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Matteo Bellina

  1. Premessa
  2. Tutele contro il demansionamento
  3. Rifiuto della prestazione e autotutela
  4. Eccezione di inadempimento
  5. La soluzione della S.C.
  6. Il pagamento della retribuzione
  7. Altri orientamenti della S.C.
  8. Rifiuto della prestazione non dovuta

La dottrina e la giurisprudenza maggioritaria, muovendo da un'impostazione contrattualistica del potere direttivo dell'imprenditore, qualificano il rifiuto di svolgere mansioni inferiori come eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. Secondo l'impostazione ribadita di recente dalla Cassazione con la pronuncia n. 9351/2011 "nel rapporto di lavoro subordinato non è legittimo il rifiuto, opposto dal lavoratore, di eseguire la prestazione a causa di una ritenuta dequalificazione, ove il datore di lavoro offra l'adempimento di tutti gli obblighi derivanti dal contratto (retribuzione, contribuzione previdenziale, ecc), essendo giustificato il rifiuto di adempiere ex art. 1460 c.c. solo se l'altra parte sia totalmente inadempiente"

Premessa

L'art. 2103 c.c., comma 1, prevede che il prestatore di lavoro debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione di retribuzione. Nel nostro ordinamento vige pertanto un generale divieto di adibizione del lavoratore a mansioni non equivalenti e quindi inferiori a quelle precedenti. La legge attribuisce al prestatore di lavoro un diritto indisponile, sanzionando con la nullità ogni patto contrario (art. 2103, comma 2, c.c.) (1). Si ritiene infatti che il diritto all'equivalenza della mansioni afferisca alla dignità e alla professionalità del lavoratore (prerogative che trovano fondamento negli artt. 2 e 35 Cost.) e come tale non possa essere da questi rinunciato.


 

(1) Si veda, da ultimo, Cass. 14 aprile 2011, n. 8527.

A

L'Opinione

Corte di Cassazione

Demansionamento e rifiuto della prestazione lavorativa

Matteo Bellina

  1. Premessa
  2. Tutele contro il demansionamento
  3. Rifiuto della prestazione e autotutela
  4. Eccezione di inadempimento
  5. La soluzione della S.C.
  6. Il pagamento della retribuzione
  7. Altri orientamenti della S.C.
  8. Rifiuto della prestazione non dovuta

Tutele contro il demansionamento

Contro la violazione del diritto all'adibizione a mansioni equivalenti, compreso lo spostamento a mansioni inferiori o la sottrazione di compiti rilevanti, il lavoratore può reagire in sede giudiziaria chiedendo al giudice, oltre alla dichiarazione di nullità dell'atto datoriale di demansionamento, anche la condanna del datore di lavoro al ripristino della situazione precedente, cioè l'assegnazione a mansioni equivalenti (1). L'infungibilità del facere ordinato dal giudice con tale ultima pronuncia e, dunque, l'incoercibilità della sentenza di condanna (2), depotenzia l'efficacia dell'azione rendendo maggiormente appetibile al lavoratore la richiesta di risarcimento del danno (3) ovvero, specie in costanza di rapporto, la proposizione di un'azione cautelare d'urgenza ai sensi dell'art. 700 c.p.p., sempre laddove sussista il periculum in mora di un danno alla persona del lavoratore (danno alla professionalità, danno all'immagine, danno biologico o altro danno non patrimoniale derivante dalla violazione di un diritto costituzionalmente tutelato) (4).

Tuttavia anche il provvedimento cautelare è condizionato dal principio di incoercibilità del fare infungibile, donde esso diviene ammissibile e utile solo per ottenere la sospensione degli effetti giuridici dell'atto datoriale pregiudizievole, ma non anche per reimmettere il lavoratore nelle mansioni a lui spettanti e precedentemente svolte. In sostanza difficilmente attraverso il ricorso giurisdizionale il lavoratore demansionato potrà trovare una tutela utile e celere e dunque una piena soddisfazione del proprio diritto.


