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Il patto di famiglia è
quell’istituto attraverso il quale “l’imprenditore
trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il
titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in
tutto o in parte, le proprie quote ad uno o più
discendenti”.
Detta normativa è stata introdotta
nell’ordinamento giuridico con la legge n. 55/2006 che,
con gli artt. 768 bis c.c., ha recepito l’esigenza dei
genitori-imprenditori di tramandare il valore economico
della propria azienda e di trasmettere i valori fondanti
che ne hanno determinato il successo economico ed ha
permesso, nel concreto, di agevolare il passaggio
generazionale delle piccole e medie imprese.
La morte dell’imprenditore o del
socio di riferimento, infatti, creava spesso
problematiche che compromettevano il futuro stesso
dell’azienda: non sempre, infatti, i discendenti
dell’imprenditore avevano le medesime capacità del
predecessore. Talvolta, qualcuno si rivelava all’altezza
del compito, ma era ostacolato da quelli che, non
coinvolti, volevano comunque partecipare alla gestione
pur senza averne l’abilità. Altre volte, invece, la
conduzione familiare dell’impresa sfociava in una
costante litigiosità, generata da contrasti sugli
obiettivi da raggiungere, sui progetti da perseguire,
sui metodi con i quali realizzarli. Il risultato finale,
pertanto, era la dissoluzione e la scomparsa dal mercato
dell’impresa creata dal de cuius la quale, in passato,
si era rivelata in grado di produrre ricchezza e
benessere.
Sino all’introduzione dell’istituto
in parola, quindi, il divieto, senza alcuna deroga, dei
patti successori poneva notevoli restrizioni alla
pianificazione ed alla trasmissione dei patrimoni
familiari in quanto sanciva la nullità di tutti gli
accordi concernenti diritti su una successione non
ancora aperta: l’ordinamento, infatti, si limitava a
stabilire come l’eredità si devolvesse esclusivamente
per legge o per testamento, escludendo in toto la fonte
negoziale.
La problematica della facilitazione
della trasmissione delle aziende familiari era stata
affrontata anche dalla Commissione europea nel 1994, la
quale, attraverso la Raccomandazione 1069/CE, aveva
invitato gli Stati membri a sensibilizzare
l’imprenditore in ordine ai problemi della successione
in modo da indurlo a preparare l’operazione per tempo e,
al contempo, aveva esortato i legislatori nazionali a
fare in modo che il diritto della famiglia ed il diritto
successorio non fossero di ostacolo per l’operazione de
qua.
Con l’introduzione del nuovo
istituto, la trasmissione della ricchezza familiare,
rappresentata dall’impresa o caratterizzata da una
predominante dimensione mobiliare, può essere
programmata ed il rischio di dissoluzione è sicuramente
ridimensionato.
La novità, comunque, non risiede
tanto nella vicenda traslativa inter vivos, ma,
soprattutto, nel mancato assoggettamento a riduzione o
collazione della liberalità effettuata nei riguardi del
discendente.
Prima della riforma del 2006,
difatti, la successione di un imprenditore era quasi una
missione impossibile: come testé evidenziato, da un
lato, non era consentito stipulare patti durante la vita
dell’imprenditore medesimo aventi ad oggetto le sorti
dell’azienda di famiglia dopo la morte dell’imprenditore
stesso e, dall’altro, era spesso impossibile compensare,
per mancanza di sostanze, le ragioni dei familiari non
imprenditori rispetto all’attribuzione dell’azienda al
figlio o ai figli ritenuti idonei a proseguire
l’attività genitoriale.
Nella novella sul patto di
famiglia, invece, non solo è prevista la liceità del
contratto con cui si effettua la liberalità, bensì è
diposto che colui al quale viene attribuita l’azienda o
alcune partecipazioni “compensi” gli altri eredi
legittimari partecipanti alla stipula del accordo, a
meno che a detta “compensazione” provveda direttamente
colui che dona l’azienda, trasmettendo altri beni ai
familiari non beneficiari della donazione medesima.
Occorre sottolineare poi come il
legislatore abbia chiaramente qualificato l’istituto
come “contratto” ed infatti trattasi di un accordo
diretto a costituire, regolare o estinguere rapporti
giuridici a carattere patrimoniale il quale pertanto
esclude disposizioni concernenti diritti indisponibili.
Nello specifico, la norma sul patto
di famiglia prevede la “donazione” di un’azienda o di un
pacchetto di partecipazioni societarie ed
un’attribuzione in denaro o in natura ai familiari non
beneficiari dell’azienda a “compensazione”.
Per quanto concerne l’imprenditore,
il termine deve essere inteso in senso ampio, per cui
deve ricomprendersi anche colui che, pur non potendosi
definire “imprenditore” da un punto di vista
tecnico-giuridico, sia titolare di un’azienda o di
partecipazioni sociali che la rappresentano.
In relazioni agli assegnatari
dell’impresa di famiglia ovvero delle partecipazioni
sociali, essi possono essere solamente i discendenti:
dunque, non solo i figli, ma, eventualmente, anche i
nipoti; è escluso che possano divenire assegnatari
soggetti diversi come, ad esempio, il coniuge o i
fratelli dell’imprenditore.
