(Fabrizio Sigillò, Maria Morena
Ragone)
Concluso in tempi da record il
percorso del decreto legge 98/2011 recante “Misure
urgenti per la stabilizzazione finanziaria”, rapidamente
convertito nella Legge 111 del 15 luglio 2011 pubblicata
su Gazzetta Ufficiale n. 164 del 16 luglio 2011.
Le note che seguono si prefiggono
di esaminare unicamente la parte delle disposizioni in
materia di giustizia, risultate sostanzialmente
invariate nel passaggio tra Senato e Camera ed il cui
contenuto pare riproporre - pressochè pedissequamente -
la sezione di quella bozza di decreto sulla
‘rottamazione del processo civile’, commentata nel mese
di febbraio di questo anno e che, per quanto anonima e
di incerta provenienza, appariva fin troppo dettagliata
per non potersi ritenere definitiva ed in attesa del
solo “lancio”. Poco più di quattro mesi e quel decreto,
completato dalle necessarie revisioni - comprensive dei
profili economici allora solo menzionati - viene
inserito nella ormai vigente manovra finanziaria.
Dal connubio tra i due testi
deriva, per l’ennesima volta, un intervento sulle
strutture processual civilistiche - e stavolta anche
amministrative e tributarie - inserite in un contesto
niente affatto specialistico, poichè afferente ad un
intervento destinato ad aumentare i flussi di cassa a
sostegno dei conti statali e realizzato - more solito -
con consistenti aggravi di spesa, sempre più orientati
ad una forzata riduzione del ricorso all’autorità
giudiziaria da parte del cittadino, conseguita, in
questo caso, con un ulteriore aumento dei relativi
costi.
Se solo qualche anno fa si fosse
immaginato che lo sbandierato effetto deflattivo del
ricorso alla giustizia sarebbe stato agevolmente
raggiungibile tramite periodici e regolari aumenti del
contributo unificato (nato invero per alleviare
l’imprevedibile numero di marche da bollo, direttamente
proporzionali alle attività processuali ed
all’estensione delle pagine); introduzione di sistemi
di ADR (che nel testo di cui si discute di seguioto,
trovano un’improvvisa dislocazione anche in materia
tributaria) e ricorso all’ausilio dei giudici onorari,
è assai probabile che si sarebbe agevolmente riusciti
ben prima nel contenimento dei dilaganti effetti
connessi dall’applicazione della c.d. Legge Pinto.
Nella sua prima versione - diffusa
il 28 giugno - il testo della manovra conteneva anche
norme relative al contestatissimo ‘processo breve’, poi
stralciate dalla legge che andiamo ad illustrare e che
mette da parte - almeno al momento - anche la sezione
relativa alla liberalizzazione delle professioni
regolamentate e all’abolizione dei relativi ordini
professionali, che - si ipotizza - possano trovare sede
in un autonomo disegno di legge (per come sollecitato
nel corso della discussione della legge di conversione).
Apparentemente semplice il compito
del lettore del testo, sostanzialmente limitato alle
disposizioni contenute all’interno del Titolo II recante
“Disposizioni per lo sviluppo” e, precisamente, agli
articoli da 37 a 39.
L’articolo 37 ha ad oggetto le
“Disposizioni per l'efficienza del sistema giudiziario
e la celere definizione delle controversie”.
Un primo punto che merita di essere
evidenziato è contenuto proprio nell’incipit del testo
dell’articolo 37, le cui disposizioni, lette
coordinatamente, evidenziano l’importante attribuzione
di responsabilità al capo dell’Ufficio Giudiziario
chiamato, ai sensi del comma 1 della norma, a redigere,
entro il 31 gennaio di ogni anno, un programma per la
gestione dei procedimenti civili, amministrativi e
tributari, contenente, tralaltro, le previsioni di
riduzione della durata dei procedimenti nel corso
dell’anno - praticamente l’unico riferimento residuo
all’originario inserimento del decreto relativo al
processo breve - e gli obiettivi di rendimento
dell’ufficio.
Tali programmi vengono comunicati
all’Ordine degli Avvocati di appartenenza e al Consiglio
Superiore della Magistratura e le sue risultanze
effettive rileveranno in sede di valutazione per la
conferma dell'incarico direttivo ai sensi dell'articolo
45 comma 2 del decreto legislativo 5 aprile 2006 n. 160.
La prima impressione generale è che
si tratti di una operazione di cut & drop delle numerose
best practises realizzate in alcuni tribunali italiani
sotto forma di protocolli d’intesa tra gli uffici
giudiziari e l'avvocatura, qui definitivamente
istituzionalizzati senza l’adeguata ed indispensabile
considerazione sulle autonomie di ogni singola sede
giudiziaria e sulle rilevanti differenze - di uomini,
di mezzi e di organizzazione - vigenti tra le stesse,
anche relativamente alle materie trattate.
La norma mira, ad ogni modo, a
sollecitare l'interesse dei Capi degli uffici
all’l’elaborazione di nuove idee (o la realizzazione di
vecchie) per la concreta funzionalità degli uffici, in
termini di riduzione della durata dei procedimenti
concretamente raggiungibili, di obiettivi di rendimento
dell'ufficio ed in rapporto a ordine di priorità nella
trattazione dei procedimenti pendenti, individuati
secondo criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto
della durata della causa, anche con riferimento agli
eventuali gradi di giudizio precedenti, nonché della
natura e del valore della stessa.
Sul piano teorico, l’iniziativa non
potrebbe che apparire apprezzabile, non foss'altro
perchè virtualmente idonea a sollecitare il superamento
degli standard ordinari con cui l'ufficio giudiziario
smaltisce l’arretrato.
La sua pratica attuazione rischia,
però, di scontrarsi inevitabilmente con le secolari
problematiche - quali il ridotto numero dei magistrati e
del personale di cancelleria - solitamente predominanti
rispetto alle modalità ed all’elasticità nella gestione
del contenzioso, e suscettibili di prevalere
sull’ipotizzata uniformità del trattamento delle cause.
