Matteo Bellina
-
Premessa
-
Tutele contro il
demansionamento
-
Rifiuto della prestazione
e autotutela
-
Eccezione di inadempimento
-
La soluzione della S.C.
-
Il pagamento della
retribuzione
-
Altri orientamenti della
S.C.
-
Rifiuto della prestazione
non dovuta
La dottrina e la giurisprudenza
maggioritaria, muovendo da un'impostazione
contrattualistica del potere direttivo
dell'imprenditore, qualificano il rifiuto di svolgere
mansioni inferiori come eccezione di inadempimento ai
sensi dell'art. 1460 c.c. Secondo l'impostazione
ribadita di recente dalla Cassazione con la pronuncia n.
9351/2011 "nel rapporto di lavoro subordinato non è
legittimo il rifiuto, opposto dal lavoratore, di
eseguire la prestazione a causa di una ritenuta
dequalificazione, ove il datore di lavoro offra
l'adempimento di tutti gli obblighi derivanti dal
contratto (retribuzione, contribuzione previdenziale,
ecc), essendo giustificato il rifiuto di adempiere ex
art. 1460 c.c. solo se l'altra parte sia totalmente
inadempiente"
Premessa
L'art. 2103 c.c., comma 1, prevede che
il prestatore di lavoro debba essere adibito alle
mansioni per le quali è stato assunto o a quelle
corrispondenti alla categoria superiore che abbia
successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti
alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna
diminuzione di retribuzione. Nel nostro ordinamento vige
pertanto un generale divieto di adibizione del
lavoratore a mansioni non equivalenti e quindi inferiori
a quelle precedenti. La legge attribuisce al prestatore
di lavoro un diritto indisponile,
sanzionando con la nullità ogni patto contrario (art.
2103, comma 2, c.c.) (1). Si ritiene infatti che il
diritto all'equivalenza della mansioni afferisca alla
dignità e alla professionalità del lavoratore
(prerogative che trovano fondamento negli artt. 2 e 35
Cost.) e come tale non possa essere da questi
rinunciato.
(1) Si veda, da ultimo,
Cass. 14 aprile 2011, n. 8527.
A
L'Opinione
Corte di Cassazione
Demansionamento e
rifiuto della prestazione lavorativa
Matteo Bellina
-
Premessa
-
Tutele contro il demansionamento
-
Rifiuto della prestazione e autotutela
-
Eccezione di inadempimento
-
La soluzione della S.C.
-
Il pagamento della retribuzione
-
Altri orientamenti della S.C.
-
Rifiuto della prestazione non dovuta
Tutele contro il
demansionamento
Contro la violazione del diritto
all'adibizione a mansioni equivalenti, compreso lo
spostamento a mansioni inferiori o la sottrazione
di compiti rilevanti, il lavoratore può reagire in
sede giudiziaria chiedendo al giudice, oltre alla
dichiarazione di nullità dell'atto datoriale di
demansionamento, anche la condanna del datore di lavoro
al ripristino della situazione precedente, cioè
l'assegnazione a mansioni equivalenti (1).
L'infungibilità del facere ordinato dal giudice
con tale ultima pronuncia e, dunque, l'incoercibilità
della sentenza di condanna (2), depotenzia l'efficacia
dell'azione rendendo maggiormente appetibile al
lavoratore la richiesta di risarcimento del danno
(3) ovvero, specie in costanza di rapporto, la
proposizione di un'azione cautelare d'urgenza ai
sensi dell'art. 700 c.p.p., sempre laddove sussista il
periculum in mora di un danno alla
persona del lavoratore (danno alla professionalità,
danno all'immagine, danno biologico o altro danno non
patrimoniale derivante dalla violazione di un diritto
costituzionalmente tutelato) (4).
Tuttavia anche il provvedimento
cautelare è condizionato dal principio di incoercibilità
del fare infungibile, donde esso diviene ammissibile e
utile solo per ottenere la sospensione degli effetti
giuridici dell'atto datoriale pregiudizievole, ma non
anche per reimmettere il lavoratore nelle mansioni a lui
spettanti e precedentemente svolte. In sostanza
difficilmente attraverso il ricorso giurisdizionale il
lavoratore demansionato potrà trovare una tutela utile e
celere e dunque una piena soddisfazione del proprio
diritto.
