In primavera, sotto l’effetto
delle tensioni politiche in Medio Oriente e Nord Africa
il prezzo della benzina ha sfiorato la punta record di
1,60 euro al litro. Nel 2008, in occasione dell’ultima
crisi petrolifera, il prezzo aveva faticosamente
superato 1,55 euro al litro … Tutta colpa di Gheddafi,
della Nato e di piazza Tahrir?
Difficile dirlo, il prezzo del
petrolio è sempre rimasto sensibilmente al di sotto dei
suoi massimi storici. Nel 2008 superò 150 dollari al
barile, mentre questa primavera non raggiunse i 130.
Dunque, la spinta verso l’alto del prezzo della benzina
non fu provocata dal petrolio. Quale la causa, allora?
Le tasse? In effetti, come noto, sul pieno di benzina si
paga circa la metà in tasse. Tuttavia in questi mesi la
componete fiscale del prezzo della benzina è rimasta
sostanzialmente invariata. Peraltro, la pressione
fiscale sui carburanti è in Italia addirittura
lievemente al di sotto della media europea. Anche alle
tasse, pertanto, per una volta, non può essere imputato
nulla.
Il vero problema, in conclusione, è
la componente industriale. In effetti, il prezzo della
benzina, soprattutto se lo si considera al netto delle
tasse (il cosiddetto “prezzo industriale”), è tra i più
alti in Europa. Un fenomeno che si riscontra da tempo,
tanto da avere addirittura un termine tecnico per
indicarlo: lo “stacco Italia”. Il fatto che il prezzo
della benzina sia cresciuto così tanto in primavera è
quindi, com’è naturale, frutto di contingenze, ma
riflette una crisi industriale affatto temporanea: il
problema di fondo è persistente e strutturale. Il picco
primaverile evidenzia molto di più di quanto non possa
apparire a prima vista. In effetti, l’intera filiera
produttiva, dall’estrazione del greggio fino alla pompa
di benzina, è sostanzialmente detenuta dalle aziende
petrolifere: uno stesso soggetto estrae la materia prima
nei paesi d’origine, la trasporta, la raffina,
distribuisce il prodotto finito ai punti di vendita e,
spesso, detiene la proprietà degli stessi punti di
vendita. Di per sé, il fatto che l’industria detenga il
controllo su tutta la filiera non costituisce un
problema; purché il sistema sia capace di generare
riduzione di costi ed economie di scala. Nel caso in
specie, tuttavia, la situazione che si presenta dinanzi
agli occhi è estremamente diversa. L’Italia è il Paese
che dispone del più elevato numero di raffinerie in
Europa. La Germania ne ha poco più della metà. Eppure
riesce a produrre ed esportare più prodotto finito. Se
ci soffermiamo sulla capacità produttiva media per
impianto, il confronto con buona parte degli altri paesi
europei, quali Francia o Regno Unito, diviene
addirittura divenire imbarazzante. E il giudizio non
migliora affatto se si sposta lo sguardo sulla rete
distributiva: in Italia il numero di punti vendita è
elevatissimo, non solo il più alto, ma un numero che non
ha paragoni in Europa. La nostra rete è costituita da un
pulviscolo di piccoli distributori, con un fatturato
medio tra i più bassi in Europa, che vivono spesso
esclusivamente di distribuzione di carburante, su cui
godono di margini risicatissimi. Una situazione che
rende il nostro sistema distributivo spaventosamente
costoso e poco remunerativo.
Insomma, il sistema industriale e
distributivo dei carburanti italiano ha fatto
dell’inefficienza la sua bandiera. Produciamo poco con
costi elevatissimi. E la distribuzione è pure peggio. Un
limite che si riversa interamente sul prezzo richiesto
ai consumatori e agli automobilisti, che si ritrovano a
dover pagare non solo, come è normale, il valore del
bene, ma anche e soprattutto le gravi incapacità di
gestione altrui. Perché costui, volendo fare tutto, alla
fine non riesce a farlo bene. O, almeno, non al meglio.
Gheddafi, dunque, non c’entra
nulla. Quando la rete distributiva si sarà affrancata
dalla produzione, avrà la possibilità reale di vivere
non solo di carburante, ma di differenziare di più e
meglio la propria offerta, allora sarà l’intero sistema
ad avvantaggiarsene: chi produce, chi distribuisce e chi
consuma.
*La versione integrale
dell’articolo sarà pubblicata sulla rivista
“Consumatori, Diritti e Mercato” n° 2/2011 |