Dubbi pone, in particolare, la
previsione di cui al comma 3 dell’articolo in esame, che
fissa in 60 giorni (in sede di prima applicazione) il
termine per la predisposizione del programma di cui ai
commi precedenti, a valere a tutto il 31 dicembre 2012;
l’obiettivo sembra francamente di difficile
realizzazione, anche perchè coincidente con l’imminente
pausa agostana, che renderà difficile la predisposizione
di tavoli di studio e d’incontro con le rappresentanze
professionali ivi indicate.
Difficile ritenere, altresì che lo
stesso periodo festivo possa essere impegnato per la
realizzazione delle finalità indicate ai commi 4 e 5
dell’art. 37 e, particolarmente, di quella parte
prevedente che “in relazione alle concrete esigenze
organizzative dell'ufficio, i capi degli uffici
giudiziari possono stipulare apposite convenzioni...
con le facolta' universitarie di giurisprudenza,
con le scuole di specializzazione per le
professioni legali... e con i consigli dell'ordine
degli avvocati per consentire ai piu' meritevoli... lo
svolgimento presso i medesimi uffici giudiziari del
primo anno del corso di dottorato di ricerca, del
corso di specializzazione per le professioni legali o
della pratica forense per l'ammissione all'esame di
avvocato.”
Il comma 5 aggiunge, poi, che
“coloro che sono ammessi alla formazione
professionale negli uffici giudiziari assistono e
coadiuvano i magistrati che ne fanno richiesta nel
compimento delle loro ordinarie attivita', anche con
compiti di studio...”.
L’uso della congiunzione ‘anche’
induce a rilevare come i ‘compiti di studio’ siano solo
una delle possibili attività che i soggetti selezionati
tra i più meritevoli - studenti o laureandi delle
facoltà universitarie di giurisprudenza, studenti e
specializzandi delle scuole di specializzazione per le
professioni legali, praticanti e avvocati dei consigli
dell’ordine - potranno essere chiamati a svolgere.
Nè particolarmente dettagliata
appare poi l’espressione ‘ordinarie attività’, che
lascia in forse l’effettivo contenuto dei compiti
demandati ai coadiutori, da essi peraltro svolti - al
contrario del magistrato con cui collaborano - senza
“...alcuna forma di compenso, di indennita', di
rimborso spese o di trattamento previdenziale da
parte della pubblica amministrazione”, stante la
caratteristica dell’iniziativa, che dichiaratamente non
prevede “oneri per la finanza pubblica’:
Il comma 6 dell’articolo 37
introduce la sezione del decreto dichiaratamente
orientata al perseguimento dell’efficienza del sistema
giudiziario e della celere definizione delle
controversie: il nesso (affatto scontato per chi scrive)
parrebbe desumersi dalla lettura dei commi da 6 a 10 che
affrontano la questione delle spese di giustizia di cui
al D.P.R. 115 del 30 maggio 2002, prefigurando una
rapida definizione dei giudizi.
La spiegazione ufficiale si evince
dal contenuto del comma 10 dell’articolo 37: che così
recita: “il maggior gettitoderivante dall’applicazione
delle disposizioni di cui ai commi 6, 7, 8 e 9 - che
analizziamo in seguito - è versato all’entrata del
bilancio dello Stato per essere riassegnato ad apposito
fondo istituito nello stato di previsione del Ministero
dell’economia e delle finanze, per la realizzazione di
interventi urgenti in materia di giustizia civile,
amministrative e tributaria”.
Contribuisce, d’altra parte, a
rendere ancor più palpabile il ravvisato legame, la
disamina dell’intero testo, che rivela, tralaltro,
l’ampliamento del novero dei giudizi assoggettati al
versamento del contributo unificato in materia civile,
gli aumenti in quella amministrativa e l’ufficiale
introduzione nel processo tributario - cfr. comma 6 e
dell’art. 9 comma 1 - dell’obbligo di versamento del
contributo unificato per le spese di giustizia, con il
riferimento al Titolo II della parte I del D.P.R.
115/02.
L’elaborazione della tabella di
contributo unificato dovute in materia tributaria
sembrerebbe mancante di una voce - niente affatto rara -
immancabilmente presente della casistica giudiziale: le
cause di valore indeterminato.
Dovrebbe in tal senso fungere da
guida la disciplina originaria del contributo unificato,
introdotta con la Legge finanziaria del 2000 - Legge
488/1999 poi coordinata con le modifiche introdotte dal
D.L. 28/2002 e successiva Legge di conversione 10 maggio
2002, n. 91 - che prevedeva - e prevede - per i processi
amministrativi e quelli civili l’applicazione - alle
cause di valore indeterminabile - dello scaglione di cui
alla lettera d) del comma 1 della tabella.
Il riferimento manca, invece, nella
tabella relativa al giudizio tributario.
IL PROCESSO CIVILE
Non è l’unica e rilevante novità
del decreto, che contribuisce anche alla demolizione di
un mito ormai secolare: l’esenzione da qualsiasi spesa
peri giudizi in materia di previdenza ed assistenza
obbligatoria. Anche questa tipologia, a norma del nuovo
comma 1 bis dell’articolo 9, viene infatti assoggettata
al versamento del contributo unificato.
Stessa sorte per le controversie
individuali di lavoro, a condizione che le parti siano
“titolari di un reddito imponibile ai fini
dell'imposta personale sul reddito,
risultante dall'ultima dichiarazione, superiore
al doppio dell'importo previsto dall'articolo
76”.
Il riferimento è allo scaglione più
modesto (articolo 13, comma 1, lett. a), ridotto nella
metà per le controversie di lavoro, il cui contributo,
quindi, si applica qualora le parti siano titolari di un
reddito superiore al doppio di quanto previsto per
l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (alla
data odierna 10,628,00).
L’obbligo di versamento del
contributo unificato per le controversie individuali di
lavoro, deve ritenersi altresì esteso anche al
successivo grado di giudizio, in virtù del riferimento
all’articolo unico della legge 319 del 1958, già
modificato dalla legge 533 del 1973, che già aveva
rischiato di finire sforbiciato dal ‘taglia leggi’,
introdotto dall’articolo 24 della legge 13 del 2008.