 

(1) Sulla cumulabilità dell'azione risarcitoria e dell'azione ripristinatoria, Cass. 8 novembre 20904, n. 21253, in Mass. giur. lav., 2005, p. 61.

(2) Cass., 14 maggio 2002, n. 6996, in Riv. it. dir. lav., 2003, II, p. 326; Cass. 12 ottobre 1999, n. 11479, in Mass. giur. lav., 1999, p. 1372.

(3) In tema di risarcimento del danno da demensionamento, Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, p. 687.

(4) Cass., 12 ottobre 1999, n. 11479, in Dir. prat. lav., 2000, p. 585; Trib. Roma 23 luglio 2003, in Dir. lav., 2004, p. 685.

Rifiuto della prestazione e autotutela

Il lavoratore può efficacemente reagire alla modifica in pejus delle mansioni attraverso l'esercizio della c.d. autotutela (conservativa) (1), in particolare astenendosi dallo svolgere le inferiori o non equivalenti mansioni che il datore di lavoro, nell'illegittimo esercizio del suo ius variandi, gli ha imposto o assegnato. L'autotutela consente, specie nei c.d. rapporti resistenti, una reazione tempestiva al demansionamento datoriale, senza comportare la rinuncia né al rapporto di lavoro, né al conseguente diritto alla retribuzione.

Va però tenuto presente che l'esercizio dell'autotutela presenta alcuni rischi per il lavoratore: in particolare, la tempestività con la quale essa deve essere per definizione attuata, espone il lavoratore al pericolo che, all'esito dell'eventuale accertamento giudiziario, la condotta del datore di lavoro sia considerata lecita e la sua reazione illecita e dunque sanzionabile disciplinarmente. In particolare laddove l'autotutela consista nell'astensione dal lavoro o comunque nel rifiuto della prestazione, l'eventuale accertamento della liceità della condotta datoriale, espone il lavoratore al rischio di subire provvedimenti disciplinari i quali (specie qualora il rifiuto della prestazione si prolunghi per più giornate lavorative) possono consistere nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (2).

Per tutti valga l'esempio del Ccnl dell'industria metalmeccanica e dell'installazione degli impianti laddove è previsto che può essere applicata la sanzione dell'ammonizione, della multa e della sospensione per il lavoratore che, senza giustificato motivo sospende il lavoro o ne anticipa la cessazione o che non si presenta al lavoro o che abbandona il proprio posto (art. 9, lett. a) e b), Sez. Quarta, Titolo VII). La sanzione del licenziamento con preavviso può essere applicata nei casi in cui l'assenza si prolunga per quattro giorni consecutivi ovvero quando l'abbandono del posto riguarda lavoratori svolgenti funzioni di sorveglianza, custodia e controllo. Se l'abbandono del posto di lavoro può comportare pregiudizio all'incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti è previsto il licenziamento per giusta causa (senza preavviso) (3).

Il rifiuto della prestazione può integrare altresì gli estremi della c.d. insubordinazione (4), infrazione disciplinare sanzionata nella generalità dei contratti collettivi con il licenziamento. In particolare alcuni contratti collettivi prevedono la sanzione del licenziamento senza preavviso nell'ipotesi di «grave insubordinazione» e del licenziamento con preavviso negli altri casi, fatte salve le ipotesi  di particolare tenuità del fatto nelle quali si applicano sanzioni conservative (5).

Il rifiuto della prestazione lavorativa, per quanto efficace reazione all'inadempimento o all'illegittima richiesta datoriale, è uno strumento che deve essere utilizzato con cautela all'esito di una valutazione degli elementi di rischio connessi intrinsecamente con l'istituto (6). In gioco, giova ribadirlo, c'è la conservazione del posto del lavoratore.

