SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. La
recidiva nell’ordinamento. – 3. La recidiva nel codice
penale: come si è arrivati all’attuale disciplina della
recidiva. – 3.1. L’esegesi delle modifiche introdotte
dalla legge “ex Cirielli”. – 3.2. La recidiva “bifasica”.
– 3.3. La “dichiarazione” di recidivo ai fini della
recidiva “reiterata”. – 3.4. La recidiva obbligatoria e
le sue vicissitudini ermeneutiche. – 4. Conclusioni.
1. Introduzione.
Lo spunto per questa trattazione ci
viene offerto da due sentenze delle Sezioni Unite,
pronunciate entrambe il 24 febbraio di quest’anno e
depositate lo scorso maggio, che fanno séguito alle
diverse pronunce di legittimità che nei mesi antecedenti
hanno interessato la norma richiamata e, più in
generale, l’istituto giuridico della recidiva. Una
nutrita schiera di arrêts, che ha contribuito ad
arricchire la doviziosa giurisprudenza costituzionale,
di legittimità e di merito, già esistente
sull’argomento, tracciando in tal senso una perfetta
linea di continuità con il preterito. Sin dalla fine
dell’Ottocento, infatti, questa figura giuridica, pur
con le sue mutevoli regolamentazioni, ha costantemente
alimentato le discussioni di teorici e pratici del
diritto, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “croce
dei criminalisti”[1].
2. La recidiva nell’ordinamento.
La recidiva si sostanzia in una
ricaduta nel comportamento antigiuridico da parte di un
soggetto che in precedenza è stato già autore di un
illecito ormai accertato in via definitiva. Di norma,
quando viene citata il pensiero corre immediatamente al
diritto penale, secondo cui il recidivo è colui che,
dopo esser stato condannato[2] per un delitto non
colposo, ne commette un altro (art. 99, comma 1, c.p.).
Si tratta, in realtà, di una fattispecie eclettica,
allocata in diverse delle pieghe del tessuto
ordinamentale; oltre che nel campo dei reati, la
rinveniamo, infatti, in numerosi settori, tra loro
eterogenei, riconducibili sia alla branca amministrativa
(intesa in senso lato) che a quella civile (soprattutto
in materia giuslavoristica ad effetti disciplinari). In
tali contesti il concetto di “recidiva”, pur essendo a
volte utilizzato con un’accezione più o meno ampia di
quella penalistica, presuppone in ogni caso che un fatto
contra legem venga posto in essere una seconda volta dal
medesimo autore, dopo che l’infrazione anteriore gli sia
stata almeno già formalmente contestata (cfr. Cass.
civ., Sez. Lavoro, 20 ottobre 2009, n. 22162)[3].
Prima di addentraci nel vivo della
materia può risultare interessante lo svolgimento di
un’analisi di tipo “lessicostatistico”. La reiterazione
nel reato viene uniformemente definita dal nostro
ordinamento come “recidiva”, sia in àmbito codicistico
che extravagante. In campo penale parlano, infatti, di
“recidiva” il codice sostanziale[4], quello di rito[5] e
la legislazione complementare[6]. A tal riguardo giova
ricordare che, a fianco all’istituto disciplinato in via
generale dal Libro I del codice “Rocco”, nel diritto
positivo vigente coesistono una serie di figure
peculiari di recidiva penalmente rilevante, il cui
elemento specializzante è in genere rappresentato dalle
particolari conseguenze sanzionatorie, che sono
differenti da quelle fissate in via “ordinaria”
dall’art. 99 c.p. e discendono sovente (non sempre) da
una reiterazione contravvenzionale anziché delittuosa.
Tra queste figure speciali ricordiamo innanzitutto la
“recidiva nel contrabbando”, un’ipotesi delittuosa
regolamentata doppiamente dal nostro ordinamento: con
riferimento alle violazioni delle disposizioni
legislative in materia doganale, dall’art. 296 del
relativo testo unico approvato con d.p.r. 23 gennaio
1973, n. 43 (vedi infra, § 3.4); in relazione alle
infrazioni della normativa sul monopolio dei sali e dei
tabacchi, dagli artt. 82 l. 17 luglio 1942, n. 907 e 7
l. 3 gennaio 1951, n. 27. Abbiamo poi la c.d. “recidiva
militare”, appellativo col quale viene identificata
l’ipotesi contemplata dal codice penale militare di pace
(r.d. 20 febbraio 1941, n. 303), che all’art. 57
disciplina la recidiva facoltativa fra reati comuni e
reati esclusivamente militari, una fattispecie della cui
valenza nell’attuale sistema normativo si disserterà più
avanti (vedi nota 19). Oltre a queste due fattispecie,
il sottoinsieme della recidiva penale “speciale”
ricomprende molti altri elementi. Alcuni contemplati dal
codice penale (art. 517 bis, comma 2; art. 544 sexies;
art. 639, comma 3); altri da disposizioni normative più
o meno risalenti nel tempo, buona parte delle quali ha
resistito sia alle varie depenalizzazioni che a tutte le
fasi dell’articolato procedimento “taglia-leggi”
realizzato negli ultimi anni[7].
Nella totalità di questi casi, in
cui il soggetto varca ripetutamente la soglia penale, il
legislatore parla sempre e unicamente di “recidiva”[8].
Navigando, invece, nell’orbita extrapenale, ci
accorgiamo che la perseveranza nell’illecito non
mantiene sempre la stessa denominazione. Si parla,
infatti, di “recidiva”, exempli causa, nel codice della
navigazione (art. 1218 bis r.d. 30 marzo 1942, n. 327),
nel codice della strada (cfr., verbi gratia, gli artt.
82, comma 10, e 143, comma 12, d.lgs. 30 aprile 1992, n.
285), nel codice delle assicurazioni private (art. 329,
comma 1, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209), nel codice del
consumo (artt. 62, comma 2, e 67 septies decies, comma
2, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206)[9], nel codice
dell’ambiente (artt. 279, comma 7, e 296, comma 5,
d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152), nel codice delle pari
opportunità tra uomo e donna (art. 41, comma 1, d.lgs.
11 aprile 2006, 198), nel codice dell’ordinamento
militare (cfr., exempli gratia, artt. 1359, comma 4, e
2106, comma 2, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66), nel testo
unico di pubblica sicurezza (art. 31 bis, comma 3, r.d.
18 giugno 1931, n. 773), nel testo unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria
(art. 196, comma 1, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58),
nella disciplina del commercio (artt. 22, comma 2, e 29,
comma 3, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114[10]; art. 57
r.d.l. 15 ottobre 1925, n. 2033[11]) e in numerosi
c.c.n.l.[12]. In molte altre disposizioni, invece, il
legislatore sembra voler prendere le distanze dal
lemmario penalistico; utilizza, infatti, il termine
“reiterazione” in modo da abbinare questo all’illecito
amministrativo e quello di “recidiva” esclusivamente al
reato. Emblematica di questa tendenza, che, sulla scorta
della normativa extrapenale sinora passata in rassegna,
possiamo tuttavia definire ondivaga, è la già citata
legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema
penale), la quale, nel dettare i principî generali in
tema di sanzioni amministrative (artt. 1 – 12 l. cit.),
disciplina in modo particolareggiato la c.d.
“reiterazione delle violazioni” (art. 8 bis l.
cit.)[13]. La stessa terminologia, a volte senza il
complemento di specificazione, è presente in tanti altri
corpi normativi come il codice delle assicurazioni
private (artt. 327, comma 1, e 330, comma 2, cit. d.lgs.
n. 209/05), il codice delle comunicazioni elettroniche
(artt. 32, comma 2, e 98, comma 7, d.lgs. 1 agosto 2003,
n. 259), il codice della strada (cfr., exempli causa,
gli artt. 7, comma 13 bis, e 80, comma 14, cit. d.lgs.
n. 285/92), il testo unico in materia di tutela della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (art. 14,
comma 1, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81), il testo unico
sul pubblico impiego (artt. 55 quater, comma 1, e 55
septies, comma 4, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), il
testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (art. 110,
commi 9, 10 e 11, cit. d.lgs. n. 773/31), la disciplina
della responsabilità “amministrativa” delle persone
giuridiche (artt. 13, comma 1, e 20 d.lgs. 8 giugno
2001, n. 231) e numerose ulteriori disposizioni
concernenti illeciti amministrativi[14].
Concludendo questa rapida
divagazione all’esterno dell’alveo penale, possiamo
affermare che l’impiego del termine “reiterazione” o del
lemma “recidiva” non è legato al tempo, poiché abbiamo
potuto constatare che entrambi i vocaboli compaiono
tanto nella normativa recente quanto in quella
risalente. Per onere di completezza va, inoltre,
segnalata la presenza di fattispecie in cui l’artefice
delle leggi si astiene dal prendere una posizione
lessicale, per cui, senza parlare di “recidiva” o di
“reiterazione”, si “limita” a stabilire specifiche
conseguenze sanzionatorie nei confronti di colui che
infrange la legge ripetutamente[15].
3. La recidiva nel codice penale:
come si è arrivati all’attuale disciplina della
recidiva.
Il legislatore penale disciplina
l’istituto in esame all’art. 99 c.p., annoverandolo tra
le circostanze aggravanti soggettive, in particolare tra
quelle inerenti alla persona del colpevole[16]. Parte
della dottrina reputa che l’aumento di pena connesso a
quest’elemento circostanziale svolga precipuamente una
funzione di prevenzione speciale, essendo pertanto
deputato ad impedire che l’autore del reato, il quale
con la sua persistente volontà criminale ha palesato una
notevole inclinazione al delitto, in futuro torni a
delinquere[17]. Secondo altra scienza penalistica la
funzione svolta sarebbe, per contro, quella retributiva
o satisfattoria; la sanzione più incisiva servirebbe,
quindi, a vicariare il male maggiore arrecato dal
recidivo alla società (il c.d. “maggior grado di
colpevolezza per il singolo, concreto e specifico fatto
commesso”), in modo da appagare il sentimento pubblico,
il bisogno emotivo di punizione che sorge in ciascun
consociato di fronte a tale condotta[18].
La disciplina di questa figura
giuridica è stata più volte ridisegnata. Nel testo
originario del codice “Rocco” la recidiva era una
circostanza prevalentemente obbligatoria, per cui nella
maggioranza dei casi il giudice doveva
imprescindibilmente tenerne conto ai fini della
determinazione della gravità del reato e della relativa
commisurazione della pena. Facevano eccezione alla
regola generale le ipotesi previste dall’abrogato art.
100 c.p., il quale era, in effetti, rubricato recidiva
facoltativa. Tale disposizione prevedeva che il giudice
potesse escludere la recidiva tra delitti e
contravvenzioni, o tra delitti dolosi o
preterintenzionali e colposi, o tra contravvenzioni, a
patto che non si fosse trattato di recidiva “specifica”
(vedi ultra, nota 36)[19]. Nel 1974 l’istituto fu
oggetto di una riforma mitigativa[20] che, nel renderlo
più indulgente sotto il profilo sanzionatorio, lo
trasformò anche in una circostanza esclusivamente
facoltativa (o discrezionale). In tal modo la
reiterazione criminosa divenne un elemento accidentale
che, pur essendo ravvisabile nella situazione concreta,
poteva, a seconda della valutazione del giudice,
incidere o meno sull’entità della sanzione da irrogare
(come accade, per intenderci, per l’applicazione delle
circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis
c.p.). Un’opzione di politica criminale, questa, che non
andò esente da critiche ad opera di diversi studiosi, i
quali lamentarono una smisurata dilatazione del potere
discrezionale del giudice, a loro dire, totalmente
svincolato da canoni-guida, che il legislatore aveva
omesso di indicare[21].
Dopo oltre trenta anni in cui è
stata la nomofiliachia della Corte regolatrice ad
individuare gli uniformi e costanti parametri di
riferimento per l’apprezzamento giudiziale, la materia
de qua ha subìto un’altra rivisitazione. Nel 2005,
infatti, la c.d. legge “ex Cirielli” ha ridefinito la
disciplina della recidiva, dando l’impressione, almeno
prima facie, di voler aderire, con un tempismo non
proprio esemplare, alle ricordate censure di coloro che
non ne avevano condiviso l’impronta integralmente
facoltativa. La legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche
al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in
materia di attenuanti generiche, di recidiva, di
giudizio di comparazione delle circostanze di reato per
i recidivi, di usura e di prescrizione), meglio
conosciuta con l’appellativo poc’anzi richiamato alla
memoria[22], ha modificato in modo sensibile la
previgente regolamentazione dell’istituto, imboccando
una direzione diametralmente opposta rispetto alla
precedente azione riformatrice. Intervenendo su più
punti della legislazione penale, questa novella ha
cercato di creare un vero e proprio regime giuridico
differenziato per il “pregiudicato”, molto più affittivo
di quello previsto per il reo primario. Per effetto di
quest’azione legislativa, improntata ad una logica
fortemente stigmatizzante, la tradizionale tripartizione
“tassonomica” della recidiva in “semplice”, “aggravata”
e “reiterata” è rimasta in sostanza immutata, ma gli
aumenti di pena connessi a queste diverse figure sono
divenuti più significativi e quasi sempre fissi
(eliminando, pertanto, sotto l’aspetto del quantum quasi
integralmente la discrezionalità del giudice)[23]; è
riapparsa nuovamente la versione obbligatoria
dell’istituto (anche se, come vedremo tra breve, si è
trattato di un ritorno meno pregnante di quanto
ipotizzato in prima battuta da parte di alcuni);
postremo, sempre nell’ottica di una maggiore
afflittività della recidiva, vi è stata
un’intensificazione di quelle che, più o meno
correttamente, possiamo definire le “conseguenze
giuridiche minori”. Sotto quest’ultimo aspetto, alle
ripercussioni già esistenti in rapporto all’amnistia
(art. 151, comma 5, c.p.), all’indulto (art. 174, comma
3, c.p.), alla sospensione condizionale della pena
(artt. 164, comma 2, n. 1, e 168, comma 1, c.p.), alla
“prescrizione” della pena (artt. 172, ultimo comma, e
173, comma 1, c.p.), al perdono giudiziale (art. 169,
comma 3, c.p.), alla riabilitazione (art. 179, comma 2,
c.p.), alla liberazione condizionale (art. 176, comma 2,
c.p.), all’oblazione speciale (art. 162 bis, comma 3,
c.p.), alla sostituzione della pena detentiva (art. 59,
commi 1 e 2, l. 24 novembre 1981, n. 681), alle sanzioni
irrogabili dal giudice di pace (art. 52, comma 3, cit.
d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274), all’applicazione della
pena su richiesta delle parti (art. 444, comma 1 bis,
c.p.p.)[24], si sono aggiunti ulteriori “effetti
commisurativi della sanzione” (o “effetti minori”) in
materia di circostanze attenuanti generiche (art. 62
bis, comma 2, c.p.)[25], di giudizio di bilanciamento
delle circostanze (art. 69, comma 4, c.p.), di concorso
formale di reati e reato continuato (art. 81, comma 4,
c.p.), di prescrizione del reato (artt. 157, comma 2, e
161, comma 2, c.p.) e di misure alternative alla
detenzione, permessi premio e sospensione automatica
dell’ordine di esecuzione della pena detentiva [art. 30
quater l. 26 luglio 1975 n. 354[26]; art. 47 ter, commi
01, 1.1 e 1 bis, l. cit.; art. 50 bis l. cit.; art. 58
quater, comma 7 bis, l. cit.; art. 94 bis d.p.r. 9
ottobre 1990, n. 309[27]; art. 656, comma 9, lett. c),
c.p.p.][28]. In controtendenza, quasi per temperare
l’irrigidimento testé descritto, è stato ridotto il
campo di applicazione della recidiva, confinando i
cc.dd. “reati-presupposto” ai soli delitti non
colposi[29]. Questo modello di diritto penale
diversificato e non uniforme, che, a parità di condotta
antigiuridica, contempla per l’autore recidivo una
risposta punitiva molto più severa di quella prevista
per l’ “incensurato”, è stato tacciato di supervalutare
le circostanze soggettive, finendo per graduare la
sanzione non in relazione alla gravità oggettiva dei
reati, bensì alla personalità e alle qualità del
soggetto attivo. Si è sostenuto che in tal modo si
finisce per irrogare una pena non direttamente
proporzionale alla concreta offensività del fatto
commesso, compromettendone la funzione rieducativa, la
cui effettività dipende, appunto, da quella percezione
di ragionevolezza e gradualità della sanzione da parte
del condannato. Al tempo stesso è stato affermato che
questo doppio binario per il recidivo ed il reo
primario, imperniato prevalentemente su condotte
delittuose diverse da quella oggetto del giudizio e,
quindi, fondato essenzialmente sul “tipo d’autore” del
reato, vìola il divieto di discriminazione sancito
dall’art. 14 della Convenzione [europea, Ndr] per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali. Su queste basi ne è stata denunciata
l’illegittimità costituzionale per “norma interposta”,
rappresentata dall’art. 117, comma 1, Cost., in base al
quale la potestà legislativa deve essere esercitata nel
rispetto, oltre che della Carta Costituzionale, dei
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali.