Appare, quindi, evidente ill
manifesto disconoscimento dell’impianto normativo
seguito negli ultimi trent’anni dal diritto del lavoro,
con la difesa della parte debole attuata anche mediante
l’esenzione da qualsiasi tassa, tributo diritto o
imposta e che demolisce il mito delle prevalenti
esigenze di tutela del lavoratore.
Tra i procedimenti assoggettabili a
contributo, il processo esecutivo per consegna o
rilascio, con abrogazione espressa nell’articolo 10.
Non meno innovativa deve poi
ritenersi l’ulteriore imposizione del contributo
unificato ai procedimenti di cui al Capo I, Titolo II,
Libro IV c.p.c., relativi alla separazione personale dei
coniugi: l’eliminazione espressa del riferimento, quali
procedimenti esenti, dal corpo del comma 3 dell’articolo
10 al ‘capo I’ - relativo proprio ai suddetti
procedimenti - li introduce a pieno titolo tra quelli
assoggettati alle spese di giustizia, aggiungendo una
differenziazione tra l’ipotesi in cui la richiesta di
separazione sia consensuale o, invece, giudiziale -
variando al proposito l’ammontare dovuto a titolo di
contributo unificato, come meglio illustrato nel
capoverso seguente.
La tabella riepilogativa del
contributo unificato, già disponibile su queste pagine -
http://www.altalex.com/index.php?idnot=14844- viene qui
integrata con un rapido riscontro sull’entità (in
percentuale) dell’aumento del contributo unificato e che
porta con se un incremento del 23 % del primo scaglione
di riferimento (che passa da 30 a 37 euro il primo
scaglione e che commprende ora le cause previdenziali,
cause di separazione consensuale e di cessazione e
scioglimento degli effetti civili del matrimonio. Da 70
a 82 euro la variazione del secondo scaglione (+17%),
comprensiva della volontaria giurisdizione, cause ex
art. 706 cpc e cause contenziose ex articolo 4 l. 898
del 1970. Da 187 a 206 euro il terzo scaglione (+10%);
da 374 a 450 il quarto (+20%); da 550 a 660 il quinto
(+20%); da 880 a 1.056 il sesto (+20%); da 1.221 a 1.466
il settimo (+20%).
Aumenti consistenti anche per i
processi esecutivi e per le opposizioni all’esecuzione
(aumento del 21%) - modifica del comma 2 dell’articolo
13.
Alla pioggia di aumenti si aggiunge
la singolare ed innovativa previsione di cui al nuovo
comma 3-bis, inserito all’articolo 13, già
catalizzatrice di roventi polemiche secondo cui: “ ove
il difensore non indichi il proprio indirizzo di
posta elettronica certificata e il proprio numero di
fax ai sensi degli articoli 125, primo comma, del
codice di procedura civile e 16, comma 1-bis, del
decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, ovvero
qualora la parte ometta di indicare il codice
fiscale nell'atto introduttivo del giudizio o, per il
processo tributario, nel ricorso, il contributo
unificato e' aumentato della meta'.".
In sostanza, dalla mera omissione,
comunque prodottasi, dell’indicazione dell’indirizzo di
p.e.c., del numero di fax o del codice fiscale,
discenderà la ‘sanzione’ dell’aumento della metà del
contributo unificato.
La norma si presta ad una serie di
osservazioni involgenti tanto il profilo giuridico
quanto quello processuale interessato alla recente
elaborazione del sistema di processo civile telematico.
Sotto tale ultimo aspetto, deve
rilevarsi come l’indirizzo di posta elettronica
certificata dovrebbe già essere noto all’ordine
professionale ai sensi dell’art. 16, comma 7 del D.L.
185/2008 e, di conseguenza, alla/e controparti tramite
semplice accesso al ReGIndE.
Superata, invece, dovrebbe
ritenersi l’indicazione del numero di fax, invero
compreso nelle forme di comunicazioni di cui all’art.
136 del cpc, ma cronologicamente soppiantato dalle
disposizioni dell’art. 4 comma 2 della L. 24/2010 che
affida alla posta elettronica certificata tutte le
notifiche e le comunicazioni all’interno del processo
civile.
L’approssimazione della norma
citata e la sua effettiva portata - introdurre una sia
pur virtuale fonte di guadagno per le casse statali - si
riscontrano nel differente regime a cui viene sottoposto
l’obbligo di cui sopra. Esso, in definitiva, viene
imposto alla parte che corrisponde il contributo
unificato, sanzionandone l’omissione, ma lascia esente
l’altra parte che, evidentemente, di quella sanzione non
potrebbe, nella maggior parte dei casi, risentire.
Ad entrambi deve però ritenersi
esteso l’obbligo di comunicazione dell’indirizzo di
p.e.c. altrimenti determinante l’automatica elezione di
domicilio presso la cancelleria per le comunicazioni
endo-processuali.
E’ la conclusione obbligatoria
suggerita dalla testuale lettura del disposto del codice
procedurale richiamato nella parte in cui la
disposizione in esame rinvia all’art. 125 c.p.c.,
attinente al contenuto obbligatorio degli atti di parte,
coordinabile con la sezione della stessa norma riferita
all’indicazione del codice fiscale.
La conclusione viene consentita
dalla disamina del solo dato letterale dell’articolo
sopracitato che sembra rivelatrice del tentativo del
redattore del decreto, di introdurre nel codice una
nuova componente dell’atto di parte, integrandola, per
l’appunto, con l’obbligatoria indicazione dell’indirizzo
di p.e.c., del numero di fax e del codice fiscale della
parte, invero non comprese nelle voci del richiamato
art. 125 e suscettibili, semmai, di essere inserite solo
per espresso disposto di Legge, con apposita modifica
codicistica anzichè con la decretazione d’urgenza.
Deve ritenersi comunque applicabile
la generale procedura predisposta del testo unico sulle
spese di giustizia di cui al D.P.R. n. 115/2002 che, per
le ipotesi di omesso od insufficiente versamento del
contributo unificato, prevede il preliminare invito
formulato dal dirigente dell’ufficio giudiziario
competente.