(1) Sulla cumulabilità
dell'azione risarcitoria e dell'azione ripristinatoria,
Cass. 8 novembre 20904, n. 21253, in Mass. giur. lav.,
2005, p. 61.
(2) Cass., 14 maggio
2002, n. 6996, in Riv. it. dir. lav., 2003, II,
p. 326; Cass. 12 ottobre 1999, n. 11479, in Mass.
giur. lav., 1999, p. 1372.
(3) In tema di
risarcimento del danno da demensionamento, Cass., Sez.
Un., 24 marzo 2006, n. 6572, in Riv. it. dir. lav.,
2006, II, p. 687.
(4) Cass., 12 ottobre
1999, n. 11479, in Dir. prat. lav., 2000, p. 585;
Trib. Roma 23 luglio 2003, in Dir. lav., 2004, p.
685.
Rifiuto della
prestazione e autotutela
Il lavoratore può efficacemente reagire
alla modifica in pejus delle mansioni
attraverso l'esercizio della c.d. autotutela
(conservativa) (1), in particolare astenendosi dallo
svolgere le inferiori o non equivalenti mansioni che il
datore di lavoro, nell'illegittimo esercizio del suo
ius variandi, gli ha imposto o assegnato.
L'autotutela consente, specie nei c.d. rapporti
resistenti, una reazione tempestiva al demansionamento
datoriale, senza comportare la rinuncia né al rapporto
di lavoro, né al conseguente diritto alla retribuzione.
Va però tenuto presente che l'esercizio
dell'autotutela presenta alcuni rischi per il
lavoratore: in particolare, la tempestività con la
quale essa deve essere per definizione attuata, espone
il lavoratore al pericolo che, all'esito dell'eventuale
accertamento giudiziario, la condotta del datore di
lavoro sia considerata lecita e la sua reazione illecita
e dunque sanzionabile disciplinarmente. In particolare
laddove l'autotutela consista nell'astensione dal lavoro
o comunque nel rifiuto della prestazione, l'eventuale
accertamento della liceità della condotta datoriale,
espone il lavoratore al rischio di subire provvedimenti
disciplinari i quali (specie qualora il rifiuto della
prestazione si prolunghi per più giornate lavorative)
possono consistere nel licenziamento per giustificato
motivo soggettivo o per giusta causa (2).
Per tutti valga l'esempio del Ccnl
dell'industria metalmeccanica e dell'installazione degli
impianti laddove è previsto che può essere applicata la
sanzione dell'ammonizione, della multa e della
sospensione per il lavoratore che, senza giustificato
motivo sospende il lavoro o ne anticipa la cessazione o
che non si presenta al lavoro o che abbandona il proprio
posto (art. 9, lett. a) e b), Sez. Quarta,
Titolo VII). La sanzione del licenziamento con preavviso
può essere applicata nei casi in cui l'assenza si
prolunga per quattro giorni consecutivi ovvero quando
l'abbandono del posto riguarda lavoratori svolgenti
funzioni di sorveglianza, custodia e controllo. Se
l'abbandono del posto di lavoro può comportare
pregiudizio all'incolumità delle persone o alla
sicurezza degli impianti è previsto il licenziamento per
giusta causa (senza preavviso) (3).
Il rifiuto della prestazione può
integrare altresì gli estremi della c.d.
insubordinazione (4), infrazione disciplinare
sanzionata nella generalità dei contratti collettivi con
il licenziamento. In particolare alcuni contratti
collettivi prevedono la sanzione del licenziamento senza
preavviso nell'ipotesi di «grave insubordinazione» e del
licenziamento con preavviso negli altri casi, fatte
salve le ipotesi di particolare tenuità del fatto nelle
quali si applicano sanzioni conservative (5).
Il rifiuto della prestazione lavorativa,
per quanto efficace reazione all'inadempimento o
all'illegittima richiesta datoriale, è uno strumento che
deve essere utilizzato con cautela all'esito di una
valutazione degli elementi di rischio connessi
intrinsecamente con l'istituto (6). In gioco, giova
ribadirlo, c'è la conservazione del posto del
lavoratore.
Una prima questione attiene al corretto
inquadramento del rifiuto della prestazione lavorativa
quale reazione al demansionamento. Sul punto si
registrano due impostazioni principali: quella che
radica il fondamento della legittimità del rifiuto del
lavoratore di eseguire mansioni inferiori nell'eccezione
di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 c.c. e
quella che lo qualifica come rifiuto di una
prestazione contrattualmente non dovuta.
