulla
produzione.
In proposito, si possono ravvisarsi
tre principali settori ove si sono sviluppate:
Le pronunce relative al bill of
peace che serviva, in presenza di una pluralità di
parti, ad instaurare una giurisdizione di Equity per
ragioni di economia processuale.
Un secondo settore di pronunce, si
riferisce alle società commerciali cd. Joint - stock
companies, per le liti riguardanti gli affari delle
società.
Ed in fine da ricollegare ai
creditor’s bills, i legatee bills e i vessell’s cases.
L’azione rappresentativa, in
Inghilterra, venne abbandonata in seguito alla fusione
della giurisdizione di Common Law e di Equity,
uniformando così anche il regime del litisconsorzio
necessario ed escludendo le fattispecie ricondotte ai
bill of peace e ai creditor bills ([1]).
Possiamo, quindi, affermare che
l’istituto della Class Action nasce e si sviluppa nel
mondo anglosassone, in particolare negli Stati Uniti e
consiste in un modello di azione collettiva, volta non
solo a garantire una tutela piena ed effettiva del
consumatore contro i colossi industriali, ma è anche
diretta a sostenere una riduzione dei costi e dei tempi
della giustizia.
Negli Usa l’azione in commento
venne introdotta nel 1938, rielaborata nel 1964 e due
anni dopo vide la luce la Legge 23 del 1968.
Tale legge delinea i principali
requisiti dell’azione collettiva, rappresentati dal
rilevante numero dei soggetti che può riguardare, la
comunanza delle situazioni giuridiche e di fatto da
tutelare, la tipicità della situazione giuridica e
l’adeguatezza della rappresentazione.
A prescindere dalla scansione delle
varie fasi storiche che ne hanno condizionato lo
sviluppo, ciò che deve costituire oggetto di riflessione
è - nell’affermarsi dello Stato a diritto amministrativo
- il progressivo riconoscimento giuridico di una serie
di interessi non più riconducibili alla sfera del
singolo, bensì insiti nello «status di appartenente a
gruppi sociali od economici più o meno determinati»
([2]). Tale tendenza, affrancatasi nel contesto della
società consumeristica, non ha potuto fare a meno di
modularsi con la previsione di schemi processuali
consoni a fornire un’adeguata risposta in termini di
tutela per il cittadino. In questo quadro si colloca
l’iter dell’azione di classe che, in ragione della
propria attitudine ad incidere su interessi di categoria
e di consentire un effetto deflativo sul sistema
giustizia, ha riscosso numerosi consensi anche al di
fuori degli ordinamenti che l’hanno vista generare.
Il diritto continentale, dal canto
suo, si è uniformato alla vocazione risolutoria
dell’azione di classe ed alla sua essenza di strumento
di regolazione «dei rapporti fra individui e grossi enti
giuridici, sia privati che pubblici, adempiendo funzioni
– più che risarcitorie o comunque di tutela dei diritti
soggettivi dei singoli – di deterrenza e dissuasione dal
compimento degli illeciti». ([3]).
In Italia, il primo segnale di
attenzione nei confronti dell’istituto si manifesta sin
dagli anni ’80 con la nota legge 349/1986, per poi
svilupparsi rapidamente in tempi più recenti con l’art.
2, co. 446, della l. 24 dicembre 2007, n. 244 (Azione
collettiva a tutela dei consumatori – in seguito
confluiti nell’art 140 bis, del codice del consumo –
d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206) ed in fine con il
d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198.
Tale ultima norma, si rivela di
notevole importanza, in quanto costituisce diretta
attuazione dell’art. 4 della legge 4 Marzo 2009, n. 15,
in materia di ricorso per l’efficienza delle
amministrazioni e dei concessionari si servizi pubblici
([4]).
2. Profili strutturali dell’azione
di classe.
L’azione di classe, per come
ricostruita dagli studiosi di diritto comparato ed oggi
riprodotta dal nostro legislatore all’art. 140 bis del
codice del consumo, consiste in un rimedio processuale
che presuppone il verificarsi di un evento dannoso e/o
comunque lesivo che abbia colpito una pluralità
indistinta di soggetti, la classe appunto.
L’azione proposta, davanti al
giudice amministrativo, per ripristinare il corretto
svolgimento della funzione o la corretta erogazione di
un servizio, non mira al risarcimento del danno, bensì a
far si che l’amministrazione torni a garantire gli
standard di qualità e quantità che ci si attende dalla
sua attività, dando attuazione al principio
costituzionale del buon andamento inteso come canone del
servizio reso dall’amministrazione alla sua
collettività.
