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PROCESSO PENALE-Per uno Statuto della Logica nel processo penale-Lew 24.it

 

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Giuliano Dominici, Avvocato, Presidente Osservatorio sulla Cassazione dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Fabrizio Formica, Segretario della Camera Penale di Barcellona P.G

 

 

 

La Camera Penale di Barcellona P.G., sin dalla sua istituzione, organizza annualmente un incontro tra gli operatori del diritto per promuovere il dibattito sui temi di più rilevante attualità nel settore penale (da ultimo: sulla tecnica come arbitro del processo, sullo stalking, sul disegno di riforma delle intercettazioni ).

Quest'anno, nella prospettiva di dare un serio contributo all' avviamento di un percorso di modernizzazione e rinnovamento del giudizio di legittimità, reso necessario dalla attenta analisi dei risultati statistici acquisiti negli ultimi anni dall' Osservatorio UCPI sulla Corte di Cassazione, dai quali è emersa una allarmante percentuale di ricorsi oggetto di declaratoria di inammissibilità (con prevalente formula di manifesta infondatezza a discapito del mero rigetto), è stato promosso un convegno che già attraverso il titolo lascia intendere un fine concreto e non meramente teorico il cui raggiungimento , stante il livello dei relatori che vi hanno già aderito, può dirsi più che probabile.

Avv. Fabrizio Formica, Segretario della Camera Penale di Barcellona P.G.

 

Scarica la brochure dell’convegno "Per uno Statuto della Logica nel processo penale" che si terrà a Lipari il 10 settembre 2011 : clicca qui

 

 

Scarica la lista dei docenti: clicca qui

 

 

Per uno Statuto della Logica nel processo penale

Il Codice di procedura penale (art. 606, lett. e) “punisce” l'illogicità del ragionamento giudiziario con l'annullamento, da parte della Corte di cassazione, della sentenza che ne é affetta.

Da una parte, dunque, vi é il mitico libero convincimento del giudice; dall'altra il limite della logica quale strumento necessario per giungere ad un corretto risultato intellettuale.

Detto questo, le certezze sono già esaurite.

Intanto, la sanzione (l'annullamento) non colpisce qualsiasi illogicità, bensì soltanto quella "manifesta".

Esiste dunque un quantum di logica? Se sì, come si stabilisce quando non viene raggiunto?

E più in generale: esiste una nozione di logica cui fare inequivoco riferimento?

Correntemente, ci si limita ad evocare la “logica aristotelica”; in tale prospettiva i “paletti” alla giustificazione del libero convincimento sarebbero costituiti dai princìpi – a titolo d’esempio – di non contraddizione (per il quale è impossibile che la stessa cosa sia e non sia al tempo stesso), del terzo escluso (“tertium non datur”: ogni proposizione o è vera o è falsa; se è vero che “Socrate è un uomo”, deve essere falso che “Socrate non è un uomo”); della reductio ad absurdum (se da una ipotesi deriva una contraddizione che ne rivela l'assurdità, si è in grado di affermare che è vera l'ipotesi contraria), e via di questo passo.

Ma questi princìpi (ovvero il loro elenco più completo) esauriscono la condizione di non manifesta illogicità della motivazione di una sentenza?

E, comunque, posto che – nel Codice di procedura – alla manifesta illogicità della sentenza è positivamente equiparata la sua contraddittorietà (cioè, appunto, una tipica forma di illogicità “classica”), è poi così sicuro che la logica cui fa riferimento il codice di rito sia quella appena sopra evocata?

Soltanto per inciso, deve osservarsi che coloro che si occupano di diritto – o meglio di processi – sono forse gli unici professionisti chiamati anche formalmente a confrontarsi nel quotidiano coi canoni della logica, posti a condizione minima (quanto generica, e questo è appunto il problema) di accettabilità dell’esito dell’indagine giudiziaria e della sua verifica processuale; e ciò, si presume, sulla scorta degli studi liceali, irrobustiti da un esame del primo anno del corso di giurisprudenza, quella Filosofia del Diritto nella quale confluisce, tra l’altro, il tema della logica giuridica.   