(1) Cfr. M. Dell'Olio,
voce Autotutela. III) Diritto del lavoro, in
Enc. giur. Treccani, vol. IV, Roma, 1988, p. 1 ss.
Sull'autotutela nel rapporto di lavoro si vedano anche
V. Ferrante, Potere e autotutela nel contratto di
lavoro subordinato, Torino, 2004; A. Vallebona,
Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del
lavoratore, Padova, 1995.
(2) Cass. 12 maggio
2005, n. 9954, in Giust. civ. mass., 2005, p. 5;
Cass., 23 dicembre 2003, n. 19689, in Giust. civ.
mass., 2003, p. 12; Cass., 8 giugno 1999, n. 5643,
in Mass. giur. lav., 1999, p. 954; Cass., 22
novembre 1996, n. 10304, in Giust. civ., 1997, I,
p. 955; Trib. Milano, 22 novembre 1999, in Dir. lav.,
2000, II, p. 37.
(3) Alcuni contratti
prevedono il licenziamento per giusta causa per
l'abbandono del servizio. Si tratta, ad esempio, del
Ccnl per il Settore della Sorveglianza Antincendio
(Anisa-Confsal-Confsal Vigili del Fuoco) che prevede
all'art. 42, comma 5, lett. a), la sanzione del
licenziamento senza preavviso per l'«abbandono
ingiustificato del servizio, con conseguente
interruzione dello stesso».
(4) Rientra nella
nozione di insubordinazione, ad esempio, l'abbandono del
posto di lavoro (Cass. 11 giugno 1988, n. 4010, in
Notiz. giur. lav., 1988, p. 847, in una fattispecie
relativa all'abbandono del posto di lavoro da parte di
un custode), nonché il rifiuto di eseguire direttive
impartite dall'imprenditore o dal superiore gerarchico.
Si tratta, evidentemente, di violazioni del più generale
dovere di obbedienza di cui all'art. 2104 c.c.
(5) Ad esempio, il Ccnl
del settore Metalmeccanico prevede l'applicazione di
sanzioni conservative per la «lieve insubordinazione»,
il licenziamento con preavviso per l'insubordinazione
"semplice" e il licenziamento senza preavviso nei casi
di «grave insubordinazione». Il Ccnl del settore Chimico
commina all'art. 52, comma 2, lett. k), la sanzione del
licenziamento senza preavviso per l'«insubordinazione
verso i superiori». Analogamente l'art. 67 del Ccnl del
settore Cemento, sanziona l'insubordinazione verso i
superiori con il licenziamento senza preavviso.
(6) Sul punto, M.
Brollo, Le modificazioni oggettive: il mutamento
delle mansioni, in Diritto del lavoro. Commentario
diretto da F. Carinci, vol. II, a cura di C. Cester,
Torino, 2008, p. 1541 ss. Secondo R. Bausardo, Il
demensionamento, in Il diritto privato nella
giurisprudenza - Lavoro, a cura di P. Cendon, vol.
III, La tutela del lavoratore, Torino, 2009, p. 200,
«l'azienda si troverebbe, per così dire, a rispondere
con una pesante sanzione che verrebbe irrogata senza che
l'esercizio del potere in questione abbia superato il
vaglio dell'autorità giudiziaria. In altri termini,
l'imprenditore si troverebbe esposto in caso di
valutazione negativa, a conseguenze ben più gravi di
quelle che prevedibilmente sono da attendersi in caso di
esercizio illegittimo dello ius variandi».
Eccezione di
inadempimento
La dottrina e la giurisprudenza
maggioritaria, muovendo da un'impostazione
contrattualistica del potere direttivo
dell'imprenditore, qualificano il rifiuto di svolgere
mansioni inferiori come eccezione di inadempimento ai
sensi dell'art. 1460 c.c. (1).
Secondo questa ricostruzione l'atto con
il quale il datore adibisce il lavoratore a mansioni
inferiori integra un inadempimento contrattuale per
violazione di un'obbligazione di non facere
(non adibire il lavoratore a mansioni inferiori).
L'assegnazione a mansioni inferiori configura pertanto
un'esecuzione del contratto contraria a buona fede alla
quale il lavoratore può reagire secondo il principio
inadimplenti non est adimplendum (2).
