Il 30 maggio a Roma si è svolto il
Convegno dello Svimez dal titolo Nord e Sud a 150 anni
dall’Unità d’Italia. E’ stata un’importante occasione
per uno sguardo di lungo periodo sulle grandi
trasformazioni che hanno interessato il nostro Paese e
di riflessione sulle persistenti, ma non necessariamente
statiche, differenze tra Nord e Sud.
Dal punto di vista demografico
molto è cambiato dal momento dell’unificazione ad oggi1.
A quell’epoca fecondità e mortalità erano ancora ai
livelli di antico regime e la piramide dell’età
prevedeva molti giovani e pochi anziani. Si facevano in
media cinque figli per donna, l’aspettativa di vita
superava di poco i 30 anni, gli over 65 erano meno del
5% del totale della popolazione. Nei decenni successi
prenderà avvio la transizione riproduttiva che porterà
la fecondità dagli elevati livelli del passato ai bassi
attuali. Un processo che parte dalle regioni del Nord
ovest e poi si espande progressivamente in tutto il
Paese. Dopo un secolo di Unità, nel 1961, l’Italia
centrosettentrionale presenta livelli attorno ai due
figli in media per donna, mentre molte regioni del Sud
non sono ancora scese sotto i tre. Siamo nel pieno del
periodo dell’industrializzazione del paese e
dell’urbanizzazione. Si diffonde il modello di vita
borghese con famiglia unità di consumo formata
tipicamente dal marito operaio, dalla moglie casalinga e
da figli sempre più scolarizzati. Una famiglia
solidamente unita dal vincolo coniugale, ma anche molto
tradizionale, dominata dalla figura del capofamiglia
maschio.
Nell’ultimo mezzo secolo nuove
grandi trasformazioni s’impongono. A partire dalla fine
degli anni Sessanta, in tutto il mondo occidentale,
iniziano a manifestarsi i primi segnali di una stagione
di nuovi cambiamenti che investono fortemente il modo di
fare famiglia, la vita domestica e le relazioni di
coppia. Uno dei motori principali del mutamento è il
nuovo ruolo della donna, che ha alla base una crescente
presenza nella società e nel mercato del lavoro.
I paesi, come quelli scandinavi,
che per primi sperimentano questi cambiamenti sono anche
i primi a vedere la fecondità scendere sotto la media
dei due figli. Ma allo stesso tempo, i paesi che
riadattano e ristrutturano il sistema di welfare
favorendo l’autonomia dei giovani, la simmetria di
genere e la conciliazione tra lavoro e famiglia,
consentono ai nuclei familiari di difendere il proprio
benessere con un doppio stipendio senza rinunciare ad
avere (più) figli. Questo spiega perché nel corso degli
anni Ottanta la relazione cross-countries negativa tra
partecipazione delle donne al mercato del lavoro e
fecondità diventa progressivamente positiva2. L’Italia
stenta però ad inserirsi in questo percorso3.
Nelle aree con minori servizi di
conciliazione l’occupazione femminile fa fatica a
decollare e la fecondità si riduce maggiormente. Dopo il
minimo storico del 1995 la fecondità italiana riprende a
salire, anche al netto delle nascite straniere,
soprattutto nelle regioni dove occupazione delle donne e
misure di conciliazione sono cresciute maggiormente.
Dove invece, come nel Sud Italia, resiste il modello
tradizionale di maschio “breadwinner” (capofamiglia
unico percettore di reddito) si associa una situazione
di depressione sia sul versante economico che
demografico.
Il sorpasso del tasso congiunturale
di fecondità del Nord sul Mezzogiorno nei primi anni del
nuovo secolo costituisce un risultato non solo inedito -
dato che le regioni meridionali sono sempre state
caratterizzate da una intensità riproduttiva superiore a
quella del resto d’Italia - ma anche inatteso: ancora
nel 2001 l’Istat prevedeva per il 2010 un numero medio
di figli per donna pari a 1,23 nell’Italia
settentrionale e a 1,61 nel Mezzogiorno.
Assieme alla maggiore denatalità,
anche gli spostamenti delle componenti più dinamiche e
qualificate verso il Nord e la minore incidenza delle
emigrazioni dall’estero contribuiscono ad accentuare lo
svantaggio demografico del meridione4. Fenomeni che
stanno alla base non solo della minor crescita della
popolazione ma soprattutto del maggior invecchiamento.
Tanto che, secondo le più recenti previsioni, nei
prossimi decenni il Sud è destinato a diventare l’area
del Paese con maggior peso della componente anziana
(Figura 1).
Il fatto che la crescita del numero
di anziani sia meno compensata dalla crescita
dell’occupazione femminile fa, ancor più rispetto al
resto del Paese, sorgere timori sulle ricadute negative
in termini di sostenibilità economica e sociale.
Inoltre, i dati Istat evidenziano come gli anziani
meridionali siano mediamente più poveri e con peggiori
condizioni di salute5. Tutto ciò è acuito dal fatto che
vivono anche in un contesto con un sistema sanitario e
di welfare pubblico più carenti e meno efficienti.
Maggiore è quindi il rischio che la popolazione oltre
che più vecchia diventi anche sempre meno dinamica e più
povera.
Negli ultimi decenni il Sud è
quindi scivolato in una spirale negativa tra sviluppo
economico e demografico dalla quale può uscire solo
attraverso politiche credibili che favoriscano nel
contempo occupazione femminile e conciliazione tra
lavoro e famiglia.
Figura 1. Indice di vecchiaia
(rapporto tra over 65 e under 15).
grafico 1
Fonti: Elaborazione su dati Istat
(dati storici e previsioni della popolazione con base
1.1.2007).
* articolo pubblicato anche sul
sito www.neodemos.it
1. Rosina A. (2011), “Demografia,
tendenze di fondo”. Relazione presentata al Convegno
Svimez dal titolo Nord e Sud a 150 anni dall’Unità
d’Italia, 30 maggio 2011, Roma.
2. D'Addio, A.
C., Mira d'Ercole M. (2005), Trends and Determinants of
Fertility Rates in OECD
Countries: The
Role of Policies. OECD Social Employment and Migration
Working Papers n. 15,
OECD, Paris.
3. Del Boca D., Rosina A. (2009),
Famiglie sole. Convivere con un welfare inefficiente, Il
Mulino, Bologna.
4. Bonifazi C., (2011),
“Migrazioni”. Relazione presentata al Convegno Svimez
dal titolo Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia, 30
maggio 2011, Roma.
5. Salvini S. e De Rose A., (2011,
a cura di), Rapporto sulla popolazione. L’Italia a 150
anni dall’Unità, il Mulino, Bologna. |