Ça va sans dire, infine, aumenta
anche il contributo unificato per le procedure
fallimentari, che passa da 672 a 740 euro - con modifica
del comma 5 dell’articolo 13 (+10%).
IL PROCESSO AMMINISTRATIVO
Chiuso il capitolo dedicato al
processo civile, il decreto prosegue con la trattazione
del processo amministrativo, anch’esso ovviamente non
esente dalla suddetta pioggia.
La lettera s) del comma 6 modifica
il comma 6-bis dell’articolo 13 del DPR in oggetto,
prevedendo:
- l’aumento a 300 euro per per i
ricorsi previsti dagli articoli 116 e 117 del decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104, per quelli aventi ad
oggetto il diritto di cittadinanza, di residenza, di
soggiorno e di ingresso nel territorio dello Stato e per
i ricorsi di esecuzione nella sentenza o di ottemperanza
del giudicato;
- il contributo per le controversie
in tema di pubblico impiego, con rimando al comma 3;
- il contributo per i ricorsi cui
si applica il rito abbreviato previsto dal Libro IV,
Titolo V, del D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 - artt.
119-125 del Codice del Processo Amministrativo - pari a
1.500 euro;
- il contributo per i ricorsi
previsti dalle lettere a) e b) dell’art. 119 -
affidamento di lavori pubblici e provvedimenti di
autorità amministrative indipendenti - pari a 4.000
euro;
- il contributo in tutti gli altri
casi e per il ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica, per un importo di 600 euro.
Anche qui, le previsioni relative
agli aumenti degli importi del contributo unificato sono
seguite da una disposizione identica a quella già vista
in tema di giudizi civili: il secondo capoverso del
nuovo comma 6-bis, inserito dalla lettera s) del comma 6
- prevede che “i predetti importi sono aumentati della
metà ove il difensore non indichi il proprio indirizzo
di posta elettronica certificata e il proprio recapito
fax, ai sensi dell'articolo 136 del codice del processo
amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio
2010, n. 104”.
La previsione si rivela ancor più
allarmante di quella in precedenza commentata, in
relazione all’incredibile importo richiesto per i
ricorsi amministrativi in materia di appalto che, in tal
modo, potrebbe virtualmente arrivare ad un contributo di
6.000 euro. L’ipotesi è ancora più preoccupante dove si
tenga a mente come la tipologia di ricorsi non afferisca
sempre e necessariamente all’affidamento dei lavori di
ristrutturazione dell’autostrada A3, ma anche a semplici
servizi in favore della P.A. di valore non
particolarmente rilevante, per i quali appaiono
obiettivamente onerosi i 4.000 euro richiesti a titolo
di contributo unificato - anche se, supponiamo,
sicuramente satisfattivi dell’intento deflattivo del
ricorso all’A.G. sottostante alle disposizioni
legislative.
Ad evitare possibili esclusioni,
l’ultimo capoverso precisa che “per ricorsi si intendono
quello principale, quello incidentale e i motivi
aggiunti che introducono domande nuove”, risolvendo, al
contempo, un problema venutosi a verificare nella
precorsa prassi operativa dei T.A.R. sopratutto in
relazione ai motivi aggiunti - per i quali,
indipendentemente dall’introduzioni di domande nuove, è
stato talvolta richiesto il versamento del contributo
unificato.
Alla rapida citazione in precedenza
dedicata al processo tributario, fa seguito un più
dettagliato esame della parte dell’articolo 37 del
decreto, introdotto dal nuovo comma 6-quater, inserito
ex novo nel corpo dell’articolo 13.
Anche qui, gli importi relativi al
contributo unificato previsti per il ricorso -
principale ed incidentale - nel processo dinanzi alle
commissioni tributarie provinciali e regionali, vanno
per scaglioni di valore, da un minimo di 30 euro, ad un
massimo di 1.500 euro per le controversie di valore
superiore a 200.000 euro.
A seguito dell’introduzione del
contributo unificato anche nel processo tributario,
viene modificato l’articolo 18 del DPR 115/02 - lettera
v) del comma 6 - nella parte in cui il quale specifica
che per i procedimenti per i quali è previsto il
contributo unificato non è dovuta alcuna imposta di
bollo.
Simili modifiche e/o integrazioni
sono state effettuate: all’articolo 131, che disciplina
gli effetti dell’ammissione al patrocinio a spese dello
Stato, mediante l’indicazione del contributo unificato
nel processo tributario tra le spese prenotabili a
debito; all’articolo 158, che disciplina le spese
prenotabili a debito nei procedimenti in cui sia parte
l’amministrazione, se a carico della stessa.
Viene, infine, soppresso l’articolo
260, relativo all’imposta di bollo nel processo
tributario.
Come da previsione espressa
contenuta nel comma 7, le disposizioni di cui al comma 6
“si applicano alle controversie instaurate, nonché ai
ricorsi notificati ai sensi del decreto legislativo 31
dicembre 1992, n. 546, successivamente alla data di
entrata in vigore del presente decreto”.
Previsione niente affatto
superflua, atteso che è prassi frequente - e recentiore
- la previsione della validità retroattiva di numerose
disposizioni normative.
Del comma 10, sulla destinazione al
neonato fondo dell’incremento del gettito, abbiamo già
detto; il successivo comma 11 prevede, poi, che una
quota di tale fondo, pari per il primo anno ad un terzo
del totale, sia destinata “a spese di giustizia, ivi
comprese le nuove assunzioni di personale di
magistratura ordinaria, amministrativa e contabile,
nonché degli Avvocati e Procuratori dello Stato, in
deroga alle limitazioni previste dalla legislazione
vigente”, quindi in deroga al patto di stabilità.
I successivi articoli da 12 a 18 e
da 21 a 23 introducono, poi, una serie di criteri per la
ripartizione del fondo e del calcolo delle premialità
tra uffici.