Tra le varie doglianze è stata
lamentata anche un’enfatizzazione dei precedenti penali,
sottolineando come in tale congiuntura essi abbiano una
duplice rilevanza, sospetta sotto il profilo del ne bis
in idem sostanziale, venendo in gioco ai fini non solo
della “dosimetria” della pena-base (ex art. 133, comma
2, n. 2, c.p.), ma anche dell’applicazione della
circostanza aggravante della recidiva e di tutti i
molteplici effetti ulteriori ad essa connessi[30].
Tutte queste censure sembrano aver
gradualmente influenzato il legislatore nelle sue scelte
di politica criminale. È, infatti, curioso rilevare come
negli ultimi tempi questa tendenza legislativa di
“demonizzazione” del recidivo sembra aver subìto una
battuta d’arresto. Il provvedimento che vellica questa
considerazione è, in particolare, la l. 26 novembre
2010, n. 199 (Disposizioni relative all’esecuzione
presso il domicilio delle pene detentive non superiori
ad un anno), meglio conosciuta come legge
“svuota-carceri” o legge “ponte”, con cui il Parlamento
ha tentato di contenere l’incalzante fenomeno del
sovraffollamento penitenziario. L’atto in questione
dispone che fino alla completa attuazione del piano
straordinario di edilizia carceraria, nonché in attesa
della riforma della disciplina delle misure alternative
alla detenzione e, comunque, non oltre il 31 dicembre
2013 (da qui l’appellativo di “legge ponte”), la pena
detentiva non superiore ai dodici mesi, anche se
costituente parte residua di maggior pena, può essere
eseguita presso l’abitazione del condannato o in altro
luogo pubblico o privato di cura, assistenza e
accoglienza. Tale trasformazione dell’ultimo anno di
pena detentiva non è automatica, in quanto la
valutazione compete al magistrato di sorveglianza, il
quale deve accertare l’insussistenza delle cause di
inammissibilità indicate all’art. 1, comma 2, del
medesimo provvedimento. Proprio riguardo a queste ultime
è stata rilevata un’evidente frizione con il regime
introdotto dalla legge n. 205/05. Tra le varie categorie
dei non ammessi a questo beneficio non compare, in
effetti, nessuna delle tipologie di recidivo, nemmeno
quello “reiterato”[31], che, come abbiamo avuto modo di
vedere, è destinatario di buona parte di quei cc.dd.
“effetti commisurativi della sanzione”, il cui novero è
stato significativamente ampliato dalla legge “ex
Cirielli”. In base agli inasprimenti introdotti nel 2005
il condannato a cui sia stata applicata la recidiva
“reiterata” non può beneficiare né della sospensione
dell’esecuzione prevista dall’art. 656, comma 5, c.p.p.
per le pene non superiori a tre anni [art. 656, comma 9,
lett. c)], né della detenzione domiciliare nei casi
previsti dall’art. 47 ter, commi 01[32], 1.1. e 1 bis,
l. n. 354/75, né della concessione per più di una volta
dell’affidamento in prova ai servizi sociali di cui
all’art. 47 l. n. 354/75, della detenzione domiciliare
e della semilibertà (art. 58 quater, comma 7 bis, l. n.
354/75). Alla luce, invece, della nuova legge, purché
ricorrano le condizioni oggettive e soggettive che essa
impone, nei confronti del recidivo reiterato può essere
disposta la sospensione dell’esecuzione della pena non
superiore ad un anno e la conseguente fruizione
domiciliare, la quale potrà esser concessa anche più
volte in caso di successive carcerazioni, in quanto il
comma 8 dell’art. 1 esclude l’applicabilità dell’art. 58
quater, comma 7 bis, l. n. 354/75[33].
3.1. L’esegesi delle modifiche
introdotte dalla legge “ex Cirielli”.
Il nuovo testo dell’art. 99 c.p.,
sin dalla sua “apparizione”, si è rivelato
particolarmente impegnativo sotto il profilo
ermeneutico. All’atto della sua entrata in vigore, le
schermaglie interpretative, che si sono illico et
immediate generate tanto in dottrina quanto in
giurisprudenza, hanno riguardato la sua vis innovativa.
Per dipanare questa matassa e confutare, soprattutto, la
tèsi di coloro che vedevano nella riforma de qua una
sòrta di restitutio in integrum dell’originaria recidiva
a carattere prevalentemente obbligatorio, si è reso
necessario l’intervento della Corte Costituzionale, la
quale, ad onor del vero, è stata chiamata a scrutinare
anche altre disposizioni della legge “ex Cirielli”, non
modificative della norma codiciale di cui si
discetta[34].
Le ipotesi sulle quali vi è stata
da sùbito un’uniformità di vedute sono state quelle
previste dai primi due commi dell’art. 99 c.p., i quali
disciplinano rispettivamente la recidiva “semplice”[35]
e quella “monoaggravata”[36]. L’utilizzo da parte del
legislatore in entrambi i casi della voce verbale “può”
ha fugato sul nascere qualsiasi dubbio circa la
persistente facoltatività delle due figure, la cui
applicazione, quindi, come per il passato più recente
(dal 1974), è rimasta condizionata dalla valutazione
discrezionale del giudice. Il sincronismo esegetico
sulla non obbligatorietà di queste due tipologie di
recidiva non le ha, tuttavia, integralmente affrancate
da problematiche applicative. In particolare, si è
immediatamente generata una spaccatura tra coloro che
ritenevano che l’aumento minimo di pena previsto per la
fattispecie “monoaggravata” fosse di un solo giorno[37]
e quelli che, invece, reputavano che la soglia
incrementale di partenza fosse di un terzo della pena da
infliggere[38]. Questo perché se da un lato la
formulazione del secondo comma appare piuttosto chiara
riguardo all’aggravio edittale, dall’altro la pedissequa
osservanza della littera legis può condurre a delle
lampanti incongruenze. L’aumento di pena “fino alla
metà” sancito da questo capoverso lascerebbe, infatti,
intendere che l’incremento minimo contemplato per la
recidiva “aggravata” sia di un giorno. Una simile
lettura si rivela, però, incoerente, se si tiene conto
che per l’ipotesi meno grave della recidiva “semplice” è
previsto un accrescimento sanzionatorio fisso di un
terzo, al di sotto del quale il giudice (che reputi di
dover applicare l’aggravante de qua) non può scendere.
Per scongiurare che a reiterazioni delittuose più
significative di quella basica possano essere associati
degli aumenti di pena meno consistenti ed assicurare,
quindi, che la proporzionalità della sanzione venga
rispettata anche da questo punto di vista, è necessario
interpretare sistematicamente i primi due commi
dell’art. 99 c.p. L’utilizzo di questa chiave esegetica
permette agevolmente di argomentare che, essendo la
seconda una figura non pienamente autonoma dalla prima,
bensì speciale ed aggravata rispetto ad essa, il
corrispondente incremento deve spaziare da un terzo alla
metà[39].
Seguendo l’itinerario codicistico,
possiamo dire che le perplessità sono iniziate con il
testo del secondo capoverso, dove per disciplinare la
c.d. recidiva “pluriaggravata”[40], in luogo della terza
persona singolare dell’indicativo presente del verbo
“potere”, è stata impiegata quella del verbo “essere”.
Esitazioni che hanno riguardato anche l’alinea seguente,
nel quale è stato utilizzato lo stesso espediente
linguistico per regolamentare la c.d. recidiva
“reiterata”[41]. Sia in àmbito dottrinario che
giurisprudenziale, questa soluzione lessicale è stata da
molti inizialmente tradotta con l’intenzione del
legislatore di rendere obbligatorie le due figure di
recidiva[42]. Laddove quest’opzione di lettura si fosse
radicata, gli effetti conseguenti sarebbero stati di non
poco momento. Per rendersene conto basta soffermarsi su
quanto abbiamo accennato in precedenza a proposito del
fatto che con la riforma del 2005 non solo sono stati
inaspriti gli aumenti di pena collegati alla recidiva,
ma sono anche cresciute le conseguenze ulteriormente
repressive riconnesse alla sua applicazione. Tra queste
misure afflittive, che, come abbiamo avuto modo di
vedere, hanno interessato (non solo) diversi istituti
penalistici, va ricordata la “rimodulazione” del
giudizio di comparazione tra le circostanze, realizzata
mediante l’interpolazione di un ulteriore capoverso a
chiusura dell’art. 69 c.p. Analogamente a quanto
accaduto per l’art. 99 c.p., si è intervenuti su una
disposizione normativa, che nel 1974 è stata anch’essa
modificata col fine di ampliare il potere discrezionale
del giudice[43]. Probabilmente, proprio con l’intento di
contrarre la discrezionalità clemenziale dell’organo
giudicante e di vincolarlo ad un maggior rigore
repressivo nei confronti di colui che ricade più volte
nel reato, il nuovo comma ha introdotto il divieto di
prevalenza delle circostanze attenuanti sulla
circostanza aggravante rappresentata dalla recidiva
“reiterata” di cui all’art. 99, comma 4, c.p., facendo,
pertanto, salva solo la possibilità di equivalenza tra i
due accidentalia delicti di segno opposto[44].
Il divieto di “subvalenza” della
recidiva “reiterata” è stato da sùbito giudicato, da
parte di studiosi e “pratici” del diritto, come
preclusivo di un adeguamento della pena al caso
concreto[45] e, in quanto tale, non conforme sia ai
principî di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3
Cost.), che a quelli di personalità della responsabilità
penale, di individualizzazione del trattamento punitivo
(proporzionalità della pena) e di rieducazione del
condannato (art. 27, commi 1 e 3, Cost.)[46]. Si è,
infatti, sostenuto che nei casi in cui ricorresse
l’elemento discriminante rappresentato dalla recidiva
“reiterata” si generava un “appiattimento” del
trattamento sanzionatorio, in base al quale si finiva
per punire allo stesso modo situazioni ben diverse e in
modo differente fattispecie analoghe[47], irrogando,
quindi, pene sproporzionate e, di conseguenza, poco
risocializzanti.
Queste critiche, in parte
promananti anche dai fautori della perdurante
facoltatività della recidiva “reiterata” di cui all’art.
99, comma 4, c.p., hanno assunto toni parossistici da
parte di coloro i quali asserivano, invece, che, con la
nuova formulazione letterale del capoverso, essa fosse
divenuta una circostanza obbligatoria. Aderendo a questa
soluzione, infatti, non solo l’applicabilità e l’entità
dell’aumento di pena (entrambi gli incrementi
contemplati dall’alinea in argomento non sono
caratterizzati da una forbice edittale), ma anche tutti
gli altri effetti penali connessi a questa figura (tra
cui il predetto divieto contenuto nell’art. 69 c.p.,
che, come abbiamo visto, era stato già tacciato di
incostituzionalità anche facendo astrazione da
quest’ultimo aspetto) venivano sottratti alla
discrezionalità del giudice, il quale era tenuto ad
applicarli in modo “notarile”, indipendentemente, cioè,
da qualsiasi sua valutazione. Ritenendo corretta
quest’interpretazione del terzo capoverso dell’art. 99
c.p., si finiva per intaccare non solo i cardini
costituzionali poc’anzi richiamati, ma anche il c.d.
“principio di materialità” o “diritto penale del fatto”
(cogitatione poenam nemo patitur), desumibile dall’art.
25, comma 2, Cost., in base al quale non si può esser
puniti né per un mero atteggiamento interiore (c.d.
“diritto penale della volontà”), né per la sola
attribuzione di un determinato status (c.d. “diritto
penale dell’autore”)[48]. Questo perché con
l’applicazione “automatica” della recidiva “reiterata”
si veniva a creare una specie di presunzione assoluta di
pericolosità sociale, prescindente sia dalla natura e
dalla gravità dei delitti commessi in precedenza
(quindi, anche dall’eventuale “stessa indole” dei
reati), che dal tempo intercorso rispetto alle condanne
anteriori e dall’entità delle pene con esse irrogate.
Gli aderenti a questa visione
denunciavano anche una strumentalizzazione del singolo
delinquente per fini generali di politica criminale, in
quanto, secondo loro, la ratio legis censurata era
quella, anacronistica rispetto alla moderna civiltà di
diritto, di infliggere condanne esemplari sotto il
profilo afflittivo in modo da provocare nei potenziali
rei il terrore di poter incorrere in una rigorosissima
sanzione (“colpirne uno per educarne cento”). A giudizio
di costoro, un simile disegno, oltre a non rafforzare la
coscienza giuridica dei consociati (potendo questi
meccanismi esasperati di prevenzione generale rivelarsi
in qualche caso finanche criminogeni), risultava
lapalissianamente confliggente con il principio “di
necessaria offensività” del reato che, deducibile
anch’esso dal primo capoverso dell’art. 25 Cost.,
presuppone che la pena inflitta in concreto sia
calibrata sull’effettiva lesività della condotta[49].
Questo dubbio sulla
costituzionalità della norma ricavabile
dall’interpretazione sistematica degli artt. 69, comma 4
e 99, comma 4, c.p. era, in effetti, venuto a molti
giudici, tant’è vero che la Corte Costituzionale in più
occasioni si trovava a vagliare congiuntamente un
cospicuo numero di ordinanze di rimessione, provenienti,
oltre che da corti d’appello e tribunali dislocati
sull’intera penisola, perfino dal Giudice
nomofilattico[50]. La Consulta, nel primo dei diversi
interventi riguardanti il combinato disposto in
argomento[51], si pronunciava sulla questione con una
sentenza di inammissibilità, con cui preservava il testo
legislativo “incriminato”, desumendo da esso una norma
diversa da quella dedotta dai giudici a quibus, la
quale, a differenza dell’altra, era immune da tutte
quelle patologie costituzionali denunciate[52].
La sentenza alla quale ci riferiamo
è la n. 192 del 14 giugno 2007[53], con cui il Giudice
delle leggi evidenziava come la violazione dei ricordati
principî costituzionali, segnalata dai diversi
“portieri”[54] (erano ben quindici le ordinanze di
rimessione prese in esame in questo solo giudizio),
fosse il risultato di una loro “non corretta”
interpretazione dell’art. 99, comma 4, c.p., a cui
l’art. 69, ultimo comma, c.p. rinvia[55]. La Corte, in
particolare, elucidava che l’utilizzo, nei commi 3 e 4
dell’art. 99 c.p., della voce verbale “è” in luogo del
“può”, presente nel testo previgente e nei nuovi commi 1
e 2, non rispondeva alla mens legis di rendere
obbligatorie le ipotesi di recidiva “qualificata”[56]
ivi disciplinate, ma alla ratio di imporre al giudice un
aumento di pena fisso, laddove avesse discrezionalmente
ritenuto di doverle applicare. In sostanza, secondo
questa chiave di lettura “costituzionalmente orientata”,
la recidiva “pluriaggravata” e quella “reiterata”
rimanevano facoltative, come lo erano in precedenza[57].
La novità rispetto al passato risiedeva negli aumenti di
pena per esse previsti, non più caratterizzati dallo
Spielraum edittale (come, per contro, avveniva ancóra
per la sola recidiva “monoaggravata”), bensì rigidamente
fissati dal legislatore. La discrezionalità giudiziale
riguardo a questi due casi di recidiva era ora confinata
all’an, non potendo più incidere sul quantum
penitenziale.
Tra le varie argomentazioni poste a
fortilizio della propria tèsi, la Corte invocava la
littera legis di un’altra disposizione, essenziale per
l’economia interpretativa dei due capoversi in
discussione. Il riferimento era al successivo comma 5,
il quale, a differenza dei due alinea precedenti,
prevede apertis verbis che in determinate situazioni
“l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio”. È
chiaro che la Consulta, implicitamente, richiamava quel
principio contenuto nell’art. 14 delle “preleggi”,
sintetizzato dal brocardo ubi lex voluit dixit, ubi
noluit tacuit. A mente di tale indirizzo, quindi, le
fattispecie contemplate nei primi tre capoversi
dell’art. 99 c.p., in cui il legislatore “tace”, erano
da ritenersi omogenee, sotto il profilo della
facoltatività, a quella espressamente disciplinata come
figura discrezionale dal primo comma, collocata in
rapporto di genus a species rispetto ad esse. Non
appena, invece, l’intenzione del legislatore fosse
quella di creare una soluzione di continuità rispetto ai
commi precedenti e di invertire, quindi, il principio
applicativo della recidiva, rendendola obbligatoria,
tale mutamento veniva apertamente segnalato (come
abbiamo visto accadere, citando il testo del comma 5).