Una prima questione attiene al corretto inquadramento del rifiuto della prestazione lavorativa quale reazione al demansionamento. Sul punto si registrano due impostazioni principali: quella che radica il fondamento della legittimità del rifiuto del lavoratore di eseguire mansioni inferiori nell'eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. e quella che lo qualifica come rifiuto di una prestazione contrattualmente non dovuta.


 

(1) Cfr. M. Dell'Olio, voce Autotutela. III) Diritto del lavoro, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, Roma, 1988, p. 1 ss. Sull'autotutela nel rapporto di lavoro si vedano anche V. Ferrante, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, Torino, 2004; A. Vallebona, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova, 1995.

(2) Cass. 12 maggio 2005, n. 9954, in Giust. civ. mass., 2005, p. 5; Cass., 23 dicembre 2003, n. 19689, in Giust. civ. mass., 2003, p. 12; Cass., 8 giugno 1999, n. 5643, in Mass. giur. lav., 1999, p. 954; Cass., 22 novembre 1996, n. 10304, in Giust. civ., 1997, I, p. 955; Trib. Milano, 22 novembre 1999, in Dir. lav., 2000, II, p. 37.

(3) Alcuni contratti prevedono il licenziamento per giusta causa per l'abbandono del servizio. Si tratta, ad esempio, del Ccnl per il Settore della Sorveglianza Antincendio (Anisa-Confsal-Confsal Vigili del Fuoco) che prevede all'art. 42, comma 5, lett. a), la sanzione del licenziamento senza preavviso per l'«abbandono ingiustificato del servizio, con conseguente interruzione dello stesso».

(4) Rientra nella nozione di insubordinazione, ad esempio, l'abbandono del posto di lavoro (Cass. 11 giugno 1988, n. 4010, in Notiz. giur. lav., 1988, p. 847, in una fattispecie relativa all'abbandono del posto di lavoro da parte di un custode), nonché il rifiuto di eseguire direttive impartite dall'imprenditore o dal superiore gerarchico. Si tratta, evidentemente, di violazioni del più generale dovere di obbedienza di cui all'art. 2104 c.c.

(5) Ad esempio, il Ccnl del settore Metalmeccanico prevede l'applicazione di sanzioni conservative per la «lieve insubordinazione», il licenziamento con preavviso per l'insubordinazione "semplice" e il licenziamento senza preavviso nei casi di «grave insubordinazione». Il Ccnl del settore Chimico commina all'art. 52, comma 2, lett. k), la sanzione del licenziamento senza preavviso per l'«insubordinazione verso i superiori». Analogamente l'art. 67 del Ccnl del settore Cemento, sanziona l'insubordinazione verso i superiori con il licenziamento senza preavviso.

(6) Sul punto, M. Brollo, Le modificazioni oggettive: il mutamento delle mansioni, in Diritto del lavoro. Commentario diretto da F. Carinci, vol. II, a cura di C. Cester, Torino, 2008, p. 1541 ss. Secondo R. Bausardo, Il demensionamento, in Il diritto privato nella giurisprudenza - Lavoro, a cura di P. Cendon, vol. III, La tutela del lavoratore, Torino, 2009, p. 200, «l'azienda si troverebbe, per così dire, a rispondere con una pesante sanzione che verrebbe irrogata senza che l'esercizio del potere in questione abbia superato il vaglio dell'autorità giudiziaria. In altri termini, l'imprenditore si troverebbe esposto in caso di valutazione negativa, a conseguenze ben più gravi di quelle che prevedibilmente sono da attendersi in caso di esercizio illegittimo dello ius variandi».

 

Eccezione di inadempimento

La dottrina e la giurisprudenza maggioritaria, muovendo da un'impostazione contrattualistica del potere direttivo dell'imprenditore, qualificano il rifiuto di svolgere mansioni inferiori come eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. (1).