Ed è proprio la lettura di questa
sezione del decreto che ingenera qualche breve
considerazione.
Dal gettito pervenuto allo Stato,
deriva - come detto - la costituzione di un fondo che
viene ripartito tra la giustizia civile, amministrativa
e quella tributaria secondo le già richiamate
indicazioni di cui al comma 11.
Una restante parte di quel fondo
viene destinata in favore degli uffici giudiziari che
abbiano raggiunto gli obiettivi di cui al comma 12
(riduzione di almeno il 10% del numero di giudizi
pendenti).
Una ulteriore quota viene destina
ad una incentivazione in favore del personale della
magistratura ordinaria e dei giudici tributari.
Tanto il criterio premiale quanto
la fase esecutiva lasciano spazio a due considerazioni
immediate.
Non sembra assolutamente fuori
luogo ritenere, infatti, che il raggiungimento degli
obiettivi (forieri di ‘ricchi premi e cotillons’ per gli
uffici giudiziari) possa interessare prevalentemente le
piccole realtà giudiziarie, laddove, cioè, l’operazione
di limatura dell’arretrato risulta conseguibile con
modalità e tempi più agevoli rispetto a quelle corti
giudiziarie già gravate da un elevato livello di
arretrato.
Lascia perplesso, altresì, il
sistema esclusivo predisposto per i giudizi tributari
che al criterio della riduzione di almeno il 10% delle
pendenze aggiunge anche (e lo subordina espressamente)
il calcolo del numero di sentenze di merito depositate
entro 90 giorni dalla preliminare pronunzia
sull’istanza cautelare..
Si dice che a pensar male di solito
si coglie nel segno: e, quindi, non può non cogliersi il
rischio che l’esigua soglia dei 90 giorni possa
pregiudicare la qualità delle emanande sentenze.
Nell’avvicinarsi alla parte
conclusiva dell’articolo in esame, si vede poi come i
paventati e lamentati effetti deflattivi imposti ex lege
possano trovare immediato incremento sin dal prossimo
anno - della serie ‘al peggio non c’è mai limite’.
Il comma 18 dell’art. 37 prevede,
infatti, che “se dalla relazione (n.d.r. sullo stato
delle spese di giustizia da proporre entro giugno 2010)
emerge che siano in procinto di verificarsi scostamenti
rispetto alle risorse stanziate annualmente dalla legge
di bilancio...con decreto del Ministero della
giustizia....è disposto l’incremento del contributo
unificato...in misura tale da garantire l’integrale
copertura delle spese dell’anno di riferimento ed in
misura comunque non superiore al cinquanta per cento”.
Non sfuggirà all’occhio del lettore
attento il timore ingenerato non tanto e solo dalla
tranquillizzante previsione dei limiti dell’aumento -
non superiore al 50% - quanto l’assoluta carenza di
criteri di valutazione degli scostamenti prestabiliti,
da cui l’aumento potrà derivare (e - se ne può star
certi - deriverà), quanto le finalità perseguite e che,
lungi dall’assicurare una copertura parziale dell’ignoto
“scostamento”, mira a garantire “l’integrale copertura”
delle spese.
Il comma 19 introduce, poi, un
ulteriore criterio di riduzione delle spese di
giustizia: la riduzione della pubblicazione sui giornali
degli estremi delle sentenze: l’indicazione è soppressa
per le sentenze penali di condanna (articolo 36 c.p.),
nonchè per le sentenze che pronunciano sull’assenza o
sulla morte presunta (articolo 729 cpc). Solo in
quest’ultima ipotesi, è fatta salva la pubblicazione sul
sito internet del Ministero della Giustizia.
*******
IL CONTENZIOSO IN MATERIA
PREVIDENZIALE E ASSISTENZIALE
Lasciamo l’articolo 37, e vediamo
le novità introdotte dal successivo articolo 38,
rubricato “Disposizioni in materia di contenzioso
previdenziale e assistenziale”.
Anche qui, una chiosa iniziale
motiva le scelte, talora piuttosto ardite, operate nei
successivi commi: scopo dichiarato della disposizione,
infatti, è quello di “...realizzare una maggiore
economicità dell’azione amministrativa e favorire la
piena operatività e trasparenza dei pagamenti nonché
deflazionare il contenzioso in materia previdenziale”,
nonché di “contenere la durata dei processi in materia
previdenziale, nei termini di durata ragionevole dei
processi, previsti ai sensi della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4
agosto 1955, n. 848”.
E vediamo come.
La lettera a) della disposizione in
esame prevede che “i processi in materia previdenziale
nei quali sia parte l’INPS, pendenti nel primo grado di
giudizio alla data del 31 dicembre 2010, per i quali, a
tale data, non sia intervenuta sentenza, il cui valore
non superi complessivamente euro 500,00, si estinguono
di diritto, con riconoscimento della pretesa economica a
favore del ricorrente”
Procedura singolare che, in
sostanza, prevede una sorta di ‘soccombenza
dell’ufficio...dichiarata ex officio’ - si perdoni il
gioco di parole - e ratione valore.
La singolarità è, poi, ancora più
accentuata dalla previsione del trattamento sulle spese,
che rimanda al disposto di cui all’ultimo comma
dell’art. 310 c.p.c. secondo cui “le spese del processo
estinto stanno a carico delle parti che le hanno
anticipate”.
E poichè è quantomeno logico che
una questione previdenziale, seppur di valore compreso
in 500 euro, ingeneri l’insorgere di legittime pretese
professionali da parte del difensore del ricorrente, è
altrettanto logico ritenere che alla soccombenza
dell’INPS (ed al mancato recupero del contributo
richiesto al ricorrente) corrisponda una sostanziale
soccombenza del debitore che sarà tenuto a corrispondere
- in misura, si presume, virtualmente superiore a 500
euro - le competenze del proprio difensore.
Con buona pace del contribuente,
visto che lo Stato avrà, in tal modo, sensibilmente
ridotto le proprie pendenze giudiziali e tutti i costi
ad esse connessi: nella relazione accompagnatoria,
infatti, si stimano in circa 55mila i ricorsi del valore
massimo di 500 euro per i quali è attualmente prevista
la soccombenza.