Appare evidente che se l’analisi
dell’art. 69, comma 4, c.p. avviene attraverso
quest’eminente filtro, muta sostanzialmente aspetto.
Laddove, infatti, muoviamo dal presupposto che la
recidiva “reiterata” sia rimasta una circostanza
facoltativa anche dopo l’avvento della legge “ex
Cirielli”, per cui il giudice non è obbligato ad
applicarla, assume una diversa portata anche la
preclusione afferente al giudizio di bilanciamento,
contenuta nel capoverso in argomento. Viene meno quella
presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale,
sottesa al denunciato automatismo sanzionatorio che si
avrebbe, considerando come obbligatori la recidiva
“reiterata” e tutti i suoi effetti, tra cui il suddetto
limite al giudizio di comparazione. In quest’ottica, il
giudice incontrerà il divieto di prevalenza delle
circostanze attenuanti solo nel caso in cui ritenga di
dover applicare l’incremento di pena previsto per la
recidiva “reiterata”. Nell’ipotesi antitetica in cui non
reputi opportuno tale aumento, le circostanze attenuanti
saranno applicabili senza imbattersi nella limitazione
de qua.
Per mero tuziorismo, va rimembrato
che, analogamente a quanto accade per tutte le altre
circostanze aggravanti facoltative, anche l’applicazione
di quella contenuta nell’art. 99, comma 4, c.p.
(rectius, di quelle previste nei primi quattro commi
della disposizione anzidetta) non è rimessa al mero
arbitrio indulgenziale del giudice. Costui,
nell’adottare tale decisione, terrà conto di una serie
di indicatori prodromici della “significatività” del
nuovo delitto sotto gli aspetti della “più accentuata
colpevolezza” e della “maggiore pericolosità” del reo.
Egli, pertanto, non si limiterà alla mera anamnesi
penalistica desunta dal certificato del casellario
giudiziale. Dopo aver verificato l’esistenza del c.d.
“presupposto formale” rappresentato dalle precedenti
condanne (o dalla precedente condanna, a seconda del
tipo di recidiva), accerterà la sussistenza del c.d.
“presupposto sostanziale”. Valuterà, cioè, la natura
degli episodi criminosi anteriori e il tempo a cui
risalgono le relative condanne, per rendersi conto del
margine di offensività delle condotte, del tipo di
devianza che esprimono, della distanza temporale che le
caratterizza e del grado di omogeneità esistente sia tra
loro che rispetto al comportamento sub iudice. Come nei
molti altri casi in cui è chiamato ad effettuare una
valutazione discrezionale, imprescindibile parametro di
giudizio saranno anche gli indici di commisurazione
della pena di cui all’art. 133 c.p. (conosciuti pure con
l’appellativo di “circostanze improprie”)[58]. In
sintesi, possiamo dire che se il giudice, sulla scorta
dell’articolata analisi appena esposta, reputerà che la
ricaduta nel reato sia espressione di “insensibilità
etica ed attitudine a delinquere”, tale da meritare una
sanzione più severa, applicherà il previsto aumento di
pena e tutti gli altri effetti connessi, fornendo
un’adeguata motivazione[59]; se, all’incontro, in
considerazione dei motivi contingenti che hanno
determinato il nuovo delitto, della sua eterogeneità
rispetto ai precedenti o del lungo intervallo di tempo
trascorso rispetto ad essi, riterrà che la reiterazione
sia meramente occasionale e tale da non meritare un
inasprimento del trattamento sanzionatorio, non
applicherà l’incremento di pena, motivando
puntualmente[60]. In riferimento a quest’ultima
situazione, corre, però, l’obbligo di segnalare un altro
dilemma esegetico per niente trascurabile sotto il
profilo effettuale. Il dubbio riguarda la sòrte di tutti
quegli altri effetti, che sopra abbiamo definito
“commisurativi della sanzione” o “minori”, nel caso,
appena esaminato, in cui l’organo giudicante abbia
ritenuto opportuno non irrogare l’aggravio penale
previsto.
3.2. La recidiva “bifasica”.
La Corte Costituzionale con la
ricordata sentenza n. 192/07 ha risolto il dubbio
pertinente all’obbligatorietà o meno della recidiva
“reiterata” di cui all’art. 99, comma 4, c.p. Lo stesso
orientamento contenuto in questa pronuncia è stato
ribadito in una serie di ordinanze di manifesta
inammissibilità, che la Consulta ha emesso
successivamente in risposta sempre a questioni di
legittimità costituzionale pertinenti agli artt. 69,
comma 4, e 99, comma 4, c.p.[61]. In realtà, nel corpo
di queste diverse decisioni il Giudice delle leggi si è
occupato anche di altre problematiche ermeneutiche
relative all’istituto in discussione.
Prima tra queste, è proprio quella
concernente il regime di applicabilità delle conseguenze
diverse dall’aumento di pena riconnesse alla recidiva.
Si tratta di un tema che, già prima delle modifiche
introdotte dalla legge “ex Cirielli”, era stato oggetto
di una distonia esegetica[62]. Questo strabismo
ermeneutico è divenuto ancor più “patologico” quando,
con la riforma del 2005, gli effetti “commisurativi
della sanzione” sono aumentati. L’indirizzo dominante
nella giurisprudenza di legittimità anteriormente a tale
novellazione sosteneva che la facoltatività della
recidiva riguardasse esclusivamente l’aumento di pena e
non anche gli altri effetti penali da essa scaturenti,
rispetto ai quali il giudice era (sempre e comunque)
vincolato a ritenere esistente la circostanza e,
pertanto, ad applicarli. A questa chiave di lettura si
opponeva gran parte della dottrina, secondo cui, invece,
la non obbligatorietà caratterizzava tanto l’incremento
sanzionatorio quanto le altre conseguenze “minori”. Una
volta intervenuta la revisione legislativa, queste due
antitetiche linee interpretative hanno mostrato i loro
più intensi punti di frizione soprattutto riguardo ai
nuovi effetti “secondari” collegati alla recidiva
“reiterata” di cui all’art. 99, comma 4, c.p.
In merito a quest’argomento la
Consulta[63] rilevava innanzitutto che, all’interno di
quella parte della giurisprudenza che correttamente
qualificava come facoltativa la recidiva “reiterata” di
cui al prefato comma, vi era un cospicuo numero di
giudici propendenti per la c.d. facoltatività “parziale”
o “bifasica”. Costoro, aderendo a quell’indirizzo un
tempo dominante in seno alla Corte regolatrice, passato
velut umbrae lunaticae dopo l’entrata in vigore della
legge “ex Cirielli”, reputavano che ad esser
discrezionale fosse solo l’aumento di pena e non anche
gli ulteriori effetti “minori” connessi alla
reiterazione. In particolare, tra le diverse conseguenze
discendenti dalla recidiva “reiterata”, le numerose
pronunce favorevoli a quest’indirizzo, noto anche come
“concezione bifasica della discrezionalità”, avevano
considerato il divieto di prevalenza delle circostanze
attenuanti del giudizio di bilanciamento, il limite
minimo di aumento della pena previsto per il concorso
formale e la continuazione, e l’interdizione al
“patteggiamento allargato”[64]. Nell’analizzare le
singole vicende relative ad uno o più dei predetti
effetti “commisurativi”, queste decisioni avevano
affermato che il giudice, una volta accertata la
corretta contestazione della recidiva da parte del
pubblico ministero[65], era vincolato ad applicarla. La
sua discrezionalità perteneva esclusivamente
all’applicabilità o meno dell’incremento di pena, mentre
tutte le altre conseguenze penali stabilite per la
recidiva “reiterata”, fossero esse di natura
sostanziale, processuale o penitenziaria, erano operanti
non appena avesse appurato la regolare contestazione
della circostanza aggravante de qua. L’ubi consistam di
quest’interpretazione veniva individuato dai suoi
sostenitori segnatamente nel tenore letterale di quel
quarto comma dell’art. 69 c.p. che, nel fissare il
divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti per
il recidivo reiterato, parla di “ritenute circostanze
aggravanti”. Proprio l’impiego di questa formula
lasciava, a loro parere, intendere che, per il prodursi
del divieto in esame e di tutti gli altri effetti
“secondari” collegati alla recidiva “reiterata”, bastava
che il giudice reputasse corretta la contestazione di
questa tipologia di recidiva. In tale prospettiva,
l’esistenza di un certificato del casellario giudiziale
caratterizzato da precedenti penali reiterati
configurava simultaneamente una circostanza aggravante
facoltativa ed una sòrta di status soggettivo del reo,
con la conseguenza che il giudice poteva escludere la
prima, ma non le indefettibili ripercussioni connesse al
secondo.
La Corte Costituzionale, nelle
evocate sentenze, respingeva quest’indirizzo, rilevando
tra l’altro (in quelle più recenti) che, già a decorrere
dalla seconda metà del 2007, esso non era più quello
prevalente presso la Suprema Corte di Cassazione. La
Consulta sottolineava come le argomentazioni dedotte
sulla base di quell’espressione “anodina” contenuta
nell’ultimo capoverso dell’art. 69 c.p. fossero
illogiche, in quanto conducenti a soluzioni paradossali.
Il giudice, exempli causa, dopo aver appurato che la
recidiva “reiterata” era stata correttamente contestata,
poteva, nell’esercizio della sua discrezionalità,
orientata dai parametri che abbiamo indicato in
precedenza, valutare il nuovo episodio criminoso come
non prodromico di una maggiore colpevolezza e
pericolosità del reo e, pertanto non meritevole
dell’incremento di pena stabilito per questa circostanza
aggravante facoltativa. Tuttavia, a giudizio
dell’indirizzo censurato, egli si trovava a dover
infliggere una pena maggiore di quella che reputava
commisurata al caso concreto, in quanto le eventuali
circostanze attenuanti ritenute configurabili venivano
elise per effetto di quel divieto di prevalenza,
comunque operante. Una sanzione che risultava ancor più
sproporzionata rispetto alla fattispecie reale, se si
pensa a tutti gli altri effetti “commisurativi” che
obbligatoriamente venivano a prodursi, prescindendo
dall’opposta valutazione giudiziale circa la contenuta
colpevolezza e pericolosità del soggetto.
L’orientamento ratificato dalla
Corte Costituzionale e attualmente dominante presso il
Supremo Consesso rifugge dalla tèsi dinnanzi
tratteggiata[66]. Si ritiene oggi, in modo piuttosto
pacifico, che solo laddove il giudice, attraverso gli
“appositi filtri”, individui nella ricaduta delittuosa i
sintomi di una più inarcata colpevolezza e di una
maggiore pericolosità del reo, applica la circostanza
aggravante della recidiva con tutti i suoi effetti,
principale e secondari. Viceversa, qualora reputi la
reiterazione non significativa nei termini anzidetti,
rimarranno inoperanti, oltre all’aumento di pena, anche
tutte le altre conseguenze “commisurative della
sanzione”. Non basta, dunque, che la circostanza
aggravante de qua venga contestata dal pubblico
ministero, ma è necessario e doveroso da parte del
giudice che essa sia: “accertata” attraverso l’esame del
casellario giudiziale, e “ritenuta” ed “applicata” sulla
base della valutazione appena ricordata[67]. Questo vale
non solo per la recidiva “reiterata” di cui all’art. 99,
comma 4, c.p., a cui sono riconnessi buona parte degli
effetti “minori”, ma per tutte le ipotesi di recidiva
facoltativa[68].
3.3. La “dichiarazione” di recidivo
ai fini della recidiva “reiterata”.
È stato sin qui appurato come la
recidiva “qualificata” contemplata dal terzo capoverso
dell’art. 99 c.p. sia stata oggetto di due contrasti
interpretativi: uno pertinente alla sua facoltatività ed
un altro afferente agli effetti “secondari” ad essa
collegati. Proprio in relazione a tali effetti occorre
registrare un ulteriore conflitto ermeneutico, la cui
soluzione, relativamente recente, ha richiesto
l’intervento delle Sezioni Unite[69]. Tra le diverse
conseguenze che discendono dall’applicazione della
figura di recidiva richiamata abbiamo visto comparire la
preclusione sancita dall’art. 444, comma 1 bis, c.p.p.,
la quale è anteatta all’entrata in vigore la legge “ex
Cirielli”[70]. Stiamo parlando della disposizione che,
nell’individuare le tipologie di imputati a cui è
precluso il c.d. “patteggiamento allargato”, annovera
anche i recidivi reiterati di cui all’art. 99, comma 4,
c.p., ai quali non è, tuttavia, impedito il c.d.
“patteggiamento tradizionale”[71]. Ad esser precisi, la
norma, nel delineare questa causa di esclusione
soggettiva, parla di “coloro che sono stati dichiarati
delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o
recidivi ai sensi dell’art. 99, quarto comma, del codice
penale”. Analogamente a quanto rilevato per le
controversie interpretative sinora analizzate, anche in
questo caso i dubbi esegetici sono riferibili ad una
voce verbale utilizzata dal legislatore. Come constatato
per il contrasto ermeneutico relativo all’art. 69 c.p.,
appena esaminato, anche qui l’origine del “singolar
tenzone” risiede in un participio passato, ossia in quel
“dichiarati” presente nella disposizione processuale
invocata.
La Terza Sezione penale della
Cassazione, nel valutare la fondatezza di una questione
di diritto ad essa devoluta, rilevava l’esistenza di un
conflitto giurisprudenziale concernente proprio la forma
verbale poc’anzi considerata. Nel rimettere, ai sensi
dell’art. 618 c.p.p., il ricorso alle Sezioni Unite,
segnalava la presenza in seno al Supremo Collegio di un
antinomico modo di intendere quella “dichiarazione” di
recidivo reiterato, a cui la disposizione di rito fa
riferimento. In particolare, poneva in evidenza che,
mentre in alcune pronunce di legittimità per
l’esclusione dal patteggiamento “allargato” si era
ritenuto sufficiente che la recidiva “reiterata” fosse
stata semplicemente contestata[72], in altre non era
bastato che dal certificato penale emergesse una
situazione integrante tale tipo di recidiva
“qualificata” e si era reputato necessario che il
soggetto fosse stato già riconosciuto ed espressamente
dichiarato recidivo da un giudice con una sentenza
anteriore[73]. Le Sezioni Unite, lo scorso anno, nel
cribrare il problema, hanno asseverato l’inesistenza,
nell’àmbito della Corte regolatrice, della frattura
interprativa denunciata, effettuando nel contempo quello
che, in maniera atecnica, potremmo definire un
“aggiustamento del tiro”. In tale occasione hanno
innanzitutto sottolineato che l’indirizzo secondo cui
per la configurazione della recidiva “reiterata” di cui
all’art. 99, comma 4, c.p. sarebbe necessaria una
precedente sentenza attributiva dello status di recidivo
non è rinvenibile nella giurisprudenza di legittimità,
trovando riscontro solo in qualche pronuncia di merito
successivamente cassata. Nel ribadire, inoltre, che
l’ipotesi prevista dal terzo capoverso dell’art. 99
c.p., al pari delle altre fattispecie di recidiva
facoltativa, in quanto circostanza aggravante, per
produrre tutti i suoi effetti (principale e secondari)
deve essere “ritenuta” ed “applicata” dal giudice, hanno
chiarito che il legislatore nell’art. 444, comma 1 bis,
c.p.p. parla di soggetti “dichiarati” recidivi non per
indicare che sia necessaria una pregressa pronuncia
giudiziale dichiarativa di tale status, bensì per mere
ragioni di semplificazione semantica. L’alinea in
argomento, in effetti, nell’individuare coloro che non
possono essere ammessi al predetto rito semplificato e
alla conseguente riduzione premiale, accorpa, per
comodità di esposizione, il recidivo reiterato alle tre
figure di delinquente qualificato (abituale,
professionale e per tendenza). Queste tre forme di
pericolosità sociale, al contrario della recidiva in
generale, esigono una dichiarazione giudiziale
attributiva della specifica condizione, che è
dettagliatamente disciplinata dalla legge[74] e, a
seconda dei casi, viene pronunciata dal giudice della
cognizione con la sentenza di condanna (art. 109 c.p.)
oppure dal magistrato di sorveglianza (art. 679 c.p.p.).
