principato di monaco
Anche per l’imposta sul valore
aggiunto, conta dove il contribuente vive e svolge
realmente l’attività
La nozione di residenza fiscale è
valevole anche in materia di Iva
In caso di prestazione di servizi
effettuata in Italia da un contribuente che abbia, di
fatto, nello stato italiano la sua dimora abituale e la
sede dei suoi affari e interessi, per l’accertamento del
domicilio e della residenza effettivi, valgono le
nozioni previste dall’articolo 43 del codice civile.
Quanto indicato, dall’articolo 17, comma 3, del Dpr
633/1972, si applica, invece, soltanto se il soggetto
che ha reso la prestazione non è residente.
Questo, in sintesi, il principio di
diritto desumibile dalla sentenza della Cassazione n.
14071/2011.
La vicenda
La controversia trae origine dal
ricorso presentato avverso l’avviso accertamento con cui
l’Agenzia delle Entrate di Bologna aveva accertato
compensi corrisposti da diversi teatri italiani a un
artista, il quale, benché avesse trasferito la sua
residenza nel Principato di Monaco fin dal 1989, aveva
di fatto mantenuto in Italia la sede principale dei
propri affari e interessi patrimoniali e morali e,
quindi, la propria residenza effettiva.
In particolare, l’ufficio
finanziario aveva svolto una approfondita e minuziosa
attività di indagine dalla quale erano emersi numerosi
elementi, l’insieme dei quali aveva portato alla
convinzione che il trasferimento all’estero fosse
meramente formale ed effettuato al solo scopo di
applicare un più favorevole regime fiscale.
Con ricorso introduttivo dinanzi
alla Commissione tributaria provinciale, il contribuente
si difendeva deducendo che, non essendo egli residente
in Italia, non era obbligato alla liquidazione e al
versamento dell’imposta, gravando tali obblighi, invece,
sul committente (Dpr 633/1972, articolo 17, comma 3).
I giudici di prime cure
accoglievano parzialmente il ricorso, ritenendo non
sussistente il debito di imposta poiché l’Iva era stata
regolarmente versata dai committenti. Ritenevano invece
dovute le sanzioni per omessa presentazione della
dichiarazione (presentazione cui il contribuente era
tenuto in quanto soggetto effettivamente residente in
Italia), respingendo su questo capo il ricorso del
contribuente.
Successivamente, la Commissione
tributaria regionale riteneva non fondato l’appello
incidentale dell’ufficio perché, da un lato, non
sussisteva ai fini dell’imposta sul valore aggiunto il
presupposto della residenza e, d’altro, non poteva
essere accolta la tesi dell’unitarietà della decisione
rispetto a quanto deciso in materia di imposte dirette,
considerati i diversi presupposti impositivi e la
diversa regolazione sia delle obbligazioni di pagamento
sia degli obblighi di dichiarazione.
“Il legislatore ha infatti regolato
in maniera affatto differente” – sostiene la sentenza di
merito – l'attribuzione della qualifica di residente ai
fini delle imposte dirette e dell'IVA, per cui non è
legittimo il riferimento al D.P.R. n. 917 del 1986, art.
2, giacché tale norma riguarda solo l'imposizione
diretta e non è applicabile in materia di IVA, tenuto
conto della specifica normativa in materia di residenza
dettata per tale tributo dal D.P.R. n. 633 del 1972
(artt. 17 e 35 ter). Ne consegue l'infondatezza anche
della pretesa fiscale relativa alle sanzioni, in quanto
l'art. 17, comma 3 nella versione vigente all'epoca dei
fatti (art. 35 ter attuale) dispone che, solo chi
intende esercitare direttamente i diritti in materia di
IVA ha anche i correlati obblighi e dispone
espressamente che, per assumere tale status di soggetto
d'imposta ai fini IVA, il contribuente non residente
deve nominare un rappresentante residente con apposita
dichiarazione all'Ufficio competente”.
Contro tale decisione, l’Agenzia
delle Entrate proponeva ricorso per cassazione
denunciando, col motivo principale di impugnazione, la
violazione dell’articolo 2 del Dpr 917/1986, degli
articoli 7, 17 e 43 del Dpr 633/1972, nonché
dell’articolo 43 del codice civile.
La pronuncia della Cassazione
La Suprema corte, accogliendo il
principale motivo di ricorso, ha riconosciuto come
“giuridicamente e logicamente erronea” la sentenza dei
giudici di seconde cure, secondo cui, come
precedentemente illustrato, i concetti di residenza e di
domicilio indicati nell’articolo 43 cc, ai quali fa
riferimento il Dpr 917/1986, articolo 2, sono rilevanti
nel campo delle imposte dirette, ma non in quello
dell’Iva.
La Cassazione non ha riconosciuto
la tesi della sentenza di secondo grado in ragione della
quale, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto,
trovando applicazione l’articolo 17, comma 2, del Dpr
633/1972 (secondo il quale gli obblighi relativi alle
cessioni di beni e alle prestazioni di servizi
effettuate nel territorio dello Stato da soggetti non
residenti, che non siano identificati ai sensi
dell’articolo 35-ter, sono adempiuti dai cessionari o
committenti), sarebbe irrilevante il presupposto della
residenza.
E’ stato invece puntualizzato come
l’articolo 17, comma 2, si applichi esclusivamente nelle
ipotesi in cui il prestatore dell’opera o del servizio
sia residente all’estero e come, quindi, presupponga
l’accertamento dell’eventuale residenza all’estero del
prestatore, da individuarsi – data l’insussistenza di
una definizione speciale del concetto di residenza nella
normativa Iva – secondo i criteri stabiliti
dall’articolo 2 del Tuir.
La pronuncia ribadisce dunque
l’applicabilità, anche nel campo dell’Iva, della nozione
di residenza fiscale prevista per le imposte dirette. Ne
consegue che, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto,
gli elementi che determinano la residenza fiscale in
Italia sono:
l’iscrizione nelle anagrafi
comunali della popolazione residente
il domicilio nel territorio
dello Stato, ai sensi dell’articolo 43, comma 1 del
codice civile
la residenza nel territorio
dello Stato, ai sensi dell’articolo 43, comma 2 del
codice civile.
I predetti requisiti sono tra loro
alternativi e non concorrenti, per cui è sufficiente il
verificarsi di uno solo di essi affinché un soggetto sia
considerato fiscalmente residente.
Per quanto riguarda l’articolo 2,
comma 2, del Tuir, inoltre, occorre rifarsi alle nozioni
civilistiche di residenza e di domicilio. Pertanto, la
residenza va identificata con “il luogo in cui la
persona ha la dimora abituale” ed è quindi possibile
affermare che essa sia un quid facti: coincide con il
luogo in cui il soggetto fissa la propria dimora con una
stabilità non perpetua e continua, ma duratura.
Quanto al domicilio, secondo
l’articolo 43 cc, va individuato nel posto in cui la
persona ha stabilito “la sede principale dei suoi affari
ed interessi” ed è perciò un quid iuris: si tratta di
una relazione col territorio basata sulla valutazione di
una situazione giuridica, pur riposando sul fatto della
confluenza in un dato luogo dei più importanti affari e
interessi di una persona.
Maria Lembo |