Tale impostazione implica
necessariamente l'applicazione dell'art. 1460, comma 2,
c.c., ai sensi del quale «non può rifiutarsi
l'esecuzione [della prestazione] se, avuto riguardo alla
circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede».
L'autotutela del lavoratore incontra così il limite
della buona fede la quale deve essere valutata in
particolare con riguardo «alla effettiva incidenza
dell'inadempimento sulla funzione sociale del contratto
e, più in generale, sull'economia complessiva del
rapporto» (3). Sarà pertanto necessario valutare la
proporzionalità della reazione del lavoratore
rispetto, non solo alla condotta inadempiente del datore
di lavoro, ma all'intera economia del contratto (4). Un
tanto esclude la legittimità dell'autotutela in ipotesi
di inadempimenti datoriali di scarso rilievo, tali da
non incidere sul complessivo contenuto professionale
della prestazione (5). Si pensi ad esempio alla
sottrazione soltanto di alcuni compiti accessori a
quelli tipici della qualifica professionale rivestita
dal lavoratore.
Resta aperto il problema dei
parametri in virtù dei quali compiere il giudizio di
bilanciamento tra inadempimento e autotutela,
specie in tutte quelle "zone grigie" nelle quali si
manifestano più frequentemente casi di demensionamento.
(1) L'art. 1460, comma
1, c.c., prevede che «nei contratti con prestazioni
corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di
adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o
non offre di adempiere contemporaneamente la propria,
salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati
stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del
contratto».
(2) V. Ferrante,
Potere e autotutela, cit., p. 278.
(3) M.G. Mattarolo,
Il dovere di obbedienza, in C. Cester, M.G.
Mattarolo, Diligenza e obbedienza del prestatore di
lavoro, in Il Codice Civile. Commentario fondato
da P. Schlesinger, Milano, 2007, p. 473.
(4) Su proporzionalità e
buona fede si veda Cass., 19 agosto 2003, 12161, in
Riv. it. dir. lav., 2004, II, p. 378. Secondo Cass.,
23 novembre 1995, n. 12121, in Riv. it. dir. lav.,
1996, II, p. 796, «il rifiuto può considerarsi in buona
fede solo se si traduca in un comportamento che, oltre a
non contrastare con i principi generali della
correttezza e della lealtà, risulti oggettivamente
ragionevole e logico, nel senso di trovare concreta
giustificazione nel raffronto tra prestazioni inseguite
e l'importanza di quelle rifiutate, in relazione a
legami di corrispettività e contemporaneità delle
medesime».
(5) R. Bausardo, Il
demensionamento, cit., p. 201.
Eccezione di
inadempimento
La dottrina e la giurisprudenza
maggioritaria, muovendo da un'impostazione
contrattualistica del potere direttivo
dell'imprenditore, qualificano il rifiuto di svolgere
mansioni inferiori come eccezione di inadempimento ai
sensi dell'art. 1460 c.c. (1).
Secondo questa ricostruzione l'atto con
il quale il datore adibisce il lavoratore a mansioni
inferiori integra un inadempimento contrattuale per
violazione di un'obbligazione di non facere
(non adibire il lavoratore a mansioni inferiori).
L'assegnazione a mansioni inferiori configura pertanto
un'esecuzione del contratto contraria a buona fede alla
quale il lavoratore può reagire secondo il principio
inadimplenti non est adimplendum (2).
Tale impostazione implica
necessariamente l'applicazione dell'art. 1460, comma 2,
c.c., ai sensi del quale «non può rifiutarsi
l'esecuzione [della prestazione] se, avuto riguardo alla
circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede».
L'autotutela del lavoratore incontra così il limite
della buona fede la quale deve essere valutata in
particolare con riguardo «alla effettiva incidenza
dell'inadempimento sulla funzione sociale del contratto
e, più in generale, sull'economia complessiva del
rapporto» (3). Sarà pertanto necessario valutare la
proporzionalità della reazione del lavoratore
rispetto, non solo alla condotta inadempiente del datore
di lavoro, ma all'intera economia del contratto (4). Un
tanto esclude la legittimità dell'autotutela in ipotesi
di inadempimenti datoriali di scarso rilievo, tali da
non incidere sul complessivo contenuto professionale
della prestazione (5). Si pensi ad esempio alla
sottrazione soltanto di alcuni compiti accessori a
quelli tipici della qualifica professionale rivestita
dal lavoratore.