Secondo questa ricostruzione l'atto con il quale il datore adibisce il lavoratore a mansioni inferiori integra un inadempimento contrattuale per violazione di un'obbligazione di non facere (non adibire il lavoratore a mansioni inferiori). L'assegnazione a mansioni inferiori configura pertanto un'esecuzione del contratto contraria a buona fede alla quale il lavoratore può reagire secondo il principio inadimplenti non est adimplendum (2).

Tale impostazione implica necessariamente l'applicazione dell'art. 1460, comma 2, c.c., ai sensi del quale «non può rifiutarsi l'esecuzione [della prestazione] se, avuto riguardo alla circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede». L'autotutela del lavoratore incontra così il limite della buona fede la quale deve essere valutata in particolare con riguardo «alla effettiva incidenza dell'inadempimento sulla funzione sociale del contratto e, più in generale, sull'economia complessiva del rapporto» (3). Sarà pertanto necessario valutare la proporzionalità della reazione del lavoratore rispetto, non solo alla condotta inadempiente del datore di lavoro, ma all'intera economia del contratto (4). Un tanto esclude la legittimità dell'autotutela in ipotesi di inadempimenti datoriali di scarso rilievo, tali da non incidere sul complessivo contenuto professionale della prestazione (5). Si pensi ad esempio alla sottrazione soltanto di alcuni compiti accessori a quelli tipici della qualifica professionale rivestita dal lavoratore.

Resta aperto il problema dei parametri in virtù dei quali compiere il giudizio di bilanciamento tra inadempimento e autotutela, specie in tutte quelle "zone grigie" nelle quali si manifestano più frequentemente casi di demensionamento.


 

(1) L'art. 1460, comma 1, c.c., prevede che «nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto».

(2) V. Ferrante, Potere e autotutela, cit., p. 278.

(3) M.G. Mattarolo, Il dovere di obbedienza, in C. Cester, M.G. Mattarolo, Diligenza e obbedienza del prestatore di lavoro, in Il Codice Civile. Commentario fondato  da P. Schlesinger, Milano, 2007, p. 473.

(4) Su proporzionalità e buona fede si veda Cass., 19 agosto 2003, 12161, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, p. 378. Secondo Cass., 23 novembre 1995, n. 12121, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, p. 796, «il rifiuto può considerarsi in buona fede solo se si traduca in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, risulti oggettivamente ragionevole e logico, nel senso di trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni inseguite e l'importanza di quelle rifiutate, in relazione a legami di corrispettività e contemporaneità delle medesime». 

(5) R. Bausardo, Il demensionamento, cit., p. 201.

Eccezione di inadempimento

La dottrina e la giurisprudenza maggioritaria, muovendo da un'impostazione contrattualistica del potere direttivo dell'imprenditore, qualificano il rifiuto di svolgere mansioni inferiori come eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. (1).

Secondo questa ricostruzione l'atto con il quale il datore adibisce il lavoratore a mansioni inferiori integra un inadempimento contrattuale per violazione di un'obbligazione di non facere (non adibire il lavoratore a mansioni inferiori). L'assegnazione a mansioni inferiori configura pertanto un'esecuzione del contratto contraria a buona fede alla quale il lavoratore può reagire secondo il principio inadimplenti non est adimplendum (2).

Tale impostazione implica necessariamente l'applicazione dell'art. 1460, comma 2, c.c., ai sensi del quale «non può rifiutarsi l'esecuzione [della prestazione] se, avuto riguardo alla circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede». L'autotutela del lavoratore incontra così il limite della buona fede la quale deve essere valutata in particolare con riguardo «alla effettiva incidenza dell'inadempimento sulla funzione sociale del contratto e, più in generale, sull'economia complessiva del rapporto» (3). Sarà pertanto necessario valutare la proporzionalità della reazione del lavoratore rispetto, non solo alla condotta inadempiente del datore di lavoro, ma all'intera economia del contratto (4). Un tanto esclude la legittimità dell'autotutela in ipotesi di inadempimenti datoriali di scarso rilievo, tali da non incidere sul complessivo contenuto professionale della prestazione (5). Si pensi ad esempio alla sottrazione soltanto di alcuni compiti accessori a quelli tipici della qualifica professionale rivestita dal lavoratore.