Proprio ed esclusivamente ad esse si riferisce il
“dichiarati” contemplato dalla predetta disposizione
processuale.
3.4. La recidiva obbligatoria e le
sue vicissitudini ermeneutiche.
Abbiamo sinora appurato che,
relativamente all’art. 99 c.p., il quarto comma, oltre
ad essere il più richiamato da altre norme sostanziali,
processuali e dell’ordinamento penitenziario[75], è
stato quello che ha catalizzato maggiore attenzione da
parte degli interpreti teorici e pratici. Viceversa, una
disposizione che, pur potendo potenzialmente ingenerare
numerosi dubbi ermeneutici, ha alimentato in maniera più
misurata i repertori di giurisprudenza e le
disquisizioni dottrinarie è stata quella contenuta nel
successivo quinto comma. Questo capoverso, frutto
anch’esso della legge “ex Cirielli”, prevede
testualmente che “se si tratta di uno dei delitti
indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), del codice
di procedura penale, l’aumento della pena per la
recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo
comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena
da infliggere per il nuovo delitto”. Il legislatore ha,
quindi, reintrodotto la recidiva obbligatoria,
limitatamente, però, ad una serie di reati di
particolare gravità ed allarme sociale, già utilizzata
nel codice di rito come elemento discriminante in
relazione a diversi istituti[76]. In dottrina tale
scelta non è stata esente da critiche. Si è,
innanzitutto, evidenziato che, se da un lato potessero
risultare legittime le deroghe al procedimento ordinario
previste dal codice di procedura penale per i gravi
delitti de quibus, dall’altro non altrettanto scontata
era la conformità costituzionale della recidiva
obbligatoria su di essi fondata. Da parte di
qualcuno[77] è stata segnalata un’involuzione del nostro
sistema penale, che, dopo essersi liberato, attraverso
l’encomiabile opera della Consulta e del Parlamento,
delle diverse ipotesi di pericolosità sociale presunta,
previste in tema di misure di sicurezza e di
recidiva[78], veniva ora ad ospitarne una nuova. In
realtà, la Corte Costituzionale, anche successivamente
alla riforma del 1974, si era già occupata della
legittimità di una figura di recidiva obbligatoria
sopravvissuta. Sùbito dopo l’espunzione dal codice
penale di tutti i casi di recidiva non discrezionale,
alcuni tribunali avevano, infatti, denunciato
l’illegittimità costituzionale della “recidiva nel
contrabbando”, disciplinata dall’art. 296 d.p.r. 23
gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle
disposizioni legislative in materia doganale). Secondo
il loro punto di vista, la contingenza che nei confronti
dell’imputato per reati doganali il giudice fosse sempre
obbligato ad applicare la recidiva, mentre riguardo agli
autori di tutti gli altri reati l’applicazione era,
invece, rimessa alla sua valutazione, costituiva una
patente violazione del principio di eguaglianza di cui
all’art. 3 Cost. La Consulta, con la sentenza 4 gennaio
del 1977, aveva, però, dichiarato tale rilievo
infondato. In quest’occasione aveva ricordato che tra le
“condizioni personali” che, ai sensi del predetto art.
3, non possono esser fonte di discriminazione, non sono
annoverabili quelle derivanti da un’attività criminosa
del soggetto, rispetto alla quale, il legislatore è
libero di determinare la pena, a patto che, come per il
caso in esame, non si determini una sperequazione
illogica o irrazionale. In particolare, aveva ribadito
che rientra nella sfera discrezionale dell’artefice
delle leggi, ispirata a valutazioni di politica
criminale, la previsione di un trattamento sanzionatorio
più afflittivo, quale può essere l’obbligatorietà della
recidiva, per prevenire e reprimere crimini di
particolare gravità ed allarme sociale, che, in quanto
lesivi di interessi primari, esigono una tutela più
efficace. Queste risalenti affermazioni relative ai
reati in materia di contrabbando, sempre attuali, si
attagliano oggi perfettamente anche ai gravi delitti
indicati dall’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., come
ribadito qualche mese fa dalla Suprema Corte di
Cassazione con la sentenza n. 6950, emessa il 9 febbraio
dalla Seconda sezione penale. Tra l’altro, la stessa
norma del codice di rito annovera al numero 1) proprio
uno dei reati doganali: l’associazione per delinquere
finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri,
quando sia armata oppure utilizzi particolari mezzi di
trasporto o peculiari forme societarie o di
disponibilità finanziaria.
La perdurante validità delle
ricordate argomentazioni, dedotte dal Giudice delle
leggi più di trent’anni fa, viene tacitamente
riconosciuta dagli stessi “introduttori necessari” del
giudizio incidentale innanzi alla Consulta, visto che
dai repertori di giurisprudenza non emergono
pregiudiziali di costituzionalità riguardanti
l’obbligatorietà prevista dall’art. 99, comma 5, c.p.
Questa visione tendenzialmente uniforme sulla
compatibilità costituzionale di tale capoverso non lo
rende, tuttavia, immune da contrasti interpretativi. Una
prima fonte di discordia ermeneutica è individuabile
nell’àmbito applicativo della norma. A mente di alcuni,
la fattispecie obbligatoria contemplata dal comma 5
concernerebbe la sola recidiva “reiterata”, dato che
l’incipit di tale capoverso, costituito dall’espressione
“se si tratta”, sarebbe chiaramente riferito all’alinea
precedente[79]. A giudizio di altri, invece, la figura
de qua non sarebbe limitata ai casi di reiterazione, ma
includerebbe anche quelli di recidiva “aggravata” di cui
al secondo comma, rispetto ai quali, infatti, viene
espressamente stabilito che l’incremento sanzionatorio
“non può essere inferiore ad un terzo della pena da
infliggere per il nuovo delitto”[80]. L’indirizzo
dominante (soprattutto in giurisprudenza) risulta, però,
essere equidistante da ambe le posizioni, ritenendo,
infatti, che il comma 5 sia riferibile ad ogni forma di
recidiva, che da facoltativa si trasforma in
obbligatoria nel momento in cui vi sia la commissione di
uno dei delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lett.
a), c.p.p.[81].
Proprio in relazione a quest’ultimo
elemento, che determina la conversione della circostanza
aggravante da discrezionale in obbligatoria, si pone un
ulteriore dilemma esegetico. I giuristi non concordano
su quale debba essere il delitto sussumibile nel fitto
elenco di reati contenuto nella predetta norma
processuale: se quello oggetto della precedente
condanna, oppure quello nuovo, sub iudice, che vale a
costituire lo status di recidivo, ovvero
indifferentemente l’uno o l’altro, o financo entrambi.
La stessa Corte Costituzionale, in quasi tutte le
ricordate pronunce relative alla recidiva “reiterata” di
cui all’art. 99, comma 4, c.p., ha rilevato l’esistenza
di questo problema interpretativo afferente al capoverso
successivo. Dopo essersi limitata a precisare che le
quattro soluzioni dinnanzi prospettate erano tutte,
realmente o almeno potenzialmente, riscontrabili nel
diritto vivente, senza che ve ne fosse una prevalente
sulle altre in maniera consolidata, ha sottolineato come
nessuno dei giudici rimettenti (tra i quali compariva
anche Quello nomofilattico[82]) avesse sollevato la
questione, nonostante la sua rilevanza in rapporto al
thema decidendum. Così facendo, la Consulta ha
implicitamente motivato la sua posizione “agnostica” sul
punto[83]. Attualmente, l’orientamento che incontra
maggiori consensi in giurisprudenza è quello secondo cui
per l’integrazione della fattispecie di cui al comma 5 è
necessario che sia il nuovo reato, quello che sta “a
valle” della recidiva, a dover rientrare nella schiera
delittuosa contemplata dall’art. 407 c.p.p. e non anche
quello o quelli che stanno “a monte” della stessa[84]. I
sostenitori di tale indirizzo arrivano a questa
conclusione attraverso l’interpretazione letterale e
sistematica di tutte le disposizioni contenute nell’art.
99 c.p. Nelle loro inferenze argomentative evidenziano
che nei commi precedenti quello in esame si parla sempre
di aumento di pena per il “nuovo” o “altro” delitto e
che l’unica ipotesi in cui, viceversa, eccezionalmente
acquisiscono rilevanza i reati antecedenti è costituita
dalla recidiva “specifica”. In più, sottolineano come lo
stesso quarto capoverso, nel suo ultimo inciso, quando
fissa un limite minimo di aumento per un determinato
caso, richiami il comma 2, strutturato anch’esso sul
“nuovo delitto”.
Nonostante l’orientamento appena
segnalato risulti confortato da numerosi arresti, anche
recenti, della Suprema Corte, in una pronuncia di
qualche mese fa della Seconda Sezione penale la
problematica relativa all’esatta portata del rinvio
all’art. 407 c.p.p. contenuto nell’art. 99, comma 5,
c.p. veniva considerata ancóra irrisolta. Il riferimento
è all’ordinanza del 4 novembre 2010, n. 39855, con cui
il Singolo Collegio, oltre a segnalare la persistenza di
questo dubbio, deferiva alle Sezioni Unite un altro
conflitto giurisprudenziale riguardante sempre (ma non
solo) lo stesso capoverso dell’art. 99 c.p. La tematica
su cui, a séguito di tale impulso, il Consesso “a pieni
ranghi” si è espresso lo scorso 24 febbraio con sentenza
n. 20798, depositata il successivo 24 maggio, risulta,
in effetti, piuttosto articolata.
L’Autorevole Collegio “a nove
teste” in questa congiuntura ha, innanzitutto, risolto
il dilemma, continuo e diuturno, concernente il richiamo
dell’art. 407 del codice di rito, sposando la tèsi
maggioritaria. Fondando la propria asseverazione
sull’esegesi letterale e logico-sistematica del quarto
capoverso dell’art. 99 c.p., ha, infatti, ribadito che
la recidiva “reiterata” obbligatoria ricorre quando il
soggetto, già recidivo per qualunque delitto, ne
commette un altro riconducibile al catalogo contenuto
nella predetta disposizione processuale, a prescindere
che rientri o meno in tale novero anche il delitto per
cui è stata irrogata la precedente condanna. Oltre a
richiamare le ricordate motivazioni della giurisprudenza
prevalente, le Sezioni Unite hanno soggiunto anche che
l’interpretazione in argomento, proprio perché confina
l’applicabilità dell’art. 99, comma 5, c.p. al caso in
cui il nuovo reato sia riconducibile all’elenco di cui
all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p., risulta
maggiormente coerente sotto il profilo del giudizio, che
la recidiva esige, di più accentuata colpevolezza e di
maggiore pericolosità correlati alla qualità del nuovo
delitto posto in essere.
Va segnalato che l’Adunanza
Plenaria, nel mettere la parola “fine” su questa prima
questione sottoposta al suo vaglio, ha dipanato
incidenter tantum anche un’altra vexata quaestio.
Proprio nel precisare che deve essere il reato “a monte”
della recidiva a dover sussunto nell’art. 407, comma 2,
lett. a), c.p.p., ha sottolineato che l’art. 99, comma
5, c.p. è applicabile a tutte le forme di recidiva e non
solo ad alcune di esse, come vorrebbe una giurisprudenza
minoritaria in precedenza evocata. Le Sezioni Unite,
ratificando anche in questo caso l’indirizzo dominante,
hanno, infatti, elucidato che la funzione dell’alinea in
discussione è quella di prefigurare, in rapporto ad
ognuna delle fattispecie di recidiva facoltativa
previste dai quattro commi precedenti, altrettante
ipotesi di recidiva obbligatoria, per cui non risultano
condivisibili quelle linee interpretative secondo cui
l’obbligatorietà sarebbe limitata alla sola recidiva
“reiterata”, oppure ad essa ed alla recidiva
“monoaggravata”.
L’altra questione (a dire il vero,
quella principale) su cui i nove giudici sono stati
chiamati ad esprimersi non aveva afferenza esclusiva con
il comma 5 dell’art. 99 c.p.; consisteva, infatti,
nell’acclarare se le figure di recidiva che comportano
un aumento di pena superiore ad un terzo possano esser
qualificate, ex art. 63, comma 3, c.p., come circostanze
aggravanti ad effetto speciale[85] e se, in quanto tali,
incontrino la limitazione di cui all’art. 63, comma 4,
c.p. A mente di questa norma, in caso di concorso
omogeneo di più elementi circostanziali appartenenti a
questa categoria, non vige la regola del “cumulo
materiale”, bensì quella del “cumulo giuridico”, ovvero
si applica soltanto la pena stabilita per quello più
grave con l’eventuale possibilità per il giudice di un
ulteriore aumento[86]. Al primo quesito essi hanno
risposto affermativamente, facendo propria la tèsi
maggioritaria[87], consolidata soprattutto in materia di
calcolo della prescrizione del reato, secondo cui tutte
le ipotesi di recidiva caratterizzate dal predetto
aumento di pena (ovvero, quelle contemplate dai commi 2,
3, 4 e 5 dell’art. 99 c.p.) sono circostanze ad effetto
speciale[88]. Una volta riconosciuta la validità di
questo teorema fondato sul criterio edittale,
l’applicabilità dell’art. 63, comma 4, c.p. si è
rivelata un vero e proprio corollario che ha, comunque,
richiesto un’ulteriore precisazione. L’Insigne Collegio
ha, infatti, chiarito se l’operatività di quest’ultima
norma sia inibita nel caso in cui tra le circostanze ad
effetto speciale concorrenti compaia la recidiva
obbligatoria di cui all’art. 99, comma 5, c.p. Secondo
alcune pronunce della Suprema Corte[89], infatti, questa
figura di recidiva, in virtù della sua obbligatorietà,
sarebbe immune alla citata regola limitativa. A giudizio
di tale orientamento, la ratio derogatoria all’art. 63,
comma 4, c.p. sarebbe evincibile dalla congiuntura che
il legislatore ha previsto quest’ipotesi di recidiva
obbligatoria in relazione ad una folta schiera di reati,
tra cui compaiono delitti già a loro volta aggravati da
circostanze ad effetto speciale obbligatorie [e.g.,
l’art. 628, comma 3, c.p. oppure l’art. 73 aggravato ex
art. 80, comma 2, d.p.r. n. 309/90, contemplati
dall’art. 407, comma 2, lett. a), rispettivamente ai nn.
2 e 6]. Una combinazione, ritenuta dai fautori di
quest’indirizzo, sintomatica di una volontà legislativa
ben determinata: quella di rendere applicabili, in
deroga al terzo capoverso dell’art. 63 c.p., entrambi
gli incrementi sanzionatori circostanziali (e non solo
quello più grave), sia in questi casi lampanti che in
tutti quelli dove la recidiva obbligatoria concorre con
altra aggravante della predetta specie. L’Assemblea
Plenaria ha preso le distanze da tali argomentazioni,
evidenziando come non vi siano ragioni, tanto letterali
quanto logico-sistematiche, per sottrarre l’art. 99,
comma 5, c.p. all’applicabilità dell’art. 63, comma 4,
c.p., per cui laddove la figura di recidiva da essa
contemplata concorra con altre circostanze ad effetto
speciale soggiacerà anch’essa alla regola del cumulo
giuridico.
La concordanza cronologica ci offre
un utile spunto per ricordare che nello stesso giorno in
cui è stata emessa la sentenza che abbiamo appena
chiosato (lo scorso 24 febbraio) le Sezioni Unite, con
un’altra decisione, si sono espresse su una questione
intimamente connessa a quella appena esaminata. Il
problema da dirimere era, infatti, sempre afferente alla
sussumibilità delle ipotesi di recidiva “qualificata”
nello spettro delle circostanze ad effetto speciale. A
richiedere l’intervento dell’ “Adunanza Plenaria” era
stata in quest’occasione la Terza Sezione penale con
l’ordinanza del 2 luglio 2010, n. 37198, nella quale i
giudici “rimettenti”, segnalando la presenza di due
orientamenti (tra loro) antitetici riguardo alla
catalogazione anzidetta, avevano sostenuto che tale
inquadramento dogmatico era rilevante per stabilire se
si dovesse tener conto anche della recidiva “reiterata”
contestata nella determinazione della pena agli effetti
dell’applicazione delle misure cautelari e precautelari
(artt. 278 e 379 c.p.p.). Risulta opportuno rammentare
che la prima delle due richiamate norme del codice di
rito, rubricata appunto determinazione della pena agli
effetti dell’applicazione delle misure [cautelari, Ndr],
recita: “Agli effetti dell'applicazione delle misure,
si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per
ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene
conto della continuazione, della recidiva e delle
circostanze del reato, fatta eccezione della
circostanza aggravante prevista al numero 5)
dell'articolo 61 del codice penale e della circostanza
attenuante prevista dall'articolo 62 n. 4 del codice
penale nonché delle circostanze per le quali la legge
stabilisce una pena di specie diversa da quella
ordinaria del reato e di quelle ad effetto
speciale”[90]. L’altra disposizione procedurale si
limita, invece, ad estendere la portata applicativa di
tale disposto anche alle misure precautelari (arresto in
flagranza e fermo di indiziato di delitto).