Resta aperto il problema dei
parametri in virtù dei quali compiere il giudizio di
bilanciamento tra inadempimento e autotutela,
specie in tutte quelle "zone grigie" nelle quali si
manifestano più frequentemente casi di demensionamento.
(1) L'art. 1460, comma
1, c.c., prevede che «nei contratti con prestazioni
corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di
adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o
non offre di adempiere contemporaneamente la propria,
salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati
stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del
contratto».
(2) V. Ferrante,
Potere e autotutela, cit., p. 278.
(3) M.G. Mattarolo,
Il dovere di obbedienza, in C. Cester, M.G.
Mattarolo, Diligenza e obbedienza del prestatore di
lavoro, in Il Codice Civile. Commentario fondato
da P. Schlesinger, Milano, 2007, p. 473.
(4) Su proporzionalità e
buona fede si veda Cass., 19 agosto 2003, 12161, in
Riv. it. dir. lav., 2004, II, p. 378. Secondo Cass.,
23 novembre 1995, n. 12121, in Riv. it. dir. lav.,
1996, II, p. 796, «il rifiuto può considerarsi in buona
fede solo se si traduca in un comportamento che, oltre a
non contrastare con i principi generali della
correttezza e della lealtà, risulti oggettivamente
ragionevole e logico, nel senso di trovare concreta
giustificazione nel raffronto tra prestazioni inseguite
e l'importanza di quelle rifiutate, in relazione a
legami di corrispettività e contemporaneità delle
medesime».
(5) R. Bausardo, Il
demensionamento, cit., p. 201.
La soluzione della S.C.
Secondo un primo orientamento il rifiuto
della prestazione è legittimo solo in presenza di un
inadempimento totale delle obbligazioni principali
del datore di lavoro.
É questa l'impostazione ribadita di
recente dalla Cassazione con la pronuncia n. 9351/2011
(1), secondo la quale «nel rapporto di lavoro
subordinato non è legittimo il rifiuto, opposto dal
lavoratore, di eseguire la prestazione a causa di una
ritenuta dequalificazione, ove il datore di lavoro offra
l'adempimento di tutti gli obblighi derivanti dal
contratto (retribuzione, contribuzione previdenziale,
ecc), essendo giustificato il rifiuto di adempiere ex
art. 1460 c.c. solo se l'altra parte sia totalmente
inadempiente».
Ponendosi sulla stessa linea la
giurisprudenza di legittimità ha affermato che
«l'eventuale adibizione a mansioni non rispondenti alla
qualifica rivestita può consentire al lavoratore di
richiedere giudizialmente la riconduzione della
prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza,
ma non autorizza lo stesso a rifiutarsi
aprioristicamente, e senza un eventuale avallo
giudiziario, di eseguire la prestazione lavorativa
richiestagli, essendo egli tenuto ad osservare le
disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito
dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., da
applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art.
41 Cost. e può legittimamente invocare l'art. 1460 c.c.,
rendendosi inadempiente, solo in caso di totale
inadempimento dell'altra parte» (2).
Tale orientamento è stato criticato da
parte della dottrina secondo la quale esso presuppone un
modello di impresa in cui prevale un incondizionato
dovere di obbedienza del lavoratore che si pone al di
fuori degli schemi tipici del rapporto corrispettivo. La
dottrina ha altresì sottolineato come tecnicamente sia
scorretto (anzi, sia un controsenso) ritenere che
l'esercizio dell'autotutela sia condizionato al previo
avallo giudiziario e cioè dall'accertamento di un
illecito datoriale (3).
(1) Cass., 26 aprile
2001, n. 9351. Nello stesso senso Cass., 19 dicembre
2008, n. 29832, in Mass. giur. it., 2008; Cass.,
9 maggio 2007, n. 10547, in Riv. it. dir. lav.,
2008, II, p. 597.
(2) Cass., 5 dicembre
2007, n. 25313, in Riv. it. dir. lav., 2008, II,
p. 470; Cass. 23 dicembre 2003, n. 19689, in Lav.
giur., 2004, p. 1169.
(3) M. Brollo, La
mobilità interna del lavoratore, in Il
Codice Civile. Commentario fondato da P. Schlesinger,
Milano, 1997, p. 273.