I presupposti per l’esercizio
dell’azione, sono ravvisati nella verificazione di una
lesione diretta, concreta ed attuale di interessi
giuridicamente rilevanti ed omogenei avverso una
pluralità di utenti e consumatori.
Quindi, l’oggetto dell’accertamento
giudiziale è riconducibile alla violazione: a) dei
termini o della mancata emanazione di atti; b) degli
obblighi contenuti nelle carte di servizi; c) di
standard qualitativi ed economici stabiliti, per i
concessionari di servizi pubblici, dalle autorità
preposte alla regolazione ed al controllo del settore e,
per le pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse
in conformità alle disposizioni in tema di performance
contenute nel d.lgs 27 ottobre 2009, n. 150.
Sono legittimati ad agire, ai
sensi dell’art. 1 del d.lgs. 198/2009 i «titolari di
interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una
pluralità di utenti e consumatori cui – derivi una
lesione diretta, concreta ed attuale dei propri
interessi».
La norma così concepita
contravviene alle statuizioni dell’art. 4 della legge
15/2009, che ne definiva le sembianze facendo leva sulla
«lesione di interessi giuridicamente rilevanti per una
pluralità di utenti o consumatori».
Il Consiglio di Stato, dal canto
suo, in sede consultiva, parere n.1949 del 9 giugno
2009, aveva rimarcato l’esistenza di una duplicazione di
tale elemento, «essendo prevista come titolo soggettivo
(“interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata”) ed oggettivo
(“se dalla violazione […] derivi la lesione di interessi
giuridicamente rilevanti per una pluralità di utenti e
consumatori”) del ricorso».
L’azione può essere proposta sia
uti singuli che uti universi, estendendola, alle
associazioni o comitati, a tutela degli interessi dei
propri associati, appartenenti alla pluralità di utenti
e consumatori, purché sussistano i medesimi requisiti di
legittimazione di cui all’art.1, comma 4. La persona
giuridica assume, dunque, un ruolo di rappresentanza
processuale.
La sentenza, che definisce il
ricorso per l’efficienza, ha un contenuto misto di
accertamento e di condanna. Infatti, se accerta la
violazione, l’omissione o l’inadempimento, ordina
all’amministrazione (o al concessionario) di porvi
rimedio entro un congruo termine e nei limiti delle
risorse strumentali, finanziarie e umane già assegnate
in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica ai sensi dell’art. 4, comma 3.
Nel caso in cui l’amministrazione
non esegua l’ordine del giudice, è previsto l’istituto
del giudizio di ottemperanza secondo le forme tipiche di
esso e quindi potrà essere nominato un commissario ad
acta (art.5).
L’applicazione concreta
dell’istituto viene rinviata alla precisazione degli
obblighi da inserire nelle carte dei servizi e degli
standard qualitativi, da farsi con DPCM, su proposta del
Ministero dell’economia e con gli altri Ministri
interessati art.7.
3. Profili problematici
dell’istituto.
L’azione di classe, fin dalla sua
adozione ha ingenerato nel nostro ordinamento molteplici
controversie applicative. Una tra queste, nasce
all’indomani dell’entrata in vigore del d.lgs 198/2009,
ed è riconducibile al sistema di regolamentazione
transitorio predisposto dal legislatore, determinando un
regime duale di utilizzabilità che, alle ipotesi di
immediata invocabilità connesse cioè a parametri già
disciplinati, contrappone le restanti fattispecie in cui
l’assenza di un termine, per la definizione del sistema
integrativo, ha posto notevoli dubbiosità in termini di
ragionevolezza e di conformità alla legge di delega.
Tale laconicità ha dato adito alla
manifestazione di un’ambigua coerenza del decreto in
esame con il parametro di cui all’art. 76 Cost. in
quanto l’art. 7 non costituirebbe una disposizione
transitoria «limitandosi – a contrario – a procrastinare
senza alcun termine preciso, ma con un rinvio alla pura
discrezionalità governativa, l’applicazione della class
action così come voluta dal legislatore delegante».
Altra questione da trattare,
riguarda il fatto che il legislatore del 2009, ha dato
vita ad un’impalcatura normativa frutto di un
contemperamento tra la pressante esigenza di
contenimento della spesa pubblica (causa l’imperante
incremento del debito pubblico) e la necessità di
parametrazione della produzione dell’attività
amministrativa. A tal fine, la disciplina contenuta nel
d.lgs 198/2009 schiude le porte ad un limite
invalicabile rappresentato dal vincolo generale di non
aggravio della finanza pubblica (ex art. 8).