Sulla questione il Consesso
Allargato ha deciso con la sentenza n. 17386 depositata
il 5 maggio u.s., nella quale le Sezioni Unite, pur
sottolineando l’irrilevanza dell’eventuale
qualificazione della recidiva “reiterata” come
circostanza ad effetto speciale ai fini del computo o
meno della stessa nella “sommatoria” di cui all’art. 278
c.p.p., si sono comunque pronunciate (“per completezza
argomentativa”) sulla sua natura giuridica. I giudici in
questa congiuntura ancóra una volta hanno fatto proprio
quell’indirizzo giurisprudenziale da noi rimembrato[91],
secondo cui la contingenza che il legislatore
attribuisca alla recidiva la natura di circostanza
inerente alla persona del colpevole non esclude che
essa, nelle ipotesi in cui comporta un aumento di pena
superiore ad un terzo, possa esser ricondotta alla
categoria delle circostanze aggravanti ad effetto
speciale. Ribadito quest’inquadramento dogmatico della
recidiva “qualificata”, i giudici hanno dissolto l’altro
dubbio interpretativo posto alla loro attenzione,
prescindendo appunto dalla predetta “categorizzazione” e
facendo semplicemente appello alla littera legis. L’art.
278 c.p.p., infatti, nello stabilire quali siano gli
elementi di cui tener conto nel computo della pena
edittale agli effetti dell’applicazione delle misure
cautelari, annovera in via generale le circostanze ad
effetto speciale, ma esclude expressis verbis la
recidiva. Va da sé, quindi, che, secondo la Cassazione
Consultibus Classibus, la valenza della recidiva
“qualificata” come “addendo” ai fini del predetto
calcolo è esclusa per legge[92].
Abbiamo visto come siano piuttosto
numerosi gli interrogativi che ruotano intorno all’art.
99, comma 5, c.p. Senza alcuna pretesa di esaurire
l’argomento relativo ai dubbi ermeneutici che attengono
a questo capoverso, occorre segnalare un altro dilemma
interpretativo di non poco momento. Il problema riguarda
sempre la recidiva obbligatoria considerata come
circostanza aggravante. Più su ci siamo occupati di
quella preclusione nel giudizio di bilanciamento delle
circostanze contenuta nell’art. 69, comma 4, c.p.,
pertinente alla recidiva “reiterata” facoltativa di cui
all’art. 99, comma 4, c.p. È ragionevole chiedersi se
quel divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti
riguardi anche la “ritenuta” circostanza aggravante di
cui all’art. 99, comma 5, c.p., visto che nel predetto
alinea dell’art. 69 c.p. l’espresso richiamo è solo al
capoverso precedente. Nelle diverse pronunce della
Consulta relative alla legittimità costituzionale degli
artt. 69. comma 4, e 99, comma 4, c.p., che hanno
rappresentato uno dei leitmotiv di questa nostra
trattazione, è stata riconosciuta la possibilità al
giudice di non applicare gli effetti, principale e
secondari, della recidiva “reiterata” facoltativa,
quando la ricaduta nel reato non sia prodromica di una
“più accentuata colpevolezza” e di una “maggiore
pericolosità” del reo. Argomentando a contrario, si
dovrebbe involgere che tale facoltà gli sia preclusa nei
casi di recidiva “reiterata” obbligatoria, dovendo
l’incremento di pena ad essa riconnesso e tutte le altre
conseguenze “commisurative della sanzione” (tra cui la
limitazione di cui al terzo capoverso dell’art. 69 c.p.)
necessariamente prodursi ex lege. Tale indirizzo viene
sposato dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale, in
più occasioni, ha sostenuto che la contrazione del
giudizio di bilanciamento, espressamente fissata in
relazione all’art. 99, comma 4, c.p., vale a fortori
quando la recidiva “reiterata” è obbligatoria ai sensi
del capoverso successivo[93].
Da questi arresti della Corte
regolatrice si deve inferire che la predetta limitazione
non opera nei riguardi delle forme di recidiva diverse
da quella “reiterata”, quand’anche siano obbligatorie
perché il nuovo reato ricade nell’alveo dell’art. 407,
comma 2, lett. a), c.p.p. Laddove, per contro, si
ritenesse corretto estendere il divieto di prevalenza in
argomento a tutte le ipotesi di recidiva obbligatoria
(reiterata e non), si finirebbe probabilmente per dar
vita a quell’analogia in malam partem, a cui
l’incontrastato sovrano della legge penale, il principio
di legalità (art. 25, comma 2, c.p.), nega il diritto di
cittadinanza. Ad onor del vero, non manca in dottrina
chi, in virtù di questo divieto di estensione analogica
contra reum, sostiene che il quarto alinea dell’art. 69
c.p. vada interpretato in senso strettamente letterale,
non essendo, quindi, applicabile alle ipotesi di
recidiva obbligatoria di cui all’art. 99, comma 5, c.p.,
nemmeno quando si tratti di recidiva “reiterata”[94].
Secondo questa visione, l’omessa indicazione nell’art.
69, comma 4, c.p. del quinto comma dell’art. 99 c.p.,
non superabile, per il motivo anzidetto, attraverso lo
strumento analogico, risponderebbe ad un preciso disegno
del legislatore. La ratio legis sarebbe quella di
permettere al giudice, quando ricorra la recidiva non
discrezionale, di poter ritenere prevalenti su di essa
eventuali circostanze attenuanti. In questo modo egli
recupererebbe la possibilità di adattare la pena al caso
concreto, venuta meno a causa dell’obbligatorietà della
recidiva. In quelle situazioni di fatto in cui la
ricaduta delittuosa non fosse sintomatica di una più
accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità
del reo, la perdita della discrezionalità di escludere
la recidiva verrebbe compensata dalla facoltà di
ritenerla subvalente nel giudizio di bilanciamento con
circostanze di segno opposto. Ragionando in senso
contrario, sarebbe preclusa al giudice la possibilità di
calibrare la risposta punitiva dello Stato alla
fattispecie reale, in dispregio dei principî
costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza, di
offensività del reato, e di proporzionalità e
rieducazione della pena. I sostenitori della tèsi
antonima obiettano, invece, che il giudice mantenga
questo potere anche in presenza del divieto di
prevalenza delle attenuanti, visto che egli può
attagliare la sanzione al caso concreto per mezzo di un
giudizio di equivalenza, che rimane, comunque,
praticabile[95].
4. Conclusioni.
In questa dissezione dell’art. 99
c.p. ci siamo occupati solo di alcune delle
problematiche esegetiche che attanagliano l’istituto
della recidiva[96]. Abbiamo constatato come non si
tratti di semplici logomachie, sibbene di dispute
interpretative dai risvolti applicativi non
trascurabili, che solo in qualche caso sono state
definitivamente composte grazie all’intervento delle
Giurisdizioni superiori.
Giunti all’epilogo della nostra
analisi, qualche parola dobbiamo spenderla riguardo
all’ultimo capoverso di questa norma, in base al quale
l’aumento di pena per effetto di qualsiasi tipo di
recidiva in nessun caso può superare il cumulo delle
pene risultante dalle condanne anteriori alla
commissione del delitto sub iudice. Si tratta di una
limitazione introdotta dalla riforma “indulgenzialista”
del 1974 e non intaccata dalla legge “ex Cirielli”, che,
malgrado il suo intento draconiano, ha reputato
inopportuno un ripristino dello status quo ante. La
semplicità che caratterizza questa disposizione
giustifica verosimilmente l’assenza, in dottrina come in
giurisprudenza, di questioni ermeneutiche ad essa
afferenti, interinando, quindi, quell’apoftegma col
quale abbiamo aperto il nostro discorso: in claris non
fit interpretatio[97].
[1] TUOZZI, Corso di diritto
penale, 3a ed., I, Napoli, 1889, 360. La sussistenza di
innumerevoli e vivaci contrasti ermeneutici sul tema
viene rilevata nello stesso periodo anche da CARRARA in
Opuscoli di diritto criminale, II, 3a ed., Prato, 1878,
127. In chiave diacronica, adde MANZINI, La recidiva
nella sociologia, nella legislazione e nella scienza del
diritto penale, Torino, 1890; DELL’ANDRO, La recidiva
nella teoria della norma penale, Palermo, 1950;
VASSALLI, La riforma penale del 1974, Milano, 1975, 64
s.; FIANDACA, MUSCO, Diritto penale Parte generale, 4a
ed. agg., Bologna, 2004, 410.
[2] Per giurisprudenza consolidata,
in tutti i casi in cui il codice sostanziale parla sic
et sempliciter di “condanna” o di “condannato”
presuppone che la relativa pronuncia sia divenuta
irrevocabile.
[3] La pronuncia de qua opera, tra
l’altro, un’interessante differenziazione tra i concetti
di “recidiva” e di “reiterazione”, che nella vicenda
disciplinare esaminata risultano ben distinti l’uno
dall’altro, assumendo, quindi, una connotazione
antitetica rispetto a quella riscontrabile infra,
nell’àmbito delle violazioni amministrative, riguardo
alle quali, come si vedrà, sussiste, invece, una
sinonimia dei due lemmi fissata dal legislatore e
ratificata dalla Corte regolatrice (vedi nota 13).
[4] Vedi gli artt. 12, 69, 70, 81,
99, 100 (abr.), 106, 109, 143 (abr.), 517 bis, 544
sexies, 555 (abr.), 639 e 727 (abr.) c.p., nonché gli
artt. 23 e 31 disp. trans. c.p.
[5] Cfr. gli artt. 4, 278, 519 e
656 c.p.p., nonché l’art. 132 bis att. c.p.p.
[6] Vedi, e.g., l’art. 52, comma 3,
d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla
competenza penale del giudice di pace, a norma
dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) e
tutte le altre norme disciplinanti ipotesi “speciali” di
recidiva (vedi nota seguente).
[7] Tra quelle in vigore, senza
alcuna pretesa di esaustività, si citano: art. 4, comma
4, l. 4 novembre 2010, n. 201 (Ratifica ed esecuzione
della Convenzione europea per la protezione degli
animali da compagnia […]); art. 147, comma 3, d.lgs. 24
aprile 2006, n. 219 (Attuazione della direttiva
2001/83/CE […] relativa ad un codice comunitario
concernente i medicinali per uso umano […]); art. 5,
comma 2, d.lgs. 18 maggio 2001, n. 275 (Riordino del
sistema sanzionatorio in materia di commercio di specie
animali e vegetali protette […]); artt. 1, comma 2, e 2,
comma 2, l. 7 febbraio 1992, n. 150 (Disciplina dei
reati relativi all’applicazione in Italia della
convenzione sul commercio internazionale delle specie
animali e vegetali in via di estinzione […]); art. 9,
comma 3, l. 5 febbraio 1992, n. 175 (Norme in materia di
pubblicità sanitaria e di repressione dell’esercizio
abusivo delle professioni sanitarie); art. 30, comma 1,
l. 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree
protette); art. 9, comma 6, l. 16 aprile 1973, n. 171
(Interventi per la salvaguardia di Venezia); art. 125,
commi 6 e 7, art. 168, comma 2, art. 169, commi 1 e 3,
art. 188, comma 1, e art. 265 bis, comma 2, r.d. 27
luglio 1934, n. 1265 (Testo unico delle leggi
sanitarie); art. 21, comma 2, l. 15 giugno 1931, n. 889
(Riordinamento dell’istruzione media tecnica); art. 8,
comma 2, r.d.l. 7 luglio 1927, n. 1548 (Norme per la
fabbricazione, l’importazione ed il commercio dei
prodotti alimentari della pesca conservati in
recipienti), convertito dalla l. 7 giugno 1928, n. 1378;
art. 3, comma 2, l. 23 giugno 1927, n. 1264 (Disciplina
delle arti ausiliarie delle professioni sanitarie); art.
54, comma 3, r.d.l. 15 maggio 1924, n. 749 (Ordinamento
dell’istruzione media commerciale), convertito dalla l.
17 aprile 1925, n. 473; art. 117 r.d. 6 maggio 1923, n.
1054 (Ordinamento della istruzione media e dei convitti
nazionali); art. 15, comma 5, r.d.l. 13 novembre 1919,
n. 2205 (Approvazione del testo unico dei provvedimenti
sull’emigrazione e sulla tutela giuridica degli
emigranti), convertito dalla l. 17 aprile 1925, n. 473;
art. 5 r.d.l. 18 maggio 1919, n. 1093 (Disposizioni per
l’uscita dal regno dei cittadini che si considerano o
presumono emigranti), convertito dalla l. 16 giugno
1927, n. 985.
[8] Un’eccezione è individuabile
nell’art. 59, commi 1 e 2, l. 24 novembre 1981, n. 681
(Modifiche al sistema penale), che, nel fissare alcune
cause ostative alla sostituzione delle pene detentive
brevi, si astiene, probabilmente per comodità
espositiva, dal qualificare come “recidivo” il
condannato reiterante.
[9] In quest’àmbito, tra l’altro,
“la recidiva si verifica [solo, Ndr] qualora sia stata
commessa la stessa violazione per due volte in un anno”
(art. 62, comma 2, secondo periodo, cit. d.lgs.).
[10] (Riforma della disciplina
relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo
4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59). La nozione
di recidiva in questa materia (art. 22, 2° comma, cit.
d.lgs.) coincide con quella “ridotta” del codice del
consumo, appena rilevata (vedi nota precedente). In
realtà, sono diversi i rami dell’ordinamento extrapenale
in cui la normativa di settore opera una contrazione
della portata applicativa della recidiva; a titolo
paradigmatico, si ricordino: l’ordinamento del notariato
e degli archivi civili (art. 145 l. 16 febbraio 1913, n.
89), che la configura esclusivamente quando il notaio
commette “nuovamente la stessa infrazione entro cinque
anni dalla condanna” (la c.d. recidiva “specifica
infraquinquennale”: vedi nota 36); il testo unico degli
impiegati civili dello stato (art. 86 d.p.r. 10 gennaio
1957, n. 3) e l’ordinamento di alcune categorie del
personale giudiziario (art. 112 l. 23 ottobre 1960, n.
1196 e art. 67 d.p.r. 15 dicembre 1959, n. 1229), che la
individuano nella sola reiterazione di infrazioni della
stessa specie; il regolamento per gli istituti di
prevenzione e di pena (art. 168 r.d. 18 giugno 1931, n.
787), che considera il detenuto recidivo in infrazioni
disciplinari solo in determinati casi tassativamente
indicati.
[11] (Repressione delle frodi nella
preparazione e nel commercio di sostanze di uso agrario
e di prodotti agrari), convertito dalla l. 18 marzo
1926, n. 562. Le violazioni previste come reato da
questo decreto sono state trasformate in illeciti
amministrativi dall’art. 1 d.lgs. n. 30 dicembre 1999,
n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del
sistema sanzionatorio, ai sensi dell’art. 1 L. 25 giugno
1999, n. 205).
[12] Tra i più recenti, si
ricordino quello relativo ai segretari comunali e
provinciali, siglato il 14 dicembre dello scorso anno,
oppure quelli concernenti il personale dirigente
dell’ENAC e il personale non dirigente dell’Unioncamere,
entrambi sottoscritti il 4 agosto 2010.
[13] La ratio di voler realizzare
un distinguo solo lessicale (e non anche sostanziale)
tra i due binomî “reato-recidiva” e “illecito
amministrativo-reiterazione delle violazioni” emerge
proprio dal provvedimento normativo che ha introdotto il
citato art. 8 bis. Nel testo originario della l. n.