Il
pagamento della retribuzione
Nella recente
sentenza della Cassazione n. 9351/2011, i giudici di
legittimità hanno ritenuto che il rifiuto della
prestazione lavorativa da parte del lavoratore
demansionato ai sensi dell'art. 1460 c.c. non può essere
ritenuto legittimo, perché contrario a buona fede, in
presenza del pagamento della retribuzione da parte
dell'impresa. In ossequio all'orientamento maggioritario
già ricordato, tale rifiuto è da considerarsi legittimo
solo in presenza di un totale inadempimento da parte del
datore di lavoro.
Si deve ritenere che
la nozione di «totale inadempimento» degli obblighi
derivanti dal contratto vada riferita alle
obbligazioni principali del datore di lavoro ed in
particolare, oltre che al pagamento della retribuzione,
anche all'adempimento dell'obbligo di sicurezza
di cui all'art. 2087 c.c. e all'obbligo di
contribuzione previdenziale di cui all'art. 2115
c.c. In sostanza laddove al lavoratore sia garantita la
retribuzione, la sicurezza e la contribuzione, non gli è
consentito di rifiutare legittimamente in via di
autotutela la prestazione lavorativa richiesta dal
datore di lavoro.
Altri orientamenti della
S.C.
Secondo un orientamento
giurisprudenziale la valutazione dell'inadempimento
datoriale e del rifiuto della prestazione deve essere
svolto comparativamente, ponendo attenzione anche
alla loro proporzionalità rispetto alla funzione
economico-sociale del contratto, alla rispettiva
incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, alle posizioni
della parti e agli interessi delle stesse nonché alla
buona fede (1). Tale interpretazione implica un giudizio
più flessibile e una valutazione articolata delle
condotte di entrambi le parti, operazioni le quali non
sembrano essere di facile attuazione e che lasciano al
giudice un ampio spazio di intervento e alle parti,
contestualmente, ampi margini di incertezza.
In alcuni casi la Suprema Corte è giunta
ad escludere la legittimità dell'autotutela in caso di
esigenze aziendali improrogabili considerate,
pertanto, idonee ad affievolire il diritto allo
svolgimento di mansioni equivalenti (2).
La giurisprudenza ha altresì ritenuto
illegittimo il rifiuto del lavoro di svolgere le
mansioni inferiori assegnategli in via transitoria allo
scopo di fargli acquisire nuove tecniche lavorative e
quindi una maggior professionalità, ritenendo legittimo
il licenziamento per giusta causa irrogato dall'impresa
(3).
(1) Cass., 16 maggio
2006, n. 11430. in Mass. giur. it., 2006.
(2) Cass., 12 luglio
2002, n. 1087, in Riv. it. dir. lav., 2003, II,
p. 53.
(3) Cass., 1° marzo
2001, n. 2948, in Foro it., 2001, I, c. 1869;
Cass., 6 aprile 1999, n. 3314, in Riv. it. dir. lav.,
1999, II, p. 483.
Rifiuto della prestazione non dovuta
Va
segnalato un filone interpretativo secondo il quale il
rifiuto della prestazione non è sussumibile nella
fattispecie dell'eccezione di inadempimento, trattandosi
viceversa di rifiuto di una prestazione non dovuta. Il
lavoratore, rifiutando lo svolgimento delle mansioni
inferiori (come tali contrattualmente non dovute) e
continuando a offrire la prestazione dovuta, non può
essere ritenuto inadempiente e conserva il diritto alla
retribuzione da parte del datore di lavoro che si trova
in una situazione di mora accipiendi (1).
Infatti, come si legge in alcune rare pronunce della
giurisprudenza di legittimità, «ai sensi dell'art. 2103
c.c., lo ius variandi è attribuito all'imprenditore solo
nell'ambito delle mansioni equivalenti a quelle già
esercitate dal lavoratore. In difetto, il contratto di
lavoro non subisce alcuna modifica nei contenuti e
l'ordine impartito al dipendente si colloca al di fuori
del contenuto contrattuale. L'inottemperanza ad esso,
pertanto, non può costituire inadempimento» (2).
(1) Per tutti si veda A. Vallebona,
Istituzioni di diritto del lavoro, vol. II, Il rapporto
di lavoro, Padova, 2008, p. 164 s.
(2) Cass., 7 dicembre 1991, n.
13187, in Riv. it. dir. lav., 1992, II, p. 947; Cass., 8
giugno 1999, n. 5643, cit.; analogamente Cass., 3
febbraio 1994, n. 1088, in Giur. it., 1994, I, 1, c.
1286.
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