All’atto negoziale, che a pena di
nullità deve rivestire la forma dell’atto pubblico,
debbono necessariamente prendere parte l’imprenditore, i
discendenti ai quali egli intende trasferire l’azienda
di famiglia (o le partecipazioni che la rappresentino)
ed anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero
legittimari se, in quel momento, si aprisse la
successione.
La necessità della partecipazione
alla sottoscrizione dell’accordo di tutti i legittimari
deriva dalla ragione che il negozio è configurato come
un’“anticipazione” della distribuzione, almeno di parte,
del patrimonio dell’imprenditore rispetto al momento
dell’apertura della successione e per tale motivo, oltre
al cedente e agli, devono partecipare il coniuge, anche
se legalmente separato e sempre che la separazione non
gli sia stata addebitata, i figli e, qualora questi non
fossero più in vita, i loro discendenti e gli eventuali
figli legittimati o adottivi e, in loro mancanza, i
loro discendenti.
La normativa non prende in
considerazione il caso in cui uno dei legittimari,
necessariamente chiamato a partecipare all’atto, sia
minorenne e, dunque legalmente incapace d’agire:
l’importanza e la portata, anche economica, degli
effetti del negozio de quo inducono a ritenere che
l’atto debba essere inquadrato tra quelli di
straordinaria amministrazione, per il compimento dei
quali la legge richiede l’autorizzazione preventiva del
giudice tutelare; in caso di inosservanza della
disciplina in questione, la conseguenza è quella
dell’annullabilità del patto.
Qualora, invece, il legittimario
sia un interdetto, al patto di famiglia prenderà parte
il tutore munito dell’autorizzazione giudiziale.
Analoga è la soluzione in caso di
soggetto inabilitato. In tale ipotesi, tuttavia, oltre
all’autorizzazione del giudice, è necessario che alla
sottoscrizione dell’accordo intervenga sia il
legittimario incapace che il curatore il quale dovrà
prestare il proprio consenso al compimento dell’atto.
Infine, quando il tutore o il
curatore devono prendere parte al negozio personalmente,
al fine di evitare il conflitto di interesse, è
necessaria la nomina di un curatore speciale da parte
del giudice.
Concretamente, le operazioni per
realizzare lo scopo della trasmissione generazionale
dell’azienda di famiglia sono il trasferimento della
stessa o delle partecipazioni al capitale sociale da
parte dell’imprenditore ai discendenti e la liquidazione
degli altri familiari non assegnatari.
La disciplina del patto di famiglia
cerca dunque di realizzare lo scopo di favorire il
passaggio generazionale con il minor sacrificio
possibile dei familiari non partecipi dell’attività
aziendale ed è pertanto caratterizzata dalla ricerca del
trattamento meno sperequativo possibile tra il familiare
destinatario dell’azienda e gli altri suoi parenti.
Si ribadisce infatti come la
normativa preveda che l’attribuzione dell’azienda sia
“compensata” con un’attribuzione in denaro o in natura a
favore di coloro che sarebbero i legittimari
dell’imprenditore direttamente da colui che trasferisce
l’azienda o le partecipazioni o dagli assegnatari.
Un accenno merita la tematica
dell’invalidità del patto di famiglia.
L’art. 768 quinquies c.c. dispone
in maniera del tutto apodittica che “il patto può essere
impugnato dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427
e seguenti” del codice civile.
Altrettanto apodittico è il secondo
comma del successivo art. 768 sexies, secondo il quale
l’inosservanza delle disposizioni del primo comma
costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’art.
768 quinquies c.c..
Si rileva altresì come il patto
possa essere sciolto o modificato dagli stessi soggetti
che l'hanno stipulato o attraverso un nuovo contratto o
attraverso la rescissione, solamente, però, se prevista
nel patto e certificata da un notaio (art. 768 septies
c.c.).
Ai sensi dell’art. 768 octies c.c.,
le eventuali controversie che dovessero scaturire sono
devolute preliminarmente ad organismi di conciliazione
(art. 768 octies c.c.).
Le opinioni sul patto di famiglia
sono state molteplici: parte della dottrina ha sostenuto
che detto negozio, oltre ad avere profili successori, ha
certamente una funzione divisoria in quanto è evidente
la tendenza ad assegnare ad uno o più discendenti,
quelli più idonei alle funzioni d’impresa rispetto agli
altri, l’azienda o le partecipazioni societarie in
proprietà del soggetto disponente.
Non sono poi mancate opinioni che
hanno visto nel patto di famiglia una componente di
liberalità.
A dispetto comunque delle
qualificazioni della dottrina e delle lacune presenti
nella normativa, l’introduzione dell’istituto del patto
di famiglia deve essere valutata con favore perché
dimostra l’intenzione del legislatore di agevolare il
passaggio tra una generazione e l’altra delle
piccole-medie imprese che sono la grande ricchezza
dell’economia nostrana. |