Impossibile delibare una sentenza
di condanna per “danni punitivi”, emessa all’estero nei
confronti di soggetti giuridici italiani
Una recente sentenza statunitense
ha condannato un’azienda italiana al pagamento di somme,
a titolo di “danni punitivi“, per un ammontare di gran
lunga superiore alla somma liquidata a titolo di
risarcimento del danno.
I danni punitivi (punitive demages)
nascono nel sistema giudiziario di common law (sistema
in cui -com’è noto- non è netta la distinzione tra
diritto civile e diritto penale), mentre sono
sconosciuti al sistema romanistico di civil law.
La giurisprudenza statunitense
individua in particolare nei punitive demages una doppia
ragione giustificatrice:
1) impedirebbero la ripetizione del
comportamento lesivo;
2) adempirebbero ad una funzione
retributiva rispetto alla condotta antisociale attuata
dall’offensore.
La delibazione della sentenza di
condanna per danni punitivi, emessa negli U.S.A. nei
confronti del soggetto giuridico italiano, non è
tuttavia possibile.
La legge n. 218 del 1995 (“Riforma
del sistema italiano di diritto internazionale
privato”), prevede, infatti, come ultima condizione per
il riconoscimento in Italia di una sentenza straniera,
che “le disposizioni di quest’ultima non producano
effetti contrari all’ordine pubblico“.
Nel nostro ordinamento, l’idea di
punizione o di sanzione rimane estranea alle teoriche in
tema di risarcimento del danno, e dunque estranea
all’ambito civile, così come risulta di base
indifferente la condotta in sé del danneggiante.
La nostra Cassazione (sezione III,
sentenza 19.1.2007 n.1183), nel dare atto che “i danni
punitivi pongono in atto una mera risposta punitiva
verso il responsabile di una lesione di un diritto“, ha
dunque escluso la possibilità di delibare la sentenza
straniera contenente statuizioni sui punitive demages,
in quanto contrastante con l’ordinamento interno, che
esclude la risarcibilità del danno in misura “maggiore”
rispetto al pregiudizio subito.
Attendiamo ora una pronuncia della
Cassazione civile sul nuovo (tanto discusso!) comma III
dell’art. 96 c.p.c., ma nel frattempo la Cassazione
penale, sentenza n. 5300 del 2011, ci offre “una prima
lettura interpretativa“, seppure per grandi linee,
dell’istituto (in chiave sanzionatoria), richiamando,
con chiaro monito, “l’attenzione, comprensione e
diligenza del giudice’’.
E la costante giurisprudenza di
merito giunge a qualificare il nuovo danno punitivo, ex
art. 96 comma 3 c.p.c., in termini di “sanzione di
natura pubblicistica“: perché mirerebbe a punire il
comportamento processuale della parte che violi il
principio costituzionale della “durata del processo”
(incidendo non solo sulla durata del singolo processo ma
anche su tutti gli altri procedimenti “a catena”).
Nel nostro ordinamento, dunque,
mancando in realtà una definizione precisa di abuso del
processo come proiezione dell’abuso del diritto, l’art.
96 comma 3 c.p.c. configurerebbe non tanto una misura
risarcitoria, quanto una misura
pubblicistica-sanzionatoria ‘’per mero abuso del
processo’’.
Pubblicato da Tiziano Solignani |