689/81 non era, infatti, contemplata la “reiterazione
delle violazioni”; vi è stata interpolata dall’art. 94
cit. d.lgs. n. 507/99, che ha aggiunto alla predetta
legge l’articolo in argomento. Questo decreto
legislativo, all’art. 3, nel disciplinare le “sanzioni
amministrative accessorie”, sancisce a chiare lettere la
simmetria tra la “recidiva” e la neonata “reiterazione
delle violazioni”. Vedi, in senso adesivo, anche Cass.
civ., Sez. II, 8 agosto 2007, n. 17347, che sottolinea
la corrispondenza tra questa figura giuridica
amministrativa ed alcune forme della recidiva penale
(“specifica” ed “infraquinquennale”: cfr. nota 36). Per
trovare una distinzione legislativa tra i termini
“recidiva” e “reiterazione” bisogna andare molto
indietro nel tempo e prendere in esame una normativa non
più applicabile: ci riferiamo all’art. 334 dell’ancóra
vigente r.d. 13 febbraio 1896, n. 65 (Approvazione del
regolamento per l’esecuzione del testo unico delle legge
doganali), il quale individua le modalità distintive tra
i due lemmi, in relazione, però, ad una norma ormai
abrogata, ossia l’art. 98 r.d. 20 gennaio 1896, n. 20
(Approvazione del testo unico delle leggi doganali), il
cui contenuto non è stato integralmente riprodotto nel
t.u.l.d. oggi in vigore (cit. d.p.r. n. 43/73).
[14] Cfr., e.g., art. 3 l. 8 aprile
2010, n. 55 (Disposizioni concernenti la
commercializzazione di prodotti tessili, della
pelletteria e calzaturieri); art. 7 d.lgs. 5 aprile
2006, n. 190 (Disciplina sanzionatoria per le violazioni
[…] della legislazione alimentare); artt. 1 e 2 l. 15
dicembre 1990, n. 386 (Nuova disciplina sanzionatoria
degli assegni bancari); art. 23 l. 15 febbraio 1963, n.
281 (Disciplina della preparazione e del commercio dei
mangimi).
[15] È il caso, verbi gratia, della
disciplina sanzionatoria delle violazioni tributarie
(art. 7 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472), che contempla
l’ipotesi del trasgressore già incorso in violazioni
della stessa indole nei tre anni precedenti, prevedendo
la possibilità di aumentare la sanzione fino alla metà.
La medesima “anonimia” è rinvenibile nella
regolamentazione della professione di mediatore, che, in
occasione di una molteplice ricaduta antigiuridica,
prevede addirittura una metamorfosi dell’illecito da
amministrativo a penale; in particolare, l’art. 8, comma
2, l. 3 febbraio 1989, n. 39 sancisce, infatti, che nei
confronti di colui il quale per tre volte incorre nella
sanzione amministrativa contemplata per l’esercizio
dell’attività di mediazione senza essere iscritto nel
ruolo (pagamento di una somma compresa tra euro 7.500 ed
euro 15.000) si applicano le pene fissate dall’art. 348
c.p., che punisce l’abusivo esercizio di una professione
con la pena della reclusione fino a sei mesi o con la
multa da euro 103 a euro 516.
[16] Quest’inquadramento dogmatico
emerge espressamente dal combinato disposto dagli artt.
69, comma 4, e 70, comma 2, c.p. In deroga al principio
a verbis legis non est recendum, diversi autori (cfr.,
ex plurimis, ANTOLISEI, CARNELUTTI, DELL’ANDRO,
FIANDACA, MANTOVANI, MANZINI, MUSCO, ecc.) rifuggono
dalla sistematica codicistica ed affermano che la
recidiva non è sussumibile nelle circostanze del reato,
ma si riferisce allo status ed alle qualità del
colpevole, rappresentando una sòrta di indice di
commisurazione della pena, analogo a quelli
espressamente elencati dall’art. 133 c.p. La
giurisprudenza è, invece, univoca riguardo alla natura
circostanziale: cfr., da ultimo, Cass. pen., SS.UU., 24
febbraio 2011, n. 20798.
[17] Tra i sostenitori di questa
tèsi cfr., e.c., ANTOLISEI, Manuale di diritto penale
Parte generale, 16a ed., Milano, 2003, 661; FIANDACA,
MUSCO, Diritto penale Parte generale, cit., 410;
PADOVANI, Diritto penale Parte generale, 2a ed., Milano,
1993, 347; VASSALLI, La riforma penale del 1974, cit.,
65.
[18] In senso adesivo, vedi, e.g.,
AMBROSETTI, Recidiva e recidivismo, Padova, 1997, 44;
MAZZA, voce Recidiva, in Enciclopedia del diritto,
XXXIX, Milano, 1988, 72 ss.; PITTARO, voce Recidiva, in
Digesto delle discipline penalistiche, XI, Torino, 1996,
359; ROMANO, Commentario sistematico del codice penale,
II, 3a ed., Milano, 2005, 90 ss.
[19] In realtà, anche durante la
vigenza ultraquarantennale della versione originaria
dell’art. 99 c.p., quelli contemplati dall’art. 100 c.p.
non erano gli unici casi di recidiva discrezionale. Già
allora esistevano alcune ipotesi non obbligatorie, che
tuttora compongono il panorama normativo. Oltre alle
fattispecie facoltative rinvenibili in alcune risalenti
leggi speciali (diverse delle norme indicate supra,
nella nota 7 contemplano, infatti, ipotesi di recidiva
non obbligatoria), era già in vigore il cit. art. 57
c.p.m.p. (Recidiva facoltativa fra reati comuni e reati
esclusivamente militari), in base al quale il giudice,
salvo che si tratti di reati della stessa indole (art.
101 c.p.), può escludere la recidiva tra reati preveduti
dalla legge penale comune e “reati esclusivamente
militari” (art. 37 c.p.m.p.). Il legislatore del 1941
l’aveva inserito nel codice penale militare di pace
proprio per derogare all’obbligatorietà della recidiva
allora contemplata dal codice “Rocco”; una volta che,
come stiamo per vedere, con la riforma del 1974 il
regime della facoltatività della recidiva venne
generalizzato, la dottrina si mostrò concorde nel
ritenere che l’art. 57 c.p.m.p. avesse ormai perduto
ogni “importanza pratica” (cfr., tra i tanti, BRUNELLI,
MAZZI, Diritto penale militare, Milano, 1994, 143;
VEUTRO, in AA.VV., Manuale di diritto e di procedura
penale militare, Milano, 1976, 223). Quest’ultima
posizione, all’epoca condivisibile, merita oggi di
essere rivista alla luce della riformulazione dell’art.
99 c.p. intervenuta nel 2005, con la quale, come
constateremo a breve, la recidiva è stata confinata ai
soli delitti (mentre il cit. art. 57 parla ancóra di
“reati”) ed è ricomparso, seppur in forma contratta, il
regime obbligatorio.
[20] Cfr. artt. 9 e 10 d.l. 11
aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla
giustizia penale), convertito, con modificazioni, dalla
l. 7 giugno 1974, n. 220. Sulla riforma del 1974 cfr.,
per tutti, AMBROSETTI, op. cit., 1-75, estremamente
significativo anche sotto il profilo bibliografico; con
riferimento agli effetti di tale revisione
sull’inquadramento dogmatico dell’istituto, vedi
PUCCETTI, La recidiva nel fuoco delle riforme, in RONCO
(diretto da), Commentario sistematico del codice penale,
III, Persone e sanzioni, Bologna, 2006, 161 ss.
[21] Cfr. NUVOLONE, Il sistema del
diritto penale, Padova, 1975, 312; adde MARINUCCI,
DOLCINI, Studi di diritto penale, Milano, 1991, 51.
[22] L’atto normativo in argomento
è conosciuto come legge “ex Cirielli” dal cognome del
primo firmatario della proposta di legge n. 2055,
presentata il 29 novembre 2001 alla Camera dei Deputati
(XIV Legislatura). Si tratta del deputato Edmondo
Cirielli, il quale, dopo le modifiche apportate dal
Parlamento, la sconfessò e votò contro la sua
approvazione, chiedendo successivamente che essa non
venisse più chiamata col suo nome; da qui la
preposizione “ex” anteposta al suo cognome. L’iter
formativo di questo provvedimento è disponibile sul sito
http://legxiv.camera.it
[23] La Consulta, nel ribadire più
volte che la scelta e la quantificazione delle sanzioni
per i singoli fatti punibili rientra nella
discrezionalità del legislatore, il cui esercizio è
censurabile, in sede del sindacato di costituzionalità,
solo nel caso di manifesta irragionevolezza (cfr., ex
multis, sentt. Corte Cost. nn. 394/07, 22/07 e 144/05),
ha precisato che détto principio è riferibile anche agli
aumenti di pena conseguenti alle circostanze aggravanti
(vedi ord. Corte Cost. n. 91/08). Tali argomentazioni
dissolvono i dubbi sulla legittimità costituzionale
degli incrementi sanzionatori fissi. L’infondatezza di
tale tèsi è, del resto, evincibile, considerando che gli
aumenti di pena connessi alle varie tipologie di
recidiva sono degli incrementi frazionari della
pena-base, la quale, variando tra un minimo ed un
massimo sulla scorta degli indici di cui all’art. 133
c.p., incide anche sull’entità dell’incremento.
[24] L’elencazione non è esaustiva
in quanto tra le conseguenze già vigenti prima della
riforma del 2005 ve ne sono anche alcune relative solo a
determinati reati. Si pensi, exempli causa, all’art. 517
bis, comma 2, c.p., che, riguardo ai delitti contro
l’industria e il commercio, riconnette particolari
effetti alla recidiva “specifica” (vedi infra, alla nota
36), e all’art. 544 sexies c.p. che, in materia di
delitti contro il sentimento per gli animali, prevede
l’interdizione dall’esercizio di alcune attività
lavorative in caso di recidiva. Interessante ricordare
che anteriormente al 1975 la recidiva rilevava anche ai
fini della ripartizione dei condannati all’interno dello
stabilimento penitenziario: l’art. 143 c.p. è stato
abrogato in occasione della riforma dell’ordinamento
penitenziario attuata con la cit. l. n. 354/75.
[25] La Corte Costituzionale, con
sentenza 10 giugno 2011, n. 183, ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 62 bis, comma
2, c.p., come sostituito dall’art. 1, comma 1, l. n.
251/05, nella parte in cui stabilisce che, ai fini
dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo,
non si possa tenere conto della condotta del reo
susseguente al reato.
[26] (Norme sull’ordinamento
penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e
limitative della libertà personale).
[27] (Testo unico in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza). Il cit. art. 94 bis, che poneva
alcuni limiti alla concessione sia della sospensione
dell’esecuzione della pena detentiva che
dell’affidamento in prova in casi particolari nei
confronti di tossicodipendenti ed alcooldipendenti
recidivi reiterati, è stato successivamente abrogato ad
opera dell’art. 4 d.l. 30 dicembre 2005, n. 272,
convertito, con modificazioni, dalla l. 21 febbraio
2006, n. 49. Quest’ultima disposizione ha anche
attenuato per le medesime categorie di persone, che
abbiano, però, in corso un programma terapeutico di
recupero al momento del deposito della sentenza
definitiva, quel divieto di sospensione “automatica”
dell’ordine di esecuzione della pena detentiva che la
legge “ex Cirielli” ha introdotto, in via generale a
carico dei recidivi reiterati, con l’art. 656, comma 9,
lett. c), c.p.p.
[28] Il legislatore negli anni
seguenti ha ricollegato ulteriori conseguenze alla
contestazione della recidiva. A titolo paradigmatico, si
menzionano: l’art. 132 bis att. c.p.p., come sostituito
dalla l. n. 125/08, il quale attribuisce la priorità
assoluta nella formazione dei ruoli di udienza e nella
trattazione ai processi in cui sia stata contestata la
recidiva “reiterata” (vedi ultra, nota 41); il comma 3
dell’art. 639 c.p., interpolato dalla l. n. 94/09, che,
in materia di deturpamento e imbrattamento di cose
altrui, ricollega alla recidiva “specifica” (vedi infra,
nota 36) particolari incrementi sanzionatori, diversi da
quelli previsti in via generale dall’art. 99 c.p.
[29] Su quest’innovazione
contenitiva, vedi CORBETTA, Il nuovo volto della
recidiva: “tre colpi e sei fuori”?, in Nuove norme su
prescrizione del reato e recidiva, a cura di SCALFATI,
Padova, 2006, 62 ss.; MELCHIONDA, La nuova disciplina
della recidiva, in Diritto penale e processo, 2, 176 ss.
Occorre ricordare che nella legislazione speciale
sopravvivono numerose fattispecie di recidiva
contravvenzionale (all’interno dell’elenco contenuto
nella nota 7 se ne rinvengono diverse); qualcuna di
queste è addirittura successiva all’entrata in vigore
della legge “ex Cirielli” (es. cit. art. 147 d.lgs. n.
147/06). La stessa “recidiva militare” (art. 57
c.p.m.p.), più volte richiamata supra, non limita il suo
campo applicativo alle ipotesi delittuose; parla,
infatti, tuttora di “stessa indole” tra reati comuni
(delitti e contravvenzioni) e reati “esclusivamente
militari” (con riferimento a questi ultimi va détto che
attualmente non esistono contravvenzioni militari,
poiché i reati contemplati dai vigenti codici penali
militari sono, ex art. 37, ultimo comma, c.p.m.p., tutti
delitti e le altre leggi penali militari non contengono
ipotesi contravvenzionali. La dottrina prevalente
reputa, tuttavia, che non vi sia impedimento alcuno
all’introduzione di contravvenzioni militari, tra
l’altro già esistenti in passato: cfr., in tal senso,
NICOLOSI, voce Reato militare, in Digesto delle
discipline penalistiche, XI, Torino, 1996, 298;VENDITTI,
Il reato penale militare nel sistema penale italiano,
Milano, 1976, 99 ss.).
[30] Nell’àmbito dell’oceanica
dottrina critica nei confronti della riforma, si vedano
a titolo emblematico: BATTISTA, Recidiva: dalla nuova
legge un pericoloso ritorno al passato, in Diritto e
giustizia, 2005, 46, 104 ss.; BERTOLINO, Problemi di
coordinamento della disciplina della recidiva: dal
codice Rocco alla riforma del 2005, in Rivista italiana
di diritto e procedura penale, 2007, 1123; BISORI, La
nuova recidiva e le sue ricadute applicative, in Le
innovazioni al sistema penale apportate dalla legge 5
dicembre 2005, n. 251, a cura di GIUNTA, Milano, 2006,
37-149; CORBETTA, op. cit., 53-96; DOLCINI, Le due anime
della legge “ex Cirielli”, in Il corriere del merito,
2006, 55; FLORA, Le nuove frontiere della politica
criminale: le inquietanti modifiche in tema di
circostanze e prescrizione, in Diritto penale e
processo, 2005, 1325; MAMBRIANI, La nuova disciplina
della recidiva e della prescrizione: contraddizioni
sistematiche e problemi applicativi, in Giurisprudenza
di merito, 2006, 837; MARINUCCI, La legge ex Cirielli:
certezza d’impunità per reati gravi e mano dura per i
tossicodipendenti in carcere, in Diritto penale e
processo, 2006, 170; MUSCATIELLO, La recidiva, Torino,
2008; PAVANI, Commento all’art. 4, l. 5.12.2005, in La
legislazione penale, 2006, 446; PADOVANI, Una novella
piena di contraddizioni che introduce disparità
inaccettabili, in Guida al diritto, Dossier n. 1, 2006,
32 ss.; PISTORELLI, Ridotta la discrezionalità del
giudice, in Guida al diritto, Dossier n. 1, 2006, 62
ss.; SCALFATI, Cade il bilanciamento delle circostanze,
in Guida al diritto, Dossier n. 1, 2006, 38 ss.
[31] Vedi nota 41.
[32] In realtà, la preclusione
contenuta in questo comma opera in relazione a qualsiasi
tipo di recidiva.
[33] Cfr. DELLA CASA, Approvata la
legge c.d. “svuota-carceri”: un altro “pannicello caldo”
per l’ingravescente piaga del sovraffollamento
carcerario?, in Diritto penale e processo, 2011, 1, 5.
[34] Al riguardo vanno ricordate a
titolo paradigmatico: la sent. Corte Cost. n. 257/06,
relativa alla concessione dei permessi premio; Id. n.
393/06, afferente all’applicabilità retroattiva dei
nuovi termini prescrizionali più brevi; Id. n. 79/07,
concernente l’illegittima esclusione dei benefici
(affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione
domiciliare, la semilibertà, l’assegnazione al lavoro
esterno, i permessi premio) per i meritevoli ante l. “ex
Cirielli”. Cfr. adde, nota 25.
[35] La recidiva “semplice” (art.