Calcolando in 1.000 euro gli
onorari da corrispondere - in media - ai legali di
controparte, il conto - ed il risparmio per
l’Amministrazione - è presto fatto.
Nel solco tracciato ormai
ufficialmente dalla mediazione in campo civile, si
inserisce l’aggiornamento dell’art. 445 del cpc ,
integrato dall’inserimento dell’art. 445-bis che prevede
l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio quale
condizione di procedibilità - rilevabile anche d’ufficio
entro la prima udienza- della domanda avente ad oggetto
il chiesto riconoscimento dello stato di “invalidità
civile, cecità civile, sordità civile, handicap e
disabilità” nonché “pensione di inabilità e di assegno
di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984,
n. 222”.
Qualora l’accertamento manchi, il
giudice assegna alle parti 15 giorni per la richiesta di
ATP, nonché, terminate le operazioni, un termine di
trenta giorni per la proposizione di eventuali
contestazioni alle conclusioni del perito.
In assenza di contestazioni, se non
provvede ex art. 196 c.p.c., il giudice omologa
l’accertamento e provvede sulle spese.
Nulla si dice sul valore del
decreto e sulla sua immediata esecutività, virtualmente
rilevante in relazione ai termini - non dichiaratamente
perentori - imposti all’istituto per il pagamento delle
somme dovute in sede di accertamento preventivo.
In caso di contestazione sui dati
peritali è il “contestante” a dover instaurare il
giudizio di merito nel termine perentorio di 30 giorni e
la successiva decisione è inappellabile. Pur volendo
bypassare il carattere di irrevocabilità della pronunzia
- che attiene pur sempre ad un giudizio di merito - pare
che il suo effetto debba estendersi anche alle vicende
nuove - domande incidentali o riconvenzionali -
suscettibili di essere introdotte in sede di giudizio e
rimaste però estranee all’accertamento preliminare.
Nulla è poi detto circa il soggetto
tenuto al pagamento delle spese, nè in merito al
versamento delle stesse in caso di contestazione e
relativo avvio del giudizio ordinario.
Si introduce, inoltre, l’obbligo
della iniziale indicazione del valore della controversia
mediante inserimento di un inciso all’articolo 152 delle
disposizioni di attuazioni al codice di procedura
civile, a norma del quale “la parte ricorrente, a pena
di inammissibilità del ricorso, formula apposita
dichiarazione del valore della prestazione dedotta in
giudizio, quantificandone l'importo nelle conclusioni
dell'atto introduttivo”.
Si tratta di una previsione
scontata in relazione all’introduzione del rito del
lavoro nel novero dei giudizi assoggettati al versamento
del contributo unificato e che, benchè sostanzialmente
inutile o per lo meno priva di effetti pregiudizievoli
in punto di pagamento del contributo unificato (il cui
valore è unico in materia di lavoro e quindi esclude il
preventivo invito alla regolamentazione della somma
dovuta ed, in caso di inosservanza, la segnalazione
all’A.E. competente), si rivela estremamente pericoloso
e preoccupante sul piano processuale perchè collegato
alla declaratoria di inammissibilità del ricorso.
Mal dislocata nel contesto della
procedura è, poi, la norma transitoria che riprende
l’obbligo di dichiarazione del valore della causa,
precisando che, in sede di prima applicazione e per i
giudizi pendenti alla data di entrata in vigore del
decreto in esame, la dichiarazione di valore deve essere
fatta nel corso del giudizio
Anche in questo caso, potrebbe
supporsi, a pena di inammissibilità in caso di
inosservanza, anche se la norma transitoria, ad ogni
modo, nulla dice sulla precisa tempistica e sui termini
di tale dichiarazione.
Merita una breve citazione anche
l’integrazione della L. 248/2006 e l’inserimento
dell’art. 35 quinquies apparente retaggio delle
disposizioni di quel provvedimento che rese tracciabili
i pagamenti effettuati in favore del difensore della
parte, obbligandone il versamento su conto corrente.
Versamento che verrà effettuato
dopo aver inoltrato - a mezzo raccomandata o p.e.c. - la
richiesta alla struttura territoriale dell’Ente
competente.
E per far questo - come noto - ci
si dovrà dotare di una p.e.c. compatibile con quella
dell’Ente, non necessariamente la stessa adottata per
l’attività professionale.
La disposizione in esame prevede,
poi, che dall’invio della comunicazione di cui sopra
debba decorrere un termine di 120 giorni per l’eventuale
instaurazione della procedura esecutiva nei confronti
dell’Ente previdenziale che, di fatto, viene assimilato
alle amministrazioni dello Stato ed agli enti pubblici
non economici, già beneficianti di analoga moratoria in
virtù del disposto di cui all’art. 14, comma 1 del D.L.
n. 669/96 (“le amministrazioni dello Stato e gli enti
pubblici non economici completano le procedure per
l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei
lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti
l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il
termine di centoventi giorni dalla notificazione del
titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non
ha diritto di procedere ad esecuzione forzata nè alla
notifica di atto di precetto”).
Probabilmente ‘dimentico’
dell’oggetto del contenuto economico del provvedimento
in esame, il Legislatore interviene poi anche su alcuni
termini prescrizionali, inserendo l’art. 47-bis,
riferito ai trattamenti pensionistici.
E’ sempre nella stessa ottica che
si completa il ricco carnet riservato alla previdenza ed
assistenza con la disposizione di cui all’art. 10 comma
6 bis L.248/2005 - legge di conversione del d.l.
203/2005. La citazione non è affatto irrilevante se si
pone mano alla normativa di riferimento e si effettua un
confronto con la nuova.
art. 10 comma 6 bis L.248/2005
modifica introdotta dal d.l.
98/2011 (in via di conversione)
Nei procedimenti giurisdizionali
civili relativi a prestazioni sanitarie previdenziali ed
assistenziali, nel caso in cui il giudice nomini un
consulente tecnico d'ufficio, alle indagini assiste un
medico legale dell'ente, su richiesta, formulata, a pena
di nullità, del consulente nominato dal giudice, il
quale provvede ad inviare apposita comunicazione al
direttore della sede provinciale dell'INPS competente.