Resta aperto il problema dei parametri in virtù dei quali compiere il giudizio di bilanciamento tra inadempimento e autotutela, specie in tutte quelle "zone grigie" nelle quali si manifestano più frequentemente casi di demensionamento.


 

(1) L'art. 1460, comma 1, c.c., prevede che «nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto».

(2) V. Ferrante, Potere e autotutela, cit., p. 278.

(3) M.G. Mattarolo, Il dovere di obbedienza, in C. Cester, M.G. Mattarolo, Diligenza e obbedienza del prestatore di lavoro, in Il Codice Civile. Commentario fondato  da P. Schlesinger, Milano, 2007, p. 473.

(4) Su proporzionalità e buona fede si veda Cass., 19 agosto 2003, 12161, in Riv. it. dir. lav., 2004, II, p. 378. Secondo Cass., 23 novembre 1995, n. 12121, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, p. 796, «il rifiuto può considerarsi in buona fede solo se si traduca in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, risulti oggettivamente ragionevole e logico, nel senso di trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni inseguite e l'importanza di quelle rifiutate, in relazione a legami di corrispettività e contemporaneità delle medesime». 

(5) R. Bausardo, Il demensionamento, cit., p. 201.

La soluzione della S.C.

Secondo un primo orientamento il rifiuto della prestazione è legittimo solo in presenza di un inadempimento totale delle obbligazioni principali del datore di lavoro.

É questa l'impostazione ribadita di recente dalla Cassazione con la pronuncia n. 9351/2011 (1), secondo la quale «nel rapporto di lavoro subordinato non è legittimo il rifiuto, opposto dal lavoratore, di eseguire la prestazione a causa di una ritenuta dequalificazione, ove il datore di lavoro offra l'adempimento di tutti gli obblighi derivanti dal contratto (retribuzione, contribuzione previdenziale, ecc), essendo giustificato il rifiuto di adempiere ex art. 1460 c.c. solo se l'altra parte sia totalmente inadempiente».

Ponendosi sulla stessa linea la giurisprudenza di legittimità ha affermato che «l'eventuale adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non autorizza lo stesso a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, essendo egli tenuto ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost. e può legittimamente invocare l'art. 1460 c.c., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte» (2).

Tale orientamento è stato criticato da parte della dottrina secondo la quale esso presuppone un modello di impresa in cui prevale un incondizionato dovere di obbedienza del lavoratore che si pone al di fuori degli schemi tipici del rapporto corrispettivo. La dottrina ha altresì sottolineato come tecnicamente sia scorretto (anzi, sia un controsenso) ritenere che l'esercizio dell'autotutela sia condizionato al previo avallo giudiziario e cioè dall'accertamento di un illecito datoriale (3).


 

(1) Cass., 26 aprile 2001, n. 9351. Nello stesso senso Cass., 19 dicembre 2008, n. 29832, in Mass. giur. it., 2008; Cass., 9 maggio 2007, n. 10547, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, p. 597.

(2) Cass., 5 dicembre 2007, n. 25313, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, p. 470; Cass. 23 dicembre 2003, n. 19689, in Lav. giur., 2004, p. 1169.

(3) M. Brollo, La mobilità interna del lavoratore, in Il Codice Civile. Commentario fondato  da P. Schlesinger, Milano, 1997, p. 273.

Il pagamento della retribuzione

Nella recente sentenza della Cassazione n. 9351/2011, i giudici di legittimità hanno ritenuto che il rifiuto della prestazione lavorativa da parte del lavoratore demansionato ai sensi dell'art. 1460 c.c. non può essere ritenuto legittimo, perché contrario a buona fede, in presenza del pagamento della retribuzione da parte dell'impresa. In ossequio all'orientamento maggioritario già ricordato, tale rifiuto è da considerarsi legittimo solo in presenza di un totale inadempimento da parte del datore di lavoro.