99, comma 1, c.p.) si ha quando il soggetto, dopo aver
riportato una sentenza definitiva di condanna per un
delitto non colposo, ne commette un altro. In questo
caso il reo può esser sottoposto ad un aumento (fisso)
di un terzo della pena da infliggere.
[36] La recidiva “monoaggravata”
(definita da alcuni semplicemente “aggravata”) si ha nei
tre casi indicati dal primo capoverso dell’art. 99 c.p.:
1) se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole
(c.d. recidiva “specifica”; per la definizione di “reati
della stessa indole” vedi l’art. 101 c.p., che non è
stato oggetto di riforma); 2) se il nuovo delitto non
colposo è stato commesso entro un lustro dalla condanna
precedente (c.d. recidiva “infraquinquennale”); 3) se il
nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o
dopo l’esecuzione della pena (c.d. recidiva “vera”),
oppure nell’arco di tempo in cui il condannato si
sottrae volontariamente dall’esecuzione della pena
(recidiva “finta”). Al ricorrere di una sola di queste
congiunture, l’aumento della pena può essere fino alla
metà della pena da infliggere. Si tratta dell’unica
ipotesi di recidiva che contempla un incremento
sanzionatorio variabile. Nel regime precedente gli
aumenti di pena collegati alle diverse figure di
recidiva erano tutti di questo tipo, non essendo
previsti incrementi fissi.
[37] Cfr. CORBETTA, op. cit., 67;
MANNUCCI, Recidiva, attenuanti, prescrizione, norme
transitorie: i problemi della legge, in
www.dirittoegiustizia.it, 8-12-2005; PISTORELLI, op.
cit., 63 s.
[38] Vedi BISORI, op. cit., 40,
nota 7; MELCHIONDA, op. cit., 180.
[39] Cfr., in termini, Cass. pen.,
Sez. III, 3 dicembre 2010, n. 1861.
[40] Quest’ipotesi si ha quando
concorrono più circostanze fra quelle che qualificano la
recidiva come “monoaggravata”. Il ricorrere di questa
condizione può determinare l’aumento (fisso) della metà
della pena da infliggere.
[41] Tale figura ricorre quando
l’autore del nuovo delitto non colposo è già recidivo.
Per quest’ipotesi gli aumenti (fissi) previsti sono
della metà o di due terzi della pena da irrogare, a
seconda che la recidiva precedente sia “semplice” o
“aggravata”. Con riferimento ai due distinti incrementi
sanzionatori previsti per la recidiva “reiterarata”
(particolarità presente nell’art. 99 c.p. sin dal 1930),
dottrina maggioritaria e giurisprudenza prevalente
reputano che a determinare la diversa entità
dell’aumento sia la pregressa tipologia di recidiva e
non il nuovo delitto commesso (cfr., da ultimo, Cass.
pen., Sez. II, 11 giugno 2009, n. 27599); contra, vedi
MANZINI, Istituzioni di diritto penale italiano Parte
generale, 7a ed. agg., Padova, 1941, 202.
[42] Cfr., e.g., PADOVANI, Una
novella piena di contraddizioni, cit., 32; SALERNO, Un
intervento in linea con la Costituzione, in Guida al
diritto, Dossier n. 1, 2006, 47. Circoscriveva, invece,
l’obbligatorietà alla sola recidiva “reiterata”
BATTISTA, op. cit., 105.
[43] Il cit. d.l. n. 99/74,
convertito, con modificazioni, dalla l. n. 220/74, oltre
a riformare l’art. 99 c.p., ha, infatti, introdotto
nell’art. 69 c.p. il criterio c.d. “dell’alternativa
funzionale” o “dell’alternativa esclusiva”, estendendo
il giudizio di bilanciamento a tutte le tipologie di
circostanze. Prima di questa modifica la recidiva, oltre
a non essere bilanciabile in nessuna delle sue forme,
veniva valutata per ultima (cfr. l’art. 69 c.p. nella
sua versione originaria).
[44] Una parziale deroga a questo
divieto di prevalenza è rinvenibile nel cit. art. 52,
comma 3, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, nel quale, in
relazione ai reati di competenza del giudice di pace, si
ammette la possibilità di prevalenza delle circostanze
attenuanti sulla recidiva “reiterata infraquinquennale”.
[45] Ad onor del vero, va détto che
non si tratta del primo caso di limitazione del giudizio
di bilanciamento delle circostanze. In effetti, anche
successivamente alla riforma del 1974, che, come
accennato, ha ammesso alla comparazione tutti i tipi di
circostanze, il legislatore ne ha rese alcune non
bilanciabili: le cc.dd. circostanze aggravanti
“blindate” o “privilegiate” in tale giudizio. Al
riguardo, si ricordino quelle in materia di: finalità di
terrorismo o di eversione dell’ordine democratico ex
art. 1 l. n. 15/80; di lesione e morte, contemplate
rispettivamente dai commi 2 e 4 dell’art. 280 c.p.
(Attentato per finalità terroristiche o di eversione);
di indebito conseguimento di contributi statali
stanziati in occasione del terremoto dell’Irpinia (art.
15 quater l. n. 874/80); di metodo o agevolazione
mafiosi (art. 7 l. n. 203/91); di determinazione al
reato nei casi previsti dall’art. 7 l. n. 172/92; di
discriminazione razziale (art. 3 l. 205/93); di
favoreggiamento all’immigrazione clandestina (art. 12,
comma 3 quater, d.lgs. n. 286/98); di riduzione in
schiavitù, di tratta e di prostituzione e pornografia
minorili (art. 600-sexies, ultimo comma, c.p.); di reati
transnazionali (artt. 280 bis c.p. e 4 l. n. 146/06); di
guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze
stupefacenti e di omicidio e lesioni colpose causati da
chi versa in tali stati psicofisici (artt. 186, comma 2
sexies, e 187 c.d.s.; art. 590 bis c.p.); di rapina e di
estorsione (artt. 628, commi 3 bis, 3 ter e 3 quater, e
629, comma 2, c.p.). Occorre, tuttavia, constatare che,
contrariamente a tutte le ipotesi appena elencate, la
“blindatura” prevista dall’art. 69, comma 4, c.p. ha una
radice soggettiva, non essendo, infatti, legata al dato
oggettivo del reato commesso, bensì al tipo di autore.
[46] Tra le riserve critiche
nell’immediatezza dell’entrata in vigore di questa
norma, cfr. AMATO, Il recidivo va a caccia di
“generiche”, in Guida al diritto, Dossier n. 1, 2006,
60; DE NICOLO, Primi problemi applicativi della legge
“ex Cirielli, in Diritto penale e processo, 2006, 51;
FIANDACA, MUSCO, Diritto penale Parte generale, Addenda
alla 4a ed. agg., Bologna, 2004, 7; ROCCHI, La
discrezionalità della recidiva reiterata “comune”:
implicazioni sul bilanciamento della prescrizione e
sugli altri effetti ad essa connessi, in Cassazione
penale, 11, 4097; ROSI, Effetti della recidiva reiterata
su attenuanti generiche e comparazione, in AA.VV.,
Nuove norme su prescrizione del reato e recidiva, a cura
di SCALFATI, Padova, 2006, 13 ss.; SCALFATI, Cade il
bilanciamento delle circostanze, cit., 39.
[47] Un “appiattimento
sanzionatorio” o “livellamento” che, secondo questa
visione, sussisteva anche all’interno della stessa
categoria dei recidivi reiterati, dove gli imputati
meritevoli di una pluralità di attenuanti venivano
parificati a quelli ai quali ne fosse stata riconosciuta
una sola; i recidivi per reati “bagatellari” erano
equiparati a quelli per reati gravissimi; i recidivi per
delitti risalenti nel tempo a quelli per delitti
commessi recentemente.
[48] Queste due linee di pensiero,
inconciliabili con il nostro sistema penale
costituzionalizzato, appartengono alla dottrina tedesca
di orientamento nazionalsocialista: ci riferiamo al
“diritto penale della volontà” della scuola di Kiel
(Dahm, Schaffstein, ecc.) e alla teoria della “colpa
d’autore” di Täterschuld. Simili concezioni erano alla
base anche di ordinamenti più recenti, fortunatamente
non più in vigore, come quelli comunisti che
caratterizzavano l’Unione Sovietica e la Jugoslavia.
[49] Per onere di completezza va
ricordato che era stata lamentata anche la violazione
degli artt. 101, comma 2, e 111, primo e sesto comma,
Cost., dovuta all’asserita impossibilità per il giudice
di adempiere nel processo all’obbligo di adeguare la
pena al caso concreto e di irrogare una sanzione
rieducativa (cfr. ordinanza di rimessione del Tribunale
di Firenze emessa il 24 febbraio 2006 ed iscritta al n.
406 del registro ordinanze 2006; su tale provvedimento
la Consulta si è espressa con sent. n. 192/07: vedi
ampiamente infra).
[50] Vedi ordinanza di rimessione
della Suprema Corte depositata il 14 ottobre 2007 ed
iscritta al n. 440 del registro ordinanze 2008 (su di
essa la Corte Cost. si è pronunciata con l’ord. n.
171/09).
[51] Vedi nota 61.
[52] La decisione in argomento è
emblematica di quel nuovo filone ermeneutico della
giurisprudenza costituzionale, nel quale le sentenze (di
merito) interpretative di rigetto vengono vieppiù
sostituite da pronunce (processuali) di inammissibilità
della questione, basate sul rilievo che il giudice a quo
ha omesso di ricercare o di preferire la c.d.
interpretazione “adeguatrice” (id est, quella soluzione
interpretativa costituzionalmente conforme, la cui
sperimentazione da parte del rimettente risulta doverosa
prima di sollevare la questione di legittimità
costituzionale, costituendo una sòrta di “precondizione”
della pregiudiziale di costituzionalità). Vedi, in tema,
SORRENTI, La Costituzione “sottintesa”, in Corte
costituzionale, giudici comuni e interpretazioni
adeguatrici (Seminario di studio: Palazzo della Consulta
6 novembre 2009), 19 ss., disponibile sul sito
www.cortecostituzionale.it.
[53] Cfr. Cassazione penale, 2007,
11, 4037 ss. Per un’analisi approfondita sugli effetti
di questa decisione, vedi VINCENTI, La sentenza della C.
Cost. n. 192 del 2007: facoltatività della recidiva
reiterata e interpretatio abrogans del nuovo art. 69,
comma 4, c.p., in Cassazione penale, 2008, 532 ss.
[54] Absit iniuria verbis:
CALAMANDREI, in La illegittimità costituzionale delle
leggi nel processo civile, Padova, 1950, XII, diceva che
il giudice funge da “portiere” o “introduttore
necessario” del giudizio di legittimità costituzionale
innanzi alla Corte.
[55] La Consulta, nel corpo di
questo provvedimento, sottolineava, tra l’altro,
l’assenza di un’interpretazione monolitica su tali norme
anche in seno alla Suprema Corte di Cassazione, la
quale, durante il poco tempo intercorso dalla loro
entrata in vigore, aveva avuto rare occasioni di
pronunciarsi su di esse e lo aveva fatto in modo
disforme (cfr. punto n. 4 delle considerazioni in
diritto della cit. sent.).
[56] Tale attributo accorpa tutte
le ipotesi di recidiva diverse da quella “semplice”.
[57] Tra coloro che propendevano
per questa tèsi ancor prima dell’intervento della
Consulta, cfr. BISORI, op. cit., 51; CORBETTA, op. cit.,
74-77; DOLCINI, op. cit., 56; MANNUCCI, op. cit.;
MELCHIONDA, op. cit., 181; PALAZZO, Corso di diritto
penale Parte generale, Torino, 2006, 532; PISTORELLI,
op. cit., 62; SCALFATI, Cade il bilanciamento delle
circostanze, cit., 40.
[58] Il codice penale rimette
all’apprezzamento discrezionale del giudice della
cognizione tutta una serie di opzioni che gli permettono
di adottare la decisione più adeguata alla situazione
concreta. Si pensi, verbi gratia, alla commisurazione
della sanzione tra minimo e massimo (artt. 132 ss.
c.p.); alla determinazione del quantum della variazione
di pena prodotta dalla circostanza del reato (artt. 63
ss. c.p.); alla richiamata applicazione delle
circostanze facoltative (e.g., oltre all’art. 99, commi
1 – 4, c.p., l’art. 62 bis c.p.); al giudizio di
bilanciamento delle circostanze eterogenee (art. 69
c.p.); all’applicazione delle sanzioni sostitutive
(artt. 53 ss. l. n. 689/81); all’irrogazione della multa
ove non prevista, nel caso di delitti determinati da
motivi di lucro (art. 24, comma 2, c.p.); all’aumento o
alla diminuzione dei limiti edittali della pena
pecuniaria in relazione alle condizioni economiche del
reo (art. 133 bis, comma 2, c.p.); alla rateizzazione
della pena pecuniaria in relazione alle condizioni
economiche del condannato (art. 133 ter c.p.); alla
sospensione condizionale della pena (artt. 163 ss.
c.p.); alla non menzione della condanna nel certificato
del casellario giudiziale (art. 175 c.p.);
all’applicazione delle misure di sicurezza (artt. 202
ss. c.p.); alla dichiarazione delle varie tipologie di
delinquente qualificato (art. 102 ss. c.p.). In tutti
questi casi, in cui il giudicante dispone di una margine
di scelta, gli indici di cui all’art. 133 c.p.
rappresentano per lui un indefettibile strumento per
addivenire ad una corretta valutazione. Sul tema, vedi
BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale. Nozione
e aspetti costituzionali, Milano, 1965, 1-100; CARUSO,
La discrezionalità penale nella commisurazione della
pena: dovere conoscitivo o potere dispositivo del
giudice, in L’indice penale, 2006, 557-581.
[59] Secondo una parte della
giurisprudenza l’obbligo di “puntuale motivazione”
sussisterebbe in capo al giudice soltanto quando esclude
la recidiva e non anche quando la ritiene configurabile:
cfr., e.c., Cass. pen., Sez. IV, 2 luglio 2009, n.
36915; Id., Sez. III, 18 febbraio 2009, n. 13923.
[60] Una concezione della recidiva
come status soggettivo discendente dalla contestazione
del solo dato formale della ricaduta delittuosa, di cui
il giudice si limita a verificare la correttezza,
sarebbe inconciliabile con i principî generali del
diritto penale moderno e con i cardini costituzionali,
ai quali esso deve necessariamente ispirarsi.
[61] La prima delle ordinanze di
manifesta inammissibilità alle quali ci riferiamo è
addirittura coeva della sentenza in argomento; si
tratta, infatti, dell’ord. Corte Cost. n. 198 del 14
giugno 2007 (riguardo alla particolarità di questa
pronuncia, vedi VINCENTI, op. cit.). Seguono: ord. Corte
Cost. n. 409 del 30 novembre 2007; Id. n. 33 del 21
febbraio 2008; Id. nn. 90 e 91 del 4 aprile 2008; Id. n.
193 del 6 giugno 2008; Id. n. 257 del 10 luglio 2008;
Id. 171 del 29 maggio 2009. A ribadire che la recidiva
“reiterata” di cui all’art. 99, comma 4, c.p. è una
circostanza facoltativa nell’an e vincolata nel quantum
sono intervenute anche numerose decisioni del Giudice di
legittimità, tra le quali vale la pena di ricordare:
Cass. pen., SS.UU., 24 febbraio 2011, n. 20798; Id.,
Sez. II, 9 febbraio 2011, n. 6950; Id., Sez. II, 27
ottobre 2010, n. 6422; Id., Sez. V, 30 gennaio 2009, n.
13658; Id., Sez. III, 25 settembre 2008, n. 45065; Id.,
Sez. VI, 16 luglio 2008, n. 34702; Id., Sez. I, 15
aprile 2008, n. 17313; Id., Sez. II, 5 dicembre 2007, n.
46243; Id., Sez. IV, 11 aprile 2007, n. 16750.
[62] La problematica si è
sviluppata nel momento in cui, nel 1974, la
facoltatività della recidiva da ipotesi eccezionale è
divenuta regola esclusiva: cfr. ANTOLISEI, Manuale di
diritto penale Parte generale, 7a ed. agg., Milano,
1975, 538.
[63] Cfr. Corte Cost. 14 giugno
2007, n. 192 e le altre ordinanze indicate supra, nella
nota 61.
[64] Oltre alle tante ordinanze di
rimessione afferenti alla questione di legittimità
costituzionale degli artt. 69, comma 4, e 99, comma 4,
c.p. (più volte richiamate ante), vedi Cass. pen., Sez.
IV, 22 febbraio 2008, n. 15232 e Id. Sez. VI, 27
febbraio 2007, n. 18302.