"del consulente nominato dal
giudice, il quale provvede ad inviare, entro 15 giorni
antecedenti l'inizio delle operazioni peritali, anche in
via telematica, apposita comunicazione al direttore
della sede provinciale dell'INPS competente o a suo
delegato. Alla relazione peritale è allegato, a pena di
nullità, il riscontro di ricevuta della predetta
comunicazione. L'eccezione di nullità è rilevabile anche
d'ufficio dal giudice. Il medico legale dell'ente è
autorizzato a partecipare alle operazioni peritali in
deroga al comma primo dell'articolo 201 del codice di
procedura civile".
La disposizione introduce, infatti,
una serie di varianti di non poco conto sotto il profilo
processuale.
Prima tra tutte, la deroga al
principio di cui all’art. 201 c.p.c. che, di fatto,
realizza un differente trattamento processuale per le
parti costituite e per l’ente previdenziale: i primi,
abilitati alla nomina del consulente di parte nei
termini indicati dal giudice - che poi coincidono,
tradizionalmente, con l’inizio delle operazioni peritali
-; l’altro, esentato da qualsiasi osservanza in virtù
dell’obbligo di preventiva comunicazione imposta al
consulente nominato e la cui mancanza è rilevabile
finanche d’ufficio con la sanzione della nullità.
L’anomalia potrebbe rivelarsi ancor
più singolare laddove l’ente dovesse aver omesso, per
scelta personale o per motivi di opportunità, la
costituzione in giudizio alla cui fase però
sostanzialmente partecipa a mezzo proprio medico di
fiducia - abilitato quindi a contestazioni sui rilievi
peritali esperiti dal C.T.U.
IL PROCESSO TRIBUTARIO
E veniamo all’ultimo articolo in
esame, il 39, rubricato “Disposizioni in materia di
riordino della giustizia tributaria”.
Le disposizioni in esame assumono
carattere di specialità - sia pur atecnica - rispetto
alla generica trattazione del giudizio tributario sopra
richiamato e correlato al suo assoggettamento al
pagamento del contributo unificato.
Alla prima parte della norma sono
affidate le modalità per la nomina a giudice tributario,
alle quali viene imposto un ulteriore limite (es. “Non
possono essere componenti ...i coniugi, conviventi o i
parenti fino al terzo grado o gli affini in pirmo grado
di coloro che sono iscritti in albi professionali …
della regione o nelle province confinanti con la
predetta regione dove ha sede la commissione tributaria
provinciale”), ulteriormente esteso in sede di
conversione.
Le incompatibilità spiegheranno la
loro efficacia dal 31 dicembre 2011, sebbene siano
facilmente comprensibili sulla base di una rapidissima
considerazione sull’attuale composizione delle CTP delle
piccole città, suscettibili di essere travolte dal
frequente coinvolgimento di intrecciati rapporti
parentelari e di affinità che lasciano ipotizzare
l’esigenza di consistente rinnovo dei giudicanti al fine
di assicurare il corretto prosieguo dell’attività
giudiziale.
Nel contesto del dichiarato
affidamento agli strumenti informatici, quale ultima
spes per l’accelerazione dell’attività giudiziale, non
poteva mancare l’applicabilità della posta elettronica
certificata anche al giudizio tributario.
Se ne occupa il comma 8 del testo
in esame, che prevede una serie di disposizioni
finalizzate all’attuazione “dei principi previsti dal
codice dell’amministrazione digitale nella materia della
giustizia tributaria”.
A tale scopo, nell’articolo 16 del
decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e
successive modificazioni, dopo il comma 1, viene
aggiunto un comma 1-bis, il quale prevede che “le
comunicazioni sono effettuate anche mediante l’utilizzo
della posta elettronica certificata, ai sensi del
decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive
modificazioni...omissis... L’indirizzo di posta
elettronica certificata del difensore o delle parti è
indicato nel ricorso o nel primo atto difensivo”.
E’ lampante una divergenza tra la
regolamentazione del processo tributario da quello del
processo civile e penale quali regolamentati dalla L.
24/2010 prima, e poi il D.M. 44/2011. L’utilizzo della
congiunzione ‘anche’ (riferito alle comunicazioni a
mezzo p.e.c.), lascia infatti spazio al ricorso ad altre
forme che, invece, sembrano escluse per il processo
civile, in cui l’uso della p.e.c. è indicato quale
obbligatorio.
L’idea di fondo del legislatore,
però, sembra proprio essere la medesima: mutuando quanto
previsto per il processo civile e penale, si rimanda
l’entrata in vigore delle nuove disposizioni
all’adozione di un regolamento - “emanato entro
cinquanta giorni dalla data di entrata in vigore del
presente decreto del Ministro dell’economia e delle
finanze, sentito il Centro nazionale per l'informatica
nella pubblica amministrazione e il Garante per la
protezione dei dati personali” - finalizzato ad
introdurre disposizioni per il più generale adeguamento
del processo tributario alle tecnologie
dell'informazione e della comunicazione, in attuazione
dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo
2005, n. 82; infine, al’adozione di regole tecniche per
consentire l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione
e della comunicazione nel rispetto dei principi previsti
dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82.
Una brevissima, quanto curiosa
annotazione si dedica al modello di deposito atti e
documenti attualmente in uso presso le Commissioni
tributarie. Si tratta di un modello PDF “compilabile”
anche online, da redigere, inevitabilmente, in formato
digitale, escludendo così l’utilizzo della scrittura a
penna (pena rifiuto di accettazione da parte di alcune
segreterie). Accade però che, al momento, il campo
riservato all’indicazione della posta elettronica
(ordinaria e/o certificata) contenga un numero di
caratteri appena appena risicato e spesso insufficiente
all’inserimento di alcuni acccount di p.e.c. (es. il
diffusissimo @avvocatiXXXxxxxx.legalmail.it)
Si precisa, comunque che, fino alla
data di entrata in vigore di tale decreto, le
comunicazioni nel processo tributario continueranno ad
essere effettuate nei modi e nelle forme previste dalle
disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del
presente decreto, senza applicazione delle maggiorazioni
del contributo unificato previste dall’articolo 13,
comma 6-quater, del decreto del Presidente della
Repubblica 30 maggio 2002, n. 115.