Quel che appare invece necessario stabilire è: la logica di riferimento del ragionamento giuridico e le sue basilari regole; quali siano le patologie logiche del ragionamento giudiziario; (se possibile) da quali sintomi possano essere svelate; quando, infine, tali patologie debbano dirsi “manifeste”.

La ragione di una tale ricerca è presto detta: se non si stabilisce cosa sia da considerarsi manifestamente illogico, si lascia spazio alla più ampia creatività in materia (cioè all’arbitrio), sia da parte di chi denunzia l’illogicità, sia – il che è ben più grave, perché spesso trattasi dell’ultimo e definitivo capitolo del processo penale – da parte di chi dovrebbe rilevarla o meno.

D’altronde, allo stato, neppure appare definito il confine tra merito della valutazione e articolazione logica della stessa, leggendosi quotidianamente, nelle sentenze della Suprema Corte, che i denunziati vizi logici (sussistenti o meno) appartengono invece all’intangibile sfera di discrezionalità del giudice del merito. Ciò, molto banalmente, in quanto tutti presuppongono di ragionare logicamente (quindi: ragionamento e logica si equivalgono e identificano), e la critica alla struttura logica del discorso viene intesa come critica –non consentita nel giudizio di legittimità – al libero convincimento del giudice.   

Certo, della logica giudiziaria s’è molto detto e scritto, ma qui si tratta – in prospettiva assai più ridotta ed operativa – di individuare le “patologie fatali” riconducibili nel concetto di “manifesta illogicità”.

Ed è curioso rilevare come il Codice di rito, che stabilisce minuziosamente (ad esempio) i passaggi che presiedono alla regolarità/utilizzabilità delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, si limiti a prevedere soltanto, per la fase ultima di controllo del risultato del processo – dopo la quale la sentenza diviene definitiva – che la motivazione dell’assoluzione o della condanna non sia manifestamente illogica.

Ora: se è facile (a condizione di avere buona memoria) elencare le patologie delle intercettazioni, lo stesso non può dirsi quanto a quelle della logica della sentenza.

Naturalmente, non possono mettersi sullo stesso piano regole meramente esecutive (le prime) e regole costruttive (le seconde, che attengono alla costruzione del risultato intellettuale sentenza, per il quale possono adottarsi percorsi diversi e tutti parimenti incensurabili), ma rimane il fatto che la mancanza di definizione della manifesta illogicità consente il più ampio spazio di manovra e di arbitrio ai protagonisti della fase conclusiva del processo.

Ad evitare che la valutazione di manifesta illogicità (o, più spesso e quasi sempre, di non manifesta illogicità) della sentenza si risolva in una «opzione soggettiva e meramente potestiva» (Ferrajoli, Diritto e Ragione, a proposito del difetto di “denotazione” delle norme in ambito penalistico), occorre dunque definire il concetto.

Tenendo peraltro conto dell’ulteriore condizione di rilevabilità dell’illogicità (e quindi di annullamento della sentenza) dettata dal Codice: il vizio deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, «ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame» (art. 606, lett. e  c.p.p.).

Sicché, ove l’inferenza induttiva – in mancanza di valido presidio difensivo – avesse preso le mosse da dati di fatto del tutto errati, l’articolazione logica del ragionamento susseguente, pur viziata, sarebbe incensurabile (la natura formale del vaglio di logicità, peraltro, è persino rivendicata, laddove sempre più spesso si legge della necessaria “autosufficienza” del ricorso, in un improbabile pas de deux “sentenza impugnata/ricorso” che dovrebbe dar conto della tenuta logica di tutto l’insieme).

Ancora una volta, si è ben lontani dalla logica classica, nella quale proprio il problema della verità e certezza delle premesse ha costituito forse il passaggio più arduo dell’elaborazione teorica.

L’impressione, insomma, é che  – in sede giudiziaria – nel valutare la denunciata manifesta illogicità della sentenza non si faccia riferimento alla logica argomentativa in senso stretto, ma ad un’indefinita qualità minima  del discorso giustificativo della conclusione adottata.

Il che, però, non elide, bensì rafforza la necessità di uno “statuto” della manifesta illogicità, che ponga fine all’attuale imponderabilità del criterio di valutazione adottato di volta in volta (o, ed è ancor peggio, caso per caso).

 

 

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