[65] Si ricordi che, come
ripetutamente affermato dalle Sezioni Unite, la
recidiva, in quanto circostanza aggravante, deve essere
obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero in
ossequio al principio del contraddittorio (cfr. Cass.
pen., Sez. II, 27 ottobre 2010, n. 6422; Id., SS.UU., 27
maggio 2010, n. 35738; Id., 23 gennaio 1971, Piano; Id.,
27 maggio 1961, P.M. in proc. Papò, rv. 98479). La
necessità della contestazione viene riconosciuta persino
da quegli autori che contestano la natura circostanziale
della recidiva: cfr., a titolo paradigmatico, MANTOVANI,
Diritto penale Parte generale, 2007, 683. Secondo la
dottrina prevalente, tale contestazione non può essere
generica, bensì deve contenere i tipi e i gradi
dell’istituto: cfr. MARINUCCI, DOLCINI, Manuale di
diritto penale Parte generale, Milano, 2004, 362.
[66] Cfr., tra le più recenti in
senso adesivo, Cass. pen., SS.UU., 24 febbraio 2011, n.
20798; Id., Sez. V, 24 gennaio 2011, n. 9636; Id., Sez.
II, 11 novembre 2010, n. 41512; Id., Sez. II, 9 novembre
2010, n. 40160; Id., Sez. II, 27 ottobre 2010, n. 6422;
Id., Sez. VI, 7 ottobre 2010, n. 43771; Id., SS.UU., 27
maggio 2010, n. 35738; Id., Sez. V, 15 maggio 2009, n.
22871; Id., Sez. V, 30 gennaio 2009, n. 13658; Id., Sez.
IV, 29 gennaio 2009, n. 5488. Contra, vedi Cass. pen.,
Sez. I, 11 febbraio 2010, n. 8113.
[67] A riprova del fatto che la
regolare contestazione da parte del p.m. venga
considerata condizione necessaria ma non sufficiente
affinché la recidiva rilevi agli effetti penali, vi è la
congiuntura che, per orientamento consolidato, la
sentenza che la applica ha natura costitutiva e non
meramente dichiarativa del particolare status del
soggetto desumibile dal suo certificato penale (cfr.
Cass. pen., Sez. VI, 27 febbraio 2007, n. 18302; Id.,
Sez. I, 6 ottobre 2004, n. 46229; in dottrina, vedi
AMBROSETTI, op. cit., passim; BISORI, op. cit., 52-68).
Si ricordi, inoltre, che, per giurisprudenza costante
(cfr., ex multis, Corte Cost. 8 ottobre 2010, n. 291 e
Cass. pen., SS.UU., 24 luglio 1991, n. 17), la
circostanza aggravante si considera “applicata” non solo
quando viene attivato il suo effetto tipico di
incremento della pena, ma anche quando svolge,
all’interno del giudizio di bilanciamento, la funzione
di paralizzare una circostanza attenuante, impedendole
di alleviare la pena da irrogare in concreto. In
relazione a quest’ultimo argomento, cfr. l’analisi di DE
VERO in Circostanze del reato e commisurazione della
pena, Milano, 1983, 200 ss.
[68] È chiaro che nell’ipotesi di
recidiva obbligatoria (art. 99, comma 5, c.p.), che
analizzeremo infra, l’incremento sanzionatorio e gli
effetti “commisurativi della sanzione” dovranno
necessariamente prodursi in quanto sottratti alla
valutazione discrezionale del giudice (cfr. Cass. pen.,
Sez. II, 4 luglio 2007, n. 32876).
[69] Cfr. Cass. pen., SS.UU., 27
maggio 2010, n. 35738.
[70] Il comma in argomento è stato,
infatti, interpolato nell’art. 444 c.p.p. dalla l. 12
giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura
penale in materia di applicazione della pena su
richiesta delle parti), la quale ha introdotto il c.d.
“patteggiamento allargato”.
[71] Laddove il patteggiamento
“tradizionale” (così definito perché la sua esistenza è
precedente alla vigenza del codice “Vassalli”) permette
all’imputato e al p.m. di accordarsi su di una sanzione
sostitutiva o pecuniaria o su una pena detentiva fino a
due anni sola o congiunta a pena pecuniaria, quello
“allargato” consente l’accordo su di una sanzione da due
anni ed un giorno fino a cinque anni di pena detentiva
sola o congiunta a pena pecuniaria.
[72] Cass. pen., Sez. VI, 9
dicembre 2008, P.M. in proc. Ogana, rv. 242148; Id.,
Sez. II, 4 dicembre 2006, P.M. in proc. Cicchetti, rv.
235620. Sulla sufficienza della contestazione con
particolare riguardo agli effetti “commisurativi della
sanzione”, adde Cass. pen., Sez. I, 11 febbraio 2010, n.
8113.
[73] Vedi Cass. pen., Sez. I, 13
novembre 2008, P.M. in proc. Manfredi, rv. 242509; Id.,
Sez. VI, 16 settembre 2004, P.M. in proc. Bonfanti, rv.
230378. Tale indirizzo risulta essere quello
maggioritario in dottrina: cfr. MARINUCCI, DOLCINI,
Manuale di diritto penale Parte generale, cit., 364;
MAZZA, op. cit., 68; PEDRAZZI, La nuova facoltatività
della recidiva, in Rivista italiana di diritto e
procedura penale, 1976, 304; PITTARO, op. cit., 362;
ROMANO, op. cit., 97; VIRGILIO, Della recidiva, della
abitualità e professionalità nel reato e della tendenza
a delinquere, in BRICOLA, ZAGRELBESKY, Codice penale
Parte generale, II, Torino, 1996, 875.
[74] Vedi artt. 102, 103, 105, 108
e 109 c.p.
[75] Cit. l. 26 luglio 1975, n. 354
(Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della libertà).
[76] Tra questi: la separazione dei
processi [artt. 18, comma 1, lett. e bis), e 533, comma
3 bis, c.p.p.]; le attribuzioni del tribunale in
composizione collegiale (art. 33 bis, comma 1, lett. a),
c.p.p.); le intercettazioni per le ricerche di un
latitante (art. 295, comma 3 bis, c.p.p.); la custodia
cautelare [artt. 301, comma 2 bis; 303, comma 1, lett.
a), n. 3 e lett. b), n. 3 bis; 304, comma 2; 307, comma
1 bis, c.p.p.]; la comunicazione delle iscrizioni nel
registro delle notizie di reato (art. 335, comma 3,
c.p.p.); la comunicazione della notizia di reato da
parte della polizia giudiziaria (art. 347, comma 3,
c.p.p.); le indagini preliminari (artt. 405, comma 2, e
406, comma 5 bis, c.p.p.). Proprio con riferimento a
quest’ultimo punto va ricordato che nelle originarie
intenzioni del legislatore l’elencazione contenuta
nell’art. 407, comma 2, lett. a) doveva individuare i
casi di indagini “fisiologicamente” complesse.
[77] Vedi, e.g., FIANDACA, MUSCO,
Diritto penale Parte generale, Addenda alla 4a ed. agg.,
cit., 5.
[78] Il pensiero corre, oltre che
alla ricordata riforma del 1974 in tema di recidiva,
alle pronunce della Corte Costituzionale (nn. 1/71,
139/82 e 249/83) e alla l. 10 ottobre 1986, n. 663 (c.d.
legge “Gozzini”, contenente modifiche alla legge
sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle
misure privative e limitative della libertà), che hanno
progressivamente abolito le varie figure di pericolosità
sociale legalmente presunta contenute nella disciplina
originaria delle misure di sicurezza. In tema di
presunzione di pericolosità, adde Corte Cost. nn. 139,
189, 265 e 291 del 2010.
[79] Vedi Cass. pen., Sez. II, 11
giugno 2009, n. 27599; Id., Sez. IV, 11 aprile 2007, n.
16750.
[80] Vedi, v.g., FIANDACA, MUSCO,
Diritto penale Parte, Addenda alla 4a ed. agg., cit., 4
e 5.
[81] Vedi infra, Cass. pen.,
SS.UU., 24 febbraio 2011, n. 20798; in termini, cfr.
anche Cass. pen., Sez. I, 12 novembre 2009, n. 46875;
Id., Sez. IV, 2 luglio 2007, n. 29228. Per la dottrina
adesiva, vedi CARUSO, voce Recidiva, in Digesto delle
discipline penalistiche, 4° agg., Torino, 2008,
1037-1062; CORBETTA, op. cit., 78; contra cfr.
MELCHIONDA, op. cit., 181 s.
[82] Come già sottolineato (vedi
nota 50), tra i vari provvedimenti di rimessione che
hanno determinato la più recente delle decisioni
invocate (l’ord. Corte Cost. n. 171/09), figurava,
infatti, l’ordinanza della Suprema Corte di Cassazione
del 14 ottobre 2007, iscritta al n. 440 del registro
ordinanze 2008.
[83] In effetti, anche il Giudice
delle leggi è di norma tenuto al rispetto del “principio
di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato”.
Détta regola soffre, solo eccezionalmente, di qualche
deroga: verbigrazia, nel caso delle sentenze
“interpretative” di accoglimento o di rigetto (vedi
MARTINES, Diritto Costituzionale, Milano, 2007, 328
ss.).
[84] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 9
novembre 2010, n. 40137; Id., Sez. I, 23 settembre 2010,
n. 36218; Id., Sez. I, 12 novembre 2009, n. 46875; Id.,
Sez. II, 11 giugno 2009, n. 27599; Id., Sez. II, 5
dicembre 2007, n. 46243. In dottrina, invece, sembra
prevalere l’indirizzo che esige la contestuale
sussunzione nell’art. 407 c.p.p. di ambi i reati, quello
“a monte” e quello “a valle” della recidiva: cfr., in
tal senso, CARUSO, voce Recidiva, in Digesto delle
discipline penalistiche, 4° agg, cit. 1037-1062;
CORBETTA, op. cit., 78.
[85] Rectius, se tale qualifica sia
compatibile con quella di “circostanza inerente alla
persona del colpevole” conferita ex professo dallo
stesso codice penale (art. 70 cpv.). Si ricordi che
l’unica ipotesi di recidiva che rimane al di sotto della
soglia aggravante caratteristica delle circostanze ad
effetto speciale è quella “semplice”, di cui all’art.
99, comma 1, c.p.
[86] La giurisprudenza sottolinea
che la circostanza aggravante soccombente, che consente
al giudice di applicare un ulteriore aumento di pena, si
trasforma da circostanza ad effetto speciale in
circostanza facoltativa comune, poiché il legislatore
non ha predeterminato l’entità della variazione di pena
che il giudicante può apportare.
[87] Tra le più recenti in termini,
cfr. Cass. pen., Sez. II, 22 ottobre 2010, n. 40114;
Id., Sez. I, 17 marzo 2010, n. 18513; Id., Sez. II, 16
giugno 2009, n. 26517. In senso adesivo, adde nota
seguente. Contra, cfr. Cass. pen., Sez. II, 4 marzo
2009, n. 11105; Id., Sez. VI, 22 novembre 1994, n. 1485.
[88] Vedi, e.c., Cass. pen., Sez.
V, 7 giugno 2010, n. 35852; Id., Sez. V, 24 marzo 2009,
n. 22619; Id., Sez. VI, 4 novembre 2008, n. 44591; Id.,
Sez. II, 21 ottobre 2008, n. 40978; Id., Sez. VI, 16
ottobre 2008, n. 40627; Id., Sez. II, 9 aprile 2008, n.
19565.
[89] Vedi Cass. pen., Sez. II, 16
giugno 2009, n. 26517, che, però, esclude l’operatività
dell’art. 63, comma 4, c.p. solo riguardo al concorso
della recidiva obbligatoria con quelle circostanze
aggravanti ad effetto speciale espressamente previste
dall’art. 407, secondo comma, lett. a), c.p.p.
[90] La norma ha subìto diverse
modifiche nel corso nel tempo, alcune delle quali hanno
riguardato proprio il riferimento alla recidiva. Laddove
il testo originario fissava che ai fini del computo in
argomento non si dovesse tener conto della recidiva, la
novellazione intervenuta ad opera del d.l. n. 60/91
convertito, con modificazioni, dalla l. n. 133/91 aveva,
invece, stabilito che essa dovesse esser considerata
solo nell’ipotesi in cui si trattasse di recidiva
“reiterata specifica infraquinquennale”. La l. n. 332/95
“azzerava” questa modifica, stabilendo di nuovo a chiare
lettere che la recidiva era ininfluente per il calcolo
in questione; l’art. 278 c.p.p. rimaneva immutato sotto
quest’aspetto anche quando veniva introdotta la più
recente delle modificazioni, quella generata ad opera
della l. n. 128/01, che dava vita al testo attualmente
vigente. Da rilevare che la versione in vigore dell’art.
278 c.p.p. presenta, per ciò che a noi interessa in
questa sede, diverse analogie con l’art. 4 c.p.p., il
quale nel fissare le regole per la determinazione della
competenza stabilisce che “per determinare la competenza
si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per
ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto
della continuazione, della recidiva e delle circostanze
del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti
per le quali la legge stabilisce una pena di specie
diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad
effetto speciale.”.
[91] Come abbiamo avuto modo di
vedere nella pagine immediatamente precedenti e come
emerge dallo stesso espresso rinvio contenuto nella
sentenza di cui si discute, le Sezioni Unite, nel corso
della medesima giornata, avevano già palesato il loro
orientamento sul tema, motivandolo funditus, nel
decidere un ricorso che nell’ordine di ruolo precedeva
quello in esame.
[92] In senso adesivo, cfr. Cass.
pen., Sez. VI, 15 aprile 2009, n. 21546; Id., Sez. III,
8 marzo 2006, n. 19397; Corte Cost. 13 giugno 2006, n.
223; Cass. pen., Sez. II, 26 luglio 1999, n. 2771; Id.,
Sez. V, 25 agosto 1998, n. 4995; Id., SS.UU., 26
febbraio 1997, n. 1. Contra, vedi Cass. pen., Sez. II,
10 luglio 2008, n. 29142.
[93] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 11
novembre 2010, n. 41512; Id., Sez. II, 9 novembre 2010,
n. 40137; Id., Sez. II, 21 ottobre 2010, n. 40103; Id.,
Sez. II, 11 giugno 2009, n. 27599; Id., Sez. V, 30
gennaio 2009, n. 13658.
[94] Cfr. CARUSO, Diritto penale e
processo, 2009, 11, 1409.
[95] Così Cass. Pen., Sez. II, 9
febbraio 2011, n. 6950; Id., Sez. II, 11 novembre 2010,
n. 41512; Id., Sez. I, 15 aprile 2008, n. 17313.
[96] Tra le vicende ermeneutiche
omesse si segnala quella concernente il divieto di
concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali
per più di una volta al condannato al quale sia stata
applicata la recidiva “reiterata” facoltativa (art. 58
quater, comma 7 bis, l. n. 354/75), risolta grazie
all’apporto interpretativo della Corte Costituzionale
contenuto nella già citata sentenza di inammissibilità
n. 291/2010 (la pronuncia processuale de qua appartiene
a quel medesimo filone evolutivo della giurisprudenza
costituzionale, segnalato in precedenza a proposito
della sent. n. 192/07: vedi supra, nota 52). Altra
questione tralasciata è stata quella relativa ad un
indirizzo minoritario che, in virtù del principio della
legge più favorevole al reo, nega l’applicabilità del
regime introdotto dalla legge “ex Cirielli” nei casi in
cui il nuovo reato sia stato commesso durante la sua
vigenza, mentre quelli pregiudicanti siano stati posti
in essere in data anteriore. L’insostenibilità di tale
orientamento è stata ribadita dalla sent. Cass. pen.,
Sez. II, 25 gennaio 2011, n. 6912.
[97] A questo riguardo va
rammentato che la dottrina è stata fortemente critica
riguardo all’aspetto linguistico e sintattico delle
formulazioni legislative introdotte con la riforma del
2005, muovendo severe censure non solo nei confronti del
testo dell’art. 99 c.p., ma anche delle altre
disposizioni oggetto di novellazione. Si è parlato
dell’utilizzo da parte del legislatore di uno stile “oracolare”,
che esige da parte dell’interprete vere e proprie opere
di “ortopedia o sutura esegetiche”: cfr. CARUSO, voce
Recidiva, in Digesto delle discipline penalistiche, 4°
agg., cit., 1037-1062; PADOVANI, Alcuni rilievi sul
progetto ex Cirielli, in www.camerepenali.it. |