LA MEDIAZIONE TRIBUTARIA
In questo ormai incondizionato
affidamento ai sistemi di A.D.R. non poteva mancare,
poi, l’inserimento della mediazione applicata anche al
giudizio tributario.
Il decreto se ne occupa all’art. 17
bis che viene inserito in seguito all’art. 17 del d.lgs.
546/92 e che è inequivocabilmente intitolato “Il reclamo
e la mediazione”
“Per le controversie di valore non
superiore a ventimila euro, relative ad atti emessi
dall’Agenzia delle entrate, chi intende proporre ricorso
è tenuto preliminarmente a presentare reclamo secondo le
disposizioni seguenti ed è esclusa la conciliazione
giudiziale di cui all’articolo 48”.
Viene, di fatto, introdotto un
procedimento di mediazione tributaria, per cui la
proposizione del reclamo diventa condizione di
ammissibilità del ricorso, rilevabile d’ufficio in ogni
stadio e grado del giudizio.
Il comma 5 dell’articolo in esame
precisa, quindi, che sul reclamo le Direzioni che hanno
emanato l’atto “provvedono attraverso apposite strutture
diverse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria
degli atti reclamabili”.
La previsione si discosta,
evidentemente, dal sistema di mediazione in materia
penale minorile, civile e commerciale, laddove la scelta
del mediatore è rimessa al proponente la conciliazione
(qui vi provvede la Direzione provinciale o regionale
interessata), a cui si affida, poi, la formulazione di
una proposta (ex comma 7 dell’articolo in esame, la
proposta può pervenire invece dal richiedente... una
sorta di … “automediazione”!).
Dalle incertezze che precedono
seguono comprensibili riserve anche in ordine alla
dichiarata “autonomia” delle strutture demandate alla
conciliazione che, dalla lettura del testo,
sembrerebbero operare nel contesto degli stessi uffici
finanziari, mantenendo la loro autonomia unicamente
rispetto agli uffici che curano l’istruttoria degli atti
reclamati (cfr. comma 9 numero 5 del testo).
Decorsi 90 giorni senza che sia
stato notificato l’accoglimento del reclamo o senza che
sia stata conclusa la mediazione - proposta dalla parte
tramite il reclamo o dall’organo destinatario - il
reclamo stesso produce gli effetti del ricorso.
All’intento deflattivo generalmente
affidato alle mediazioni, si associa - in questo caso -
la finalità intimidatoria, ravvisabile nel trattamento
delle spese di giudizio. Dispone il comma 10, infatti,
che “nelle controversie di cui al comma 1 la parte
soccombente è condannata a rimborsare, in aggiunta alle
spese di giudizio, una somma pari al 50 per cento delle
spese di giudizio a titolo di rimborso delle spese del
procedimento disciplinato dal presente articolo”.
La norma si configura, così, come
un invito neanche molto ‘subliminale’ e preordinato a
valutare attentamente non tanto e non solo, la proposta
iniziale, quanto la controproposta eventualmente
formulata dall ”autonoma struttura costituita presso la
direzione provinciale o generale dell’AE” .
Le nuove disposizioni su reclamo e
mediazione entreranno in vigore dal 1 aprile 2012, con
riferimento agli atti notificati a partire da tale data,
così come disposto dal comma 11.
Il comma 12, introduce, invece, una
specie di ‘condono fiscale’, fors’anche monetariamente
circoscritto ma costituente, in sostanza, una vera e
propria sanatoria.
Esso interessa, in particolare,
tutte le liti pendenti alla data del 1 maggio 2011 di
valore non superiore ai 20.000 euro e in cui sia parte
l’Agenzia delle Entrate, che possono essere definite, su
istanza di parte, tramite versamento delle somme di cui
all’articolo 16 della legge 289 del 2002: e precisamente
il 10% del valore della controversia, se di importo
superiore ai 2.000 euro.
Le somme dovranno essere versate
entro il 30 novembre 2011 e la domanda di definizione
vdovrà essere presentata entro il 31 marzo 2012, con
sospensione fino al 30 giugno 2012 delle controversie
che possono essere definite in tal modo.
Analogo effetto - la sospensione -
si avrà per la proposizione di ricorsi, appelli,
controdeduzioni, ricorsi per cassazione, controricorsi e
ricorsi in riassunzione, compresi i termini per la
costituzione in giudizio.
********
Alle considerazioni già sviluppate
nel corpo dell’articolo, se ne aggiungono delle altre,
sostanzialmente confluenti nel generale scetticismo
sulla perseguita efficacia deflattiva del mero ricorso,
che si riduce, nella maggior parte dei casi, a
consistenti aumenti del costo del processo e ad oneri
aggiuntivi che graveranno, inevitabilmente, sul
contribuente finale.
Il percorso oggi seguito, completa
quella singolare idea di accelerazione del processo,
ormai da tempo perseguita nelle forme della decretazione
d’urgenza, delle sue rapide conversioni,
dell’indifferenza (ignoranza?) sui capisaldi del
processo civile italiano e sul fin troppo agevole e
pedissequo ricorso a strutture di provenienza extra
nazionale, non sempre compatibili con il sistema
giuridico e processuale vigente, ancor più laddove
introdotte in maniera manifestamente approssimativa.
Un percorso capace di raggiunge il
suo obiettivo, riducendo però le possibilità di ricorso
all’autorità giudiziaria, aggravando i costi dei
relativi procedimenti, e scoraggiando, letteralmente, il
ricorso ai tradizionali strumenti di gestione delle
controversie, con buona pace di chi, dell’attività
giudiziale, ha fatto fonte di lavoro e di vita.... ma
questo è tutto un altro discorso. |