Tale statuizione di principio viene
ulteriormente avvalorata dall’art. 4, comma 1, del
presente decreto, ove sancisce che la effettività della
pronuncia giudiziale risulta vincolata alla non
incidenza della stessa sulle «risorse strumentali,
finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria»
all’amministrazione, nonché «senza nuovi o maggiori
oneri per la finanza pubblica». Il combinato disposto
delle disposizioni predette va poi ulteriormente
considerato alla luce della pluralità di oggetti che
possono sottendere la proposizione dell’azione ([5]).
Pertanto, nelle ipotesi di
violazione di termini o di mancata emanazione di atti
amministrativi generali obbligatori e non aventi
contenuto normativo, da emanarsi entro un termine
perentorio, non pare potersi rinvenire forma alcuna di
incidenza sulle finanze pubbliche.
In proposito è stato sottolineato
come «La violazione di termini o la mancata emanazione
di atti amministrativi generali obbligatori non
dovrebbero (…) ricadere nell’ambito di detto limite, in
quanto si tratta di emanare provvedimenti che non
dovrebbero incidere sulle finanze pubbliche o, pure ove
ciò si necessario per gli atti a contenuto generale,
sarebbe giustificato dalla obbligatorietà della loro
emanazione, che prescinde dal limite finanziario
introdotto nel d.lgs. 198/09»
A contrario, ove la violazione sia
ascrivibile a obblighi contenuti nelle carte di servizi
ovvero a standard qualitativi ed economici potrebbe
paventarsi un incremento degli oneri a carico delle
amministrazioni eventualmente soccombenti. In tal senso,
la pressante esigenza di non aggravio finanziario
farebbe propendere per un giudizio diretto alla
riorganizzazione della struttura organizzativa,
funzionale cioè al mero superamento dei punti di
debolezza accertati in sede giudiziale ([6]).
Parimenti l’analisi dell’istituto
in esame presuppone un confronto con l’interpretazione
che del principio di “invarianza finanziaria” verrà data
in sede giudiziale. La necessità di evitare che
l’esercizio dell’azione di classe sia foriero di
ulteriori aggravi non deve divenire un usbergo a favore
dell’amministrazione.
Una lettura dell’istituto del tutto
avulsa rispetto all’elemento finanziario, infatti,
rischierebbe di svuotare di ogni cogenza il contenuto
della eventuale pronuncia giudiziale adottata a favore
dell’utente.
A tal proposito, è stato
sottolineato come un ruolo di primaria importanza nella
risoluzione della questione sarà ascrivibile alla scelta
del fattore di parametrazione dell’invarianza, e cioè se
essa dovrà proiettarsi sul bilancio ovvero sull’importo
di spesa prospettato dall’Amministrazione in relazione
al servizio oggetto di doglianza.
La scelta dell’uno o dell’altro
modello pone notevoli questioni, che si snodano fino a
coinvolgere la tipologia di sindacato invocabile.
Infatti, specie ove si voglia optare per l’ascrizione
del limite dell’invarianza al documento di bilancio, si
consentirebbe all’amministrazione di operare
movimentazioni interne dirette ad una redistribuzioni
delle voci a vantaggio dei settori in perdita, evitando
così la frustrazione dello strumento processuale in
esame ([7]).
[1] R. Mancina, Class Action e
profili comparatistici, Napoli 2008.
[2] P.P. Davalli, Dall’interesse
diffuso all'interesse collettivo, in Diritti ed
interessi nel sistema amministrativo del terzo
millennio, (a cura di B. Cavallo), Torino 2002.
[3] C. Consolo, Class actions fuori
dagli USA?, Un'indagine preliminare sul versante della
tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e
struttura processuale minima, in Riv. Dir. Civ., 1993.
[4] G. Veltri, Class action
pubblica: prime riflessioni, in www.lexitalia.it; A.
Scognamiglio, Il ricorso per l’efficienza delle
amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici,
in www.apertacontrada.it; C. Franchini, Giustizia e
pienezza della tutela nei confronti della pubblica
amministrazione, in Il diritto amministrativo oltre i
confini, Milano 2008, pp 165 e ss.
[5] F. Manganaro, L’azione di
classe in un’amministrazione che cambia, in
www.giustamm.it.
[6] P.M. Zerman, Partenza in salita
per la class action, in www.giustizia-amministrativa.it;
G. Veltri, Class action pubblica: prime riflessioni, in
www.lexitalia.it; F. Cintioli, Note sulla cosiddetta
class action amministrativa, in www.giustamm.it; C.
Consolo, Class actions fuori dagli USA?, Un'indagine
preliminare sul versante della tutela dei crediti di
massa: funzione sostanziale e struttura processuale
minima, cit.
[7] S. Gatto Costantino, Azioni
collettive ed organizzazione dei servizi, in
www.giustizia-amministrativa.it. |