Si deve ritenere che la nozione di «totale inadempimento» degli obblighi derivanti dal contratto vada riferita alle obbligazioni principali del datore di lavoro ed in particolare, oltre che al pagamento della retribuzione, anche all'adempimento dell'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. e all'obbligo di contribuzione previdenziale di cui all'art. 2115 c.c. In sostanza laddove al lavoratore sia garantita la retribuzione, la sicurezza e la contribuzione, non gli è consentito di rifiutare legittimamente in via di autotutela la prestazione lavorativa richiesta dal datore di lavoro.

Altri orientamenti della S.C.

Secondo un orientamento giurisprudenziale la valutazione dell'inadempimento datoriale e del rifiuto della prestazione deve essere svolto comparativamente, ponendo attenzione anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto, alla rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, alle posizioni della parti e agli interessi delle stesse nonché alla buona fede (1). Tale interpretazione implica un giudizio più flessibile e una valutazione articolata delle condotte di entrambi le parti, operazioni le quali non sembrano essere di facile attuazione e che lasciano al giudice un ampio spazio di intervento e alle parti, contestualmente, ampi margini di incertezza.

In alcuni casi la Suprema Corte è giunta ad escludere la legittimità dell'autotutela in caso di esigenze aziendali improrogabili considerate, pertanto, idonee ad affievolire il diritto allo svolgimento di mansioni equivalenti (2).

La giurisprudenza ha altresì ritenuto illegittimo il rifiuto del lavoro di svolgere le mansioni inferiori assegnategli in via transitoria allo scopo di fargli acquisire nuove tecniche lavorative e quindi una maggior professionalità, ritenendo legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato dall'impresa (3).


 

(1) Cass., 16 maggio 2006, n. 11430. in Mass. giur. it., 2006.

(2) Cass., 12 luglio 2002, n. 1087, in Riv. it. dir. lav., 2003, II, p. 53.

(3) Cass., 1° marzo 2001, n. 2948, in Foro it., 2001, I, c. 1869; Cass., 6 aprile 1999, n. 3314, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, p. 483.

 

Rifiuto della prestazione non dovuta

 

Va segnalato un filone interpretativo secondo il quale il rifiuto della prestazione non è sussumibile nella fattispecie dell'eccezione di inadempimento, trattandosi viceversa di rifiuto di una prestazione non dovuta. Il lavoratore, rifiutando lo svolgimento delle mansioni inferiori (come tali contrattualmente non dovute) e continuando a offrire la prestazione dovuta, non può essere ritenuto inadempiente e conserva il diritto alla retribuzione da parte del datore di lavoro che si trova in una situazione di mora accipiendi (1).

 

Infatti, come si legge in alcune rare pronunce della giurisprudenza di legittimità, «ai sensi dell'art. 2103 c.c., lo ius variandi è attribuito all'imprenditore solo nell'ambito delle mansioni equivalenti a quelle già esercitate dal lavoratore. In difetto, il contratto di lavoro non subisce alcuna modifica nei contenuti e l'ordine impartito al dipendente si colloca al di fuori del contenuto contrattuale. L'inottemperanza ad esso, pertanto, non può costituire inadempimento» (2).

 

(1) Per tutti si veda A. Vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro, vol. II, Il rapporto di lavoro, Padova, 2008, p. 164 s.

 

(2) Cass., 7 dicembre 1991, n. 13187, in Riv. it. dir. lav., 1992, II, p. 947; Cass., 8 giugno 1999, n. 5643, cit.; analogamente Cass., 3 febbraio 1994, n. 1088, in Giur. it., 1994, I, 1, c. 1286